Una mattina di giugno del 2012 Noah Sacco si diresse verso un edificio industriale sulla West side highway, una strada a scorrimento veloce che costeggia il fiume Hudson, nella zona ovest di Manhattan, a New York. Era il primo giorno del suo nuovo lavoro. Arrivato in un minuscolo ufficio dove c’era solo una scrivania, Sacco, 25 anni, si trovò di fronte un muro coperto di fogli su cui erano disegnati i progetti del nuovo logo della A24, una piccola azienda appena nata di cui lui era il primo dipendente. Una società di distribuzione come ne esistono a centinaia nel mondo del cinema statunitense, con il compito di fare in modo che un film, una volta girato, sia promosso, proiettato, selezionato dai festival, e che arrivi agli spettatori.

Quel giorno David Fenkel, Daniel
Katz e John Hodges, i fondatori dell’azienda, spiegarono a Sacco che il nome A24 derivava da un’autostrada che collega Roma a Teramo, in Italia, ricordo di un folle viaggio che avevano fatto insieme. Tutti e tre avevano lavorato in diversi settori del cinema indipendente e poi erano riusciti a convincere il fondo di investimento Eldridge ad aiutarli a far partire la loro attività. Avevano trent’anni. Proposero a Sacco di occuparsi dello sviluppo e delle acquisizioni. In particolare, avrebbe dovuto scovare i film in cerca di un distributore.

Dieci anni dopo Sacco non è più l’unico dipendente dell’A24. L’azienda dà lavoro a circa 150 persone sparse in tutto il mondo. E, dopo aver cambiato sede molte volte, da ottobre del 2021 occupa 18mila metri quadrati di uffici nel cuore dell’elegante quartiere di Chelsea, a New York, affittati fino al 2036. Nel 2015 l’A24 ha cominciato anche a produrre i film, finanziando i progetti dall’idea iniziale al montaggio finale. Il ritmo è di dodici, quindici lungometraggi all’anno, per un bilancio complessivo di settanta milioni di dollari.

Oggi Fenkel e Katz (Hodges ha lasciato la compagnia senza dare spiegazioni pubbliche) possono decorare i loro uffici di New York, Los Angeles e Londra con i premi vinti nel corso degli anni: sette Oscar e tre Emmy, oltre a tutta una serie di altri premi nei festival di tutto il mondo.

Alla 75a edizione del festival di Cannes, che si è svolta a fine maggio, l’azienda era ben rappresentata: due film in concorso (Stars at noon di Claire Denis e Showing up di Kelly Reichardt), tre nella Quinzaine des realisateurs (Men di Alex Garland, Funny pages di Owen Kline e God’s creatures di Anna Rose Holmer e Saela Davis) e uno alla Settimana della critica con il primo lungometraggio dell’attore Jesse Eisenberg, When you finish saving the world, proiettato in apertura del festival.

Infine la nuova serie di Olivier Assayas, un adattamento del suo film del 1996 Irma vep (nella categoria Un certain regard), e il documentario su Jerry Lee Lewis firmato Ethan Coen (stavolta senza suo fratello Joel) e proiettato durante una serata speciale. Un numero impressionante di titoli, a testimonianza di un anno eccezionale per l’A24. La divisione della società che si occupa delle serie, approfittando di un periodo particolarmente positivo che sembra non finire, ha prodotto Euphoria, un affresco trash dell’adolescenza, la cui seconda stagione ha avuto un grande successo sull’emittente statunitense Hbo.

I modi usati dalla A24 per promuovere le pellicole vanno nella direzione opposta rispetto a quelli usati dagli studi di Hollywood

La Miramax dei millennial

In dieci anni l’A24 è diventata una parte fondamentale del mondo del cinema e la sua storia è in sintonia con il periodo. I suoi film sono proiettati non solo nei cinema di tutto il mondo ma anche sulle piattaforme di streaming. I film di supereroi fanno il pieno nelle sale e il cinema d’autore e indipendente è in difficoltà, ma l’A24 riesce comunque a sostenere con successo dei registi giovani ed esordienti. E questo grazie a un’esperienza in fin dei conti non lunghissima.

A metà degli anni novanta i cinefili consideravano il logo della Miramax che appariva nei titoli di testa un segno della qualità del film. Oggi succede lo stesso con l’A24. Del resto le due aziende hanno una storia per molti versi simili. Fondata nel 1979 dai fratelli Harvey e Robert Weinstein – molto prima che Harvey fosse accusato di violenze e molestie sessuali –, la Miramax è stata per diverso tempo la compagnia di distribuzione più influente del mondo.

Diventati produttori, i Weinstein hanno messo insieme una scuderia di grandi registi: Quentin Tarantino, Steven Soderbergh, Todd Haynes, Jim Jarmush, Takeshi Kitano, Patrice Chéreau, Julian Schna­bel. Nel corso degli anni hanno raccolto più di trecento nomination agli Oscar, molte selezioni al festival di Cannes e tre Palme d’oro (per Sesso, bugie e videotape nel 1989, Pulp fiction nel 1994 e Fahrenheit 9/11 di Michael Moore nel 2004).

A distinguere la Miramax e l’A24 sono soprattutto gli aspetti formali. Harvey Weinstein era soprannominato “Scissorhand” (un riferimento a Edward mani forbice) per la sua tendenza a intervenire pesantemente nella fase di montaggio dei film, a volte anche contro il parere del regista. Al contrario i responsabili dell’A24, soprannominata la “Miramax dei millennial”, sono famosi per il fatto di non interferire nel processo creativo e per la loro discrezione. Sono talmente discreti che non danno quasi mai interviste. Noah Sacco e Ravi Nandan, il responsabile della divisione per le serie, hanno accettato di parlare con Le Monde solo in modo ufficioso, cioè senza essere citati direttamente.

La regista francese Claire Denis ricorda di aver incontrato Katz e Fenkel al festival di Toronto nel 2018, dove presentava High life, un film di fantascienza in inglese con Robert Pattinson e Juliette Binoche: “Ho capito subito che tra me e loro c’era una buona intesa. Conoscevano il mio cinema, ho percepito il loro interesse per il film, al di là di Robert Pattinson. Avere dei distributori che condividono la tua sensibilità ti dà molta energia”.

Il nuovo film della regista francese preferita dai cinefili statunitensi sarà ancora una volta distribuito dall’A24. Così come quello dell’americana Kelly Reichardt, che aveva già lavorato con Katz e Fenkel per First cow, uscito a marzo del 2020. “David Fenkel è un vero newyorchese, diretto come lo sono le persone di questa città e convinto che gli artisti debbano essere al centro del processo creativo”, racconta la regista per email.

Come i fratelli Weinstein, anche Fenkel e Katz hanno dovuto farsi largo nel mondo del cinema lavorando a New York, lontano da Los Angeles, la capitale mondiale dell’industria cinematografica. Sono più in sintonia con la scena indipendente newyorchese che con i grandi studi hollywoodiani. Conoscono gli autori, gli sceneggiatori e il loro percorso professionale. A cominciare da quello dei fratelli Joshua e Benny Safdie, tipici prodotti dell’underground newyorchese, cresciuti tra il Queens e Manhattan.

L’A24 ha prodotto Good time, il loro quinto film e il loro primo vero successo. La pellicola, il cui protagonista è Robert Pattinson, è andata in concorso a Cannes nel 2017. L’azienda è anche dietro il loro film successivo, Diamanti grezzi, distribuito in esclusiva su Netflix e ambientato negli ambienti della compravendita di pietre preziose, con Adam Sandler come protagonista.

“I ragazzi dell’A24 non fanno finta, si impegnano a fondo”, dice Benny Safdie entusiasta. “Per fare Diamanti grezzi ci sono voluti dieci anni e loro ci hanno sempre sostenuto”. Contattati da Sacco nel 2015, mentre avevano al loro attivo solo qualche film a basso budget, i due fratelli hanno ricevuto l’aiuto dei produttori della A24 per ogni fase di produzione del film. “A loro il casting non interessa”, continua Safdie. “Le star per loro non sono le persone che si vedono sullo schermo ma i registi, gli sceneggiatori, i creatori. La presenza degli attori ovviamente aiuta a ottenere il finanziamento, ma non è la ragione per cui sostengono un progetto”.

Tra gli anni ottanta e novanta i fratelli Weinstein si lanciarono nella produzione, vincendo la Palma d’oro a Cannes nel 1994 con Pulp fiction e aprendo un nuovo capitolo per la Miramax. Anche la storia dell’A24 ha conosciuto due fasi. E anche il primo film prodotto dall’azienda è stato un grande successo: Moonlight di Barry Jenkins, la storia di un afroamericano omosessuale che vive in Florida. Il film ha vinto l’Oscar per il miglior film nel 2017. In entrambi i casi il successo ha attirato altro successo. Olivier Assayas si era interessato all’A24 nel 2015: il suo film Sils Maria era uscito nello stesso momento di Ex machina di Alex Garland, distribuito dall’azienda di Fenkel e Katz, e lui aveva seguito con attenzione la concorrenza. “Vedevo come promuovevano il film, facevano in modo che se ne parlasse, compravano la pubblicità nei posti giusti. Facevano un lavoro di qualità sull’immagine”, ricorda il regista francese.

Dal film Moonlight di Barry Jenkins, del 2016 (a24films)

Tempo dopo, quando ha avuto l’idea di fare una serie a partire da Irma vep – film uscito nel 1996 con Jean-Pierre Léaud e Maggie Cheung – Assayas ha pensato di contattare l’A24. L’intesa è stata immediata: “Mi hanno parlato come mi parlerebbero dei produttori europei”, dice. “Ho avuto l’impressione che capissero quello che facevo, le mie reticenze nei confronti dell’industria hollywoodiana, che lascia molta poca libertà agli autori, ed erano pronti a prendere sul serio i miei dubbi”.

Campagne aggressive

A sentire i registi si potrebbe pensare che l’A24 sia un distributore e un produttore vecchio stile. Ma anche se la parte artistica è realizzata in modo tradizionale rispettando gli autori, le sue campagne di marketing sono aggressive e molto creative. Per la promozione di Good time il volto di Robert Pattinson è stato stampato su tremila cartoni della pizza distribuiti per le strade di New York. Nel 2015, prima della presentazione al festival South by Southwest di Ex machina, film in cui Alicia Vikander interpreta una macchina umanoide chiamata Ava, l’azienda ha creato un profilo Tinder usando una foto dell’attrice (che secondo alcune voci avrebbe gradito poco l’operazione).

Il primo film di Robert Eggers, The witch, girato interamente nell’inglese del diciassettesimo secolo e con un budget limitato, è stato promosso dall’A24 nella scia degli horror di successo, come Paranormal activity, creando grande attesa tra i fan del genere.

The witch è stato uno dei successi dell’anno e ha incassato dieci volte quello che era costato. Sophie Mas, produttrice che oggi collabora con Natalie Portman e che all’epoca lavorava per la brasiliana RT Features, produttrice del film, ricorda che l’A24 lavorava in un modo che era “commerciale e al tempo faceva pensare al cinema d’autore. Riuscivano a parlare a un pubblico giovane ed era proprio quello che cercavamo. Era il primo film sia per l’attrice Anya Taylor-Joy – che sarebbe poi diventata famosa grazie alla serie La regina degli scacchi – sia per il regista Robert Eggers; sapevamo che era un buon film ma avevamo bisogno di convincere i più giovani ad andarlo a vedere, cosa tutt’altro che scontata”.

I metodi usati dalla A24 per sponsorizzare le pellicole vanno nella direzione opposta rispetto a quelli usati dagli studi di Hollywood. Le proiezioni di prova, in cui un pubblico è usato come cavia, sono molto comuni nel mondo del cinema, ma i capi dell’A24 non le vogliono. E sono anche contrari alle analisi statistiche dei dati commissionati dai grandi studi per prevedere il gradimento presso determinate categorie di persone (per esempio in base al sesso, all’etnia e alla classe sociale).

In compenso la promozione della A24 sfrutta senza scrupoli il carattere virale della rete e anche la possibilità di accedere a grandi quantità di dati attraverso gli algoritmi. “Per la maggior parte delle sue uscite in sala”, si leggeva nel marzo 2018 sul New York Times, “L’A24 spende circa il 95 per cento del suo budget destinato al marketing online usando i dati e gli strumenti di analisi per far esistere il film sui social network, facendo passare il messaggio in modo spontaneo , spingendo i fan al passaparola”.

Da sapere
Caduta e risalita
Incassi al botteghino nei cinema statunitensi, miliardi di dollari (fonte: the numbers)

Come il merchandising, anche il passaparola è vecchio come il mondo, ma nell’epoca digitale bisogna saperlo usare bene. Per questo motivo l’azienda si affida da molti anni a Operam, una startup di Los Angeles che aiuta gli studi cinematografici a sviluppare algoritmi per inviare messaggi mirati a potenziali spettatori attraverso Facebook e altri social.

Usare il marchio

L’A24 sa anche come sfruttare sistemi collaudati, lavorando con l’agenzia di marketing Web Watson Design Group, che collabora anche con Sony Pictures, Amazon Studios, Walt Disney o Warner Bros. Per promuovere i suoi film coinvolge star della cultura pop. Il cantante canadese Drake (114 milioni di follower su Instagram), produttore esecutivo di Euphoria, ha contribuito a far conoscere il progetto tra i giovani. In questo momento l’A24 sta lavorando con i rapper Megan Thee Stallion (in un musical di prossima uscita intitolato Fucking identical twins) e Travis Scott (per un film intitolato Utopia).

Le star dei social potranno salvare il cinema d’autore grazie alla loro notorietà? “L’A24 ha dato vita a una sorta di rinascita del settore stimolando di nuovo la voglia di andare al cinema”, ha detto Robert Pattinson nel maggio 2017 sull’edizione americana della rivista Gq. “Pensavamo che questa parte del nostro mondo fosse scomparso, ma nel corso degli ultimi anni abbiamo visto che non era così e questo lo dobbiamo a realtà come l’A24”.

La macchina è ben rodata. Da grandi conoscitori della storia del cinema, i dirigenti dell’A24 a volte ripropongono vecchie ricette a millennial non altrettanto esperti. Come nel caso del film horror Hereditary, che ha avuto un gran successo nel 2018, o di Midsommar, uscito l’anno successivo. Due film poco apprezzati da una parte della critica, che li ha giudicati troppo stereotipati, e soprattutto dagli intenditori del genere, che hanno visto riferimenti troppo diretti a The wicker man, capolavoro di Robin Hardy del 1973 poco conosciuto tra gli spettatori più giovani.

Se i prestiti dal passato sono alla base della creazione artistica, è evidente che l’A24 vi fa un ricorso sistematico, con uno stile definito da alcuni critici anglosassoni “artsploitation” (fusione delle parole art, arte, e exploitation, sfruttament0). Niente sembra frenare questa macchina in espansione. A luglio del 2021 la rivista Variety ha rivelato che Fenkel e Katz stavano pensando di vendere l’azienda, che secondo loro vale tre miliardi di dollari. Una notizia smentita dai diretti interessati, ma che continua a far parlare.

Nel frattempo l’A24 non vende solo film, ma s’interessa anche a cappelli e felpe. Per Joshua Safdie la società newyorchese ha fatto tornare di moda uno strumento “vecchio come Hollywood”: il merchandising. Così nel settembre del 2020 l’attrice Emma Stone compariva sulle riviste indossando un capello su cui c’era il logo dell’azienda. Qualche mese dopo Hunter Schafer, attrice della serie Euphoria, faceva lo stesso.

Come fosse un marchio di moda, l’A24 lancia collezioni molto limitate, e qualcuno si diverte a fare della speculazione online su questi prodotti. Riviste statunitensi come Vanity Fair o il New York magazine hanno scritto che un abito o un accessorio firmato A24 era il massimo della tenuta del cinefilo, dell’acculturato moderno o semplicemente di chi vuole seguire la moda.

Far parlare di sé nel campo dell’abbigliamento: nemmeno i fratelli Weinstein ci avevano pensato. ◆ adr

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1466 di Internazionale, a pagina 66. Compra questo numero | Abbonati