Di Nevermind the tempo degli I Hate My Village mi piace tutto: innanzitutto il titolo pasticciato tra inglese e italiano, che è diventato il modo più naturale in cui riesco a esprimermi, come se la mia lingua fosse un perenne incidente stradale. E mi piace soprattutto la sensazione fisica che mi trasmette, perché mi sembra il disco passato da un amico del liceo non in seguito a una minaccia. Come se lo avessi beccato in flagrante mentre faceva scarabocchi sul diario e batteva la testa a ritmo, facendo dei mezzi passi shuffle sotto la scrivania e avessi voluto sapere anch’io cosa lo rapiva così tanto; volevo essere contagiata e ballare clandestina pure io.

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Il secondo disco degli I Hate My Village è proprio un’infezione: non ricordo quand’è l’ultima volta che una canzone mi ha messo così irragionevolmente di buonumore come Water tanks. Qui tutto è colto ma anche istintivo, è giovane ma anche “attraversato”, come se l’intuizione elettrica che sta dietro alle sgrammaticature della giovinezza fosse il risultato di una miriade di viaggi fisici e mentali in terre immaginarie in cui Fatoumata Diawara scrive le canzoni dei Fugazi e i Pavement formano una superband con Mdou Moctar ispirata dai rallentamenti cardiaci dei Verdena. Di recente ho chiesto a Igort cosa trova d’interessante nella musica italiana e mi ha detto Leatherette e I Hate My Village. Sono le risposte che darei a un alieno per sballargli tutte le coordinate: qui, nonostante l’Italiapaura, c’è un mondo d’idee, etnie e lingue meravigliosamente sfasciate. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1563 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati