Quali sono gli organismi che più hanno successo nel nostro pianeta? Alcuni potrebbero pensare a predatori come i leoni e gli squali bianchi. Ad altri potrebbero venire in mente gli insetti o i batteri. Ma pochi citerebbero una famiglia di piante che vediamo tutti i giorni: le graminacee.

Le graminacee hanno almeno due delle caratteristiche che servono per un successo clamoroso. Per prima cosa sono abbondanti: coprono le praterie del Nordamerica, le savane africane e le steppe eurasiatiche. In secondo luogo, comprendono molte specie diverse. Dalla loro origine, le graminacee si sono evolute in più di diecimila specie, con una sorprendente varietà di forme, dai ciuffetti d’erba alti un centimetro che si adattano al gelo dell’Antartide, agli imponenti prati erbosi dell’India settentrionale che possono nascondere intere mandrie di elefanti, fino alle foreste di bambù asiatiche, con “arbusti” alti fino a trenta metri.

Ma l’erba non è sempre stata così dominante. Per decine di milioni di anni – buona parte della loro storia evolutiva – le graminacee sono riuscite a malapena a sopravvivere. Sono cominciate a comparire nell’era dei dinosauri, più di 65 milioni di anni fa. Ma per tantissimo tempo non hanno prosperato: sono diventate la specie dominante che conosciamo oggi neanche 25 milioni di anni fa.

Perché le graminacee hanno dovuto aspettare quaranta milioni di anni per avere il loro proverbiale posto al sole? Il mistero s’infittisce sapendo che l’evoluzione ha dotato le graminacee di diverse innovazioni per migliorare le possibilità di sopravvivenza. Per esempio, di difese chimiche come la lignina e il biossido di silicio, che corrodono i denti degli animali al pascolo. Queste sostanze proteggono le graminacee anche dalla siccità, così come fanno le sofisticate caratteristiche metaboliche che gli permettono di trattenere l’acqua.

In queste condizioni le graminacee avrebbero dovuto diventare subito dominanti. Ma il loro successo tardivo rivela una profonda verità: l’affermazione di una nuova forma di vita non dipende tanto dalle sue caratteristiche intrinseche, come un miglioramento o una nuova capacità, ma piuttosto dal mondo in cui nasce.

Le graminacee fanno parte dei tantissimi organismi il cui successo è stato ritardato di milioni di anni. Le prime formiche sono apparse sul pianeta 140 milioni di anni fa, ma solo quaranta milioni di anni dopo hanno cominciato a suddividersi nelle undicimila specie che osserviamo oggi. I vari tipi di mammiferi – quelli che vivono a terra, che si arrampicano sugli alberi, che volano o nuotano – si sono affermati circa 65 milioni di anni fa, cioè cento milioni di anni dopo la loro comparsa. Una famiglia di vongole ha dovuto aspettare 350 milioni di anni prima di sfondare, evolvendosi in cinquecento specie diverse.

Queste forme di vita sono le belle addormentate dell’evoluzione biologica. Mettono in discussione molte delle convinzioni più diffuse sulla riuscita e sul fallimento. E queste perplessità non riguardano solo i cambiamenti in natura, ma anche quelli della cultura umana.

Per svilupparsi, la vita ha dovuto superare delle sfide usando l’innovazione, per esempio per estrarre energia dai minerali, dalle molecole organiche e dalla luce del sole, o sfuggire ai predatori e inseguire le prede. Ciascuna di queste sfide può essere affrontata in molti modi, che sono il risultato creativo dello sviluppo biologico. Lo sviluppo si esprime in una delle milioni di specie, ognuna con uno stile di vita unico, mentre l’evoluzione procede.

E l’innovazione non è solo biologica. Specie con sistemi nervosi sofisticati, come gli scimpanzé, i delfini e i corvi, hanno scoperto tecnologie semplici che usano per cacciare o raccogliere cibo. Nei dodicimila anni trascorsi dalla rivoluzione agricola, la cultura umana ha introdotto novità rivoluzionarie come la matematica e la scrittura, e altre più piccole che vanno dalla ruota alla carta da parati. Alcune di queste innovazioni sono delle belle addormentate: come il radar, inizialmente ignorato, o le leggi genetiche dell’ereditarietà, trascurate per decenni.

È vero che la natura e la cultura seguono regole creative diverse. L’inchiostro e i P r incipia di Newton sono un substrato della creatività diverso dalle cellule, dai tessuti e dagli organi di una balenottera azzurra. La tenacia di uno scrittore che lotta per finire un capitolo è un motore creativo diverso dalle mutazioni casuali del dna.

Ma le somiglianze sono profonde. Innanzitutto, il fatto che molte innovazioni arrivano prima del tempo. Il mondo naturale e quello culturale sono pieni di prodotti creativi senza apparente valore o utilità ma in grado, al momento giusto, di trasformare la vita. Le belle addormentate della natura possono aiutarci a capire perché creare può essere facile, ma creare in modo efficace non lo è. È fuori dal controllo del creatore.

Cambiamenti utili

I bruchi delle farfalle monarca vanno matti per un cibo pericoloso. Divorano le foglie dell’asclepiade, un’erba perenne alta pochi metri, con piccoli fiori a forma di stella raccolti in vistosi grappoli. Quando un bruco prova a mangiarla, i canali pressurizzati all’interno della foglia recisa rilasciano una sostanza lattiginosa. I bruchi sanno che è pericolosa, infatti cercano di recidere questi canali e di far defluire il latte prima di divorare la foglia. Il nome scientifico di questa sostanza è lattice, una miscela complessa e vischiosa di sostanze chimiche il cui scopo è simile a quello delle resine appiccicose, come le secrezioni gialle dei pini. Il lattice e le resine sono armi di difesa contro gli animali affamati. Quando gli insetti mordono un pezzo di una pianta che produce lattice o resina, il materiale appiccicoso può paralizzare il loro apparato boccale. Può perfino intrappolarli. Più del 30 per cento dei bruchi di farfalla monarca che escono dal bozzolo sulle foglie di asclepiade rimane impantanato nel lattice della pianta, si incolla alla foglia e muore. L’intrappolamento è solo uno dei modi in cui il lattice e le resine agiscono. Entrambe le secrezioni possono contenere anche sostanze tossiche, come i glicosidi cardioattivi.

Queste particolari armi chimiche sono esempi di innovazioni evolutive, cioè cambiamenti che aiutano una specie a sopravvivere. Non caratterizzano solo l’asclepiade. Se ne contano almeno quaranta in specie completamente diverse. Inoltre, molti organismi che le hanno incorporate hanno anche sviluppato in modo indipendente una rete di distribuzione, un elaborato sistema di canali che trasporta la sostanza appiccicosa ovunque nella pianta.

Piante acquatiche vicino a un cenote in Messico, 2019 (Brook Peterson, Stocktrek Images/Getty)

Altra dieta

Il lattice, le resine e le loro reti di trasporto sono così importanti che i biologi le fanno rientrare nella categoria delle innovazioni chiave. Questo perché non si limitano a migliorare la sopravvivenza di una specie vegetale, ma hanno conseguenze più profonde e a lungo termine per l’evoluzione.

Le piante che producono lattice si difendono meglio dagli insetti, possono crescere più velocemente e destinare più energia alla riproduzione, generando fiori e semi. Simili vantaggi gli permettono di diffondersi ulteriormente e di colonizzare nuovi habitat, in cui danno vita a nuove specie. Le innovazioni chiave promuovono la radiazione adattativa, il processo che fa germogliare nuovi rami dell’albero della vita. Una specie si moltiplica in molte altre, ognuna con uno stile di vita più adatto all’habitat.

La potenza evolutiva di queste armi chimiche è rivelata da uno studio su sedici famiglie di piante. Ognuna non solo produce lattice e resine ma è strettamente imparentata con una famiglia che non ha quell’abilità. Lo studio ha dimostrato che tredici famiglie produttrici di lattice si sono evolute in un numero maggiore di specie – fino a cento volte di più – rispetto alle famiglie imparentate senza quella capacità.

Il lattice è un’innovazione importante, ma è il prodotto di una corsa agli armamenti cominciata con un’altra innovazione, più antica, introdotta dagli insetti: la fitofagia, cioè la capacità di usare le piante come cibo.

Centinaia di milioni di anni fa gli insetti mangiavano altri animali o vivevano di scarti, cibandosi dalle carcasse di organismi morti. Passare da questa dieta a una basata sulle piante non deve essere stato facile. Un ostacolo allo stile di vita vegetariano è rappresentato dalle difese chimiche, che sono fondamentali per le piante, che non possono né scappare né nascondersi. Un altro ostacolo è che i tessuti e la linfa delle piante hanno pochi nutrienti, come azoto e aminoacidi essenziali, rispetto agli animali. Inoltre gli organismi che si nutrono di scarti possono nascondersi sottoterra, mentre quelli che si cibano di piante consumano i loro pasti all’aperto. Il loro stile di vita li espone ai predatori, attratti dai loro piccoli corpi, spesso indifesi e deliziosamente morbidi.

Il primo paziente statunitense fu trattato con la penicillina nel 1942

Nonostante queste complicazioni, la fitofagia è stata scoperta almeno cinquanta volte da specie differenti. E ha avuto molto successo, come ha dimostrato Charles Mitter, biologo dell’università del Maryland, negli Stati Uniti. Insieme ai suoi collaboratori Mitter ha dimostrato che sull’albero della vita le diramazioni di insetti che si nutrono di piante tendono a produrre più specie, a volte molte di più, rispetto alle loro controparti che mangiano cose diverse. Un esempio: all’interno della famiglia degli insetti cloropidi, il ramo che si nutre di piante conta più di 1.350 specie, mentre l’altro ne conta ottanta. Anche se solo pochi ordini di insetti hanno scoperto la fitofagia – grandi gruppi di specie come coleotteri, scarafaggi e libellule –, questa evoluzione ha avuto un tale successo che oggi la metà delle 900mila specie d’insetti del mondo si nutre di piante. La fitofagia è un’altra delle innovazioni chiave.

Secondo alcuni ci vuole un’innovazione chiave per avviare il fenomeno della radiazione evolutiva. Solo quando c’è una novità di questo tipo una specie può sfruttare le opportunità esistenti, come un clima più caldo o una nuova fonte di cibo. Questo punto di vista implica che ogni radiazione adattativa deve aspettare, anche molto tempo, finché non arriva l’innovazione giusta. E l’attesa frena l’evoluzione. Ma alcune novità, come la produzione di lattice e la fitofagia, mettono in dubbio l’ipotesi, perché sono emerse molto spesso. Forse l’innovazione evolutiva è più facile di quanto pensiamo? Forse l’evoluzione non deve aspettare le innovazioni? Il suo motore creativo è più potente di quanto crediamo? Questa possibilità è suggerita dalla sorprendente velocità con cui l’evoluzione può reagire a nuove opportunità.

Gli esempi della produzione di lattice e della fitofagia ci lasciano due opzioni. La prima è che l’evoluzione non sia altro che un’agile innovatrice. Reagisce al momento giusto a un ambiente che muta e segue da vicino molti di questi cambiamenti. Se è così, innova solo sulla scia di opportunità evolutive, come l’innalzamento di una catena montuosa o la spaccatura di un continente. La seconda opzione è più seducente: e se molte innovazioni nascessero prima del tempo, ma prosperassero solo quando le condizioni diventano favorevoli?

Troppo presto

Come nell’evoluzione naturale, anche nella cultura le innovazioni avvengono di continuo. Lo confermano numerose scoperte. Uno dei primi esempi è l’agricoltura, che è nata in modo indipendente in almeno undici posti, tra cui il Medio Oriente, la Cina, l’Africa e la Nuova Guinea, con diverse coltivazioni come il grano, il riso e il mais. La ripetuta comparsa del lattice nell’evoluzione biologica ha un parallelo nella storia umana: il lattice sfruttabile a livello commerciale, cioè la gomma naturale.

Il liquido bianco lattiginoso che esce dalle incisioni degli alberi della gomma è instabile dal punto di vista chimico. Per creare una gomma naturale stabile serve un processo noto come vulcanizzazione. Quando l’inventore Charles Goodyear scoprì per caso questo processo, nel 1839, innescò una rivoluzione commerciale. I prodotti in gomma naturale diventarono così importanti per la rivoluzione industriale che un secolo dopo il presidente della Goodyear Tire & Rubber Company, una delle principali aziende di pneumatici, definì la gomma “i muscoli e i tendini” della società. All’epoca della seconda guerra mondiale un carro armato aveva bisogno di 3.600 chili di gomma; a una nave da guerra ne servivano centinaia di tonnellate. La gomma era diventata un bene essenziale e di enorme valore.

Messa così, sembra che il successo esponenziale di questo prodotto sia dovuto a una singolare scoperta. In realtà i nativi americani avevano preceduto Charles Goodyear di quasi 3.500 anni. Avevano capito che potevano riscaldare il lattice grezzo con il succo di campanula rampicante per ottenere la vulcanizzazione. Le produzioni in gomma comprendevano statuette, elastici e palline per i giochi rituali. Ma visto che la loro innovazione era arrivata troppo presto, il suo impatto sull’umanità fu trascurabile.

Gli esempi di scoperte multiple diventano più numerosi a mano a mano che ci avviciniamo al presente, forse perché i nostri documenti storici con il tempo si sono fatti più accurati, o forse perché il ritmo dell’innovazione a un certo punto ha cominciato ad accelerare. L’orologio a pendolo è stato inventato almeno tre volte, il termometro sette volte, il telegrafo quattro e il radar sei.

La peste del mare

Molti inventori potrebbero obiettare che le innovazioni non sono facili. E in effetti potrebbero avere ragione, anche guardando ad alcuni degli inventori più prolifici della storia dell’umanità. Thomas Edison dovette provare seimila materiali diversi prima di individuare il bambù come filamento stabile per le lampadine a incandescenza. Ma l’impressione cambia se si adotta una prospettiva più ampia, come quella di uno storico che studia un’intera epoca. Da questo punto d’osservazione, la maggior parte delle invenzioni e delle scoperte non sono singoli eventi faticosi ma prodotti quasi inevitabili del loro tempo.

In circa un terzo delle invenzioni, sono passati più di dieci anni tra due scoperte indipendenti. È un indizio del fatto che le prime scoperte sono spesso ignorate o dimenticate. Viene naturale domandarsi perché. Prendiamo la cura per lo scorbuto, una malattia mortale che un osservatore del settecento definì “la peste del mare”, perché uccideva moltissimi marinai che trascorrevano mesi e mesi in mare aperto. I suoi sintomi all’inizio sono abbastanza leggeri (un senso di debilitazione e dolore alle gengive). Poi aumentano fino a causare dolori muscolari e a indebolire i denti. Culminano in disturbi – piaghe ulcerose, emorragie, convulsioni – che possono portare alla morte.

La pericolosità dello scorbuto diventò più evidente quando le compagnie navali crearono registri dettagliati e le potenze coloniali cominciarono a esplorare gli oceani alla ricerca di nuovi territori, spingendosi sempre più lontano e costringendo i marinai a stare per più tempo in mare. Durante la circumnavigazione del globo nel 1520, Magellano perse 208 marinai su 234. Nel 1740 la marina britannica perse 1.300 dei quasi duemila uomini che parteciparono alla spedizione contro gli spagnoli nel Pacifico.

In entrambi i casi la maggioranza delle morti fu causata dallo scorbuto. Una cura potente contro questa malattia – agrumi e verdure fresche – fu scoperta più volte in momenti diversi. Vasco da Gama la trovò nel 1497 – insieme a una via marittima per l’India – , ma questa conoscenza fu dimenticata. Se ne parlava anche in un manuale navale britannico del 1614, L’aiutante del chirurgo, ma evidentemente in pochi se ne accorsero, perché nel settecento la marina britannica continuava a perdere marinai più per le malattie che per le battaglie, e il primo responsabile era sempre lo scorbuto.

Il motore creativo dell’evoluzione è più potente di quanto pensiamo?

Un’altra potenziale svolta arrivò nel 1747, quando il medico navale James Lind condusse un esperimento sui potenziali rimedi per lo scorbuto che sarebbe entrato nella storia della medicina. Fu il primo studio clinico controllato. All’epoca Lind prestava servizio su una nave da guerra britannica su cui si erano ammalati di scorbuto ottanta dei 350 marinai. Isolò dodici di quelli in condizioni gravissime e somministrò a ciascuno di loro una dieta semplice integrata con uno dei sei potenziali rimedi per lo scorbuto. Due marinai ricevettero arance e limoni, altri due aceto, altri due sidro, altri due bevvero acqua di mare e così via. Dopo due settimane, la prima coppia era quasi completamente guarita. Tra le altre coppie, solo quelle che avevano ricevuto il sidro erano leggermente migliorate. Un risultato chiaro: gli agrumi potevano essere usati per trattare lo scorbuto. Ma neanche la sua scoperta cambiò le cose.

Cause esterne

Lind riassunse le sue ricerche nel Trattato sullo scorbuto del 1753. Aveva buoni rapporti con l’ammiragliato, che poteva influenzare la politica sanitaria della flotta, ma nonostante questo la marina continuò a ignorare il legame tra agrumi e scorbuto per altri cinquant’anni. Alcuni storici sostengono che Lind fu danneggiato dalla competizione con altri scienziati che avevano idee diverse dalle sue. Altri pensano che Lind fosse troppo avanti rispetto al suo tempo, un rivoluzionario intellettuale frenato da reazionari che non sopportavano il suo genio.

La verità è più complessa. Durante i lunghi viaggi oceanici i marinai non soffrivano solo per la mancanza di cibo fresco. Le cabine erano umide e sporche, l’aria opprimente e l’acqua potabile stantia. E quando raggiungevano la terraferma e la loro salute migliorava, era difficile dire se era merito del buon cibo, dell’aria fresca o dell’acqua pulita.

Il problema era aumentato anche da una convinzione profondamente radicata nella medicina del settecento. Oggi sappiamo che molte malattie hanno cause specifiche, che si tratti di un’infezione virale, di una mutazione genetica o di una carenza vitaminica. All’epoca invece i medici pensavano che ogni malattia potesse avere più di una causa: si poteva prendere lo scorbuto dall’acqua contaminata, dall’aria umida o per via degli ambienti malsani, e la costituzione giocava un ruolo determinante. Se le malattie hanno tanti fattori scatenanti, si pensava, devono anche avere tante cure. Per questo il mondo della medicina respingeva le cure “specifiche”, cioè i rimedi per una singola malattia validi per tutti i tipi di pazienti. Se un medico sosteneva di aver trovato un rimedio di questo tipo, spesso veniva accusato di essere un ciarlatano.

Alla fine il buon senso ebbe la meglio sul pregiudizio, ma ci vollero ancora cinquant’anni. Un’importante conferma sui benefici degli agrumi arrivò durante un’epidemia di scorbuto nella flotta britannica nel 1793. La diffusione della malattia fu stroncata quando il succo di limone, arrivato dal porto, aiutò a guarire i marinai. Nel 1795 la marina decise di rifornire tutte le navi della flotta di succo di limone e nel 1867 questa pratica fu imposta anche alle navi civili.

E anche quando si accettò che il succo di limone poteva curare lo scorbuto, passarono altri decenni prima che si riuscisse a capire come faceva. La risposta definitiva arrivò nel 1927, quando il biochimico ungherese Albert Szent-Györgyi isolò una molecola che chiamò acido ascorbico, dopo che altri avevano dimostrato che era l’antiscorbutico per eccellenza. Oggi la conosciamo come vitamina c.

La scoperta di una cura per lo scorbuto era prematura: perché avesse successo doveva verificarsi una serie di passaggi. Questo vale per tutte le scoperte scientifiche e per quelle che riguardano le innovazioni tecnologiche.

Alcuni di quei passaggi non devono per forza essere scoperte scientifiche. Possono arrivare da contesti diversi. Quando Alexander Fleming scoprì la penicillina, nel 1928, la comunità medica non gli dedicò molta attenzione, se non dieci anni dopo. Questo perché una cosa è scoprire una muffa che produce antibiotici, un’altra è trasformare la scoperta in un farmaco utile. Nessuno mostrò interesse all’epoca, così Fleming abbandonò la sua ricerca nel 1929.

Alla fine l’attenzione per la penicillina si risvegliò per una ragione che non aveva a che fare con la scienza: era in corso la seconda guerra mondiale e migliaia di soldati morivano per le ferite. Ma anche dopo quella svolta, i test clinici e la produzione di massa dell’antibiotico richiesero uno sforzo pluriennale e team interdisciplinari provenienti dal Regno Unito e dagli Stati Uniti. Solo nel marzo del 1942 il primo paziente statunitense fu trattato con la penicillina.

Proprio come le innovazioni dell’evoluzione biologica, molte invenzioni e scoperte umane restano dormienti per molto tempo. Alcune per pura sfortuna. Altre per via di pregiudizi radicati, inerzia al cambiamento e ragioni commerciali. Può succedere che siano troppo avanti rispetto al loro tempo. Poiché ciascuna è unica, sembrano avere poco in comune. Ma in fondo tutte le scoperte scientifiche e i progressi tecnologici condividono un aspetto cruciale: sfuggono al controllo del loro creatore. E questo fattore, che corre come un filo rosso fino all’origine della vita, può offrire qualche insegnamento anche ai creatori umani del presente. ◆ svb

Andreas Wagner è un biologo evoluzionista austriaco. Questo articolo è un adattamento dal suo libro Sleeping beauties: the mystery of dormant innovations in nature and culture (Oneworld 2023).

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1513 di Internazionale, a pagina 42. Compra questo numero | Abbonati