La cerimonia d’insediamento di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti è prevista il 20 gennaio 2025, lo stesso giorno in cui a Davos comincerà il World economic forum. Dopo la fine della guerra fredda l’appuntamento annuale nella cittadina svizzera, dove si incontrano i leader politici ed economici di tutto il mondo, è diventato un simbolo della globalizzazione. Ma Trump è un nemico dichiarato del “globalismo”. A Davos si promuove il libero mercato e si parla di cooperazione internazionale, mentre il prossimo presidente degli Stati Uniti punta sul nazionalismo – America first, prima l’America – ed è un sostenitore dei dazi commerciali.
Per trent’anni le grandi potenze hanno sposato la versione del mondo di Davos, in un periodo in cui l’interdipendenza economica ha disinnescato le rivalità geopolitiche. In passato al forum hanno partecipato anche Trump, il presidente cinese Xi Jinping e il russo Vladimir Putin.
Ma ora tutti e tre i paesi, in modi diversi, si comportano come potenze revisioniste che cercano di cambiare in modo radicale l’ordine mondiale. Quando ha invaso l’Ucraina, nel 2022, la Russia ha sacrificato i suoi legami economici con l’occidente per cercare di restaurare la grandezza del passato. La Cina è diventata più nazionalista e si comporta in modo molto minaccioso con Taiwan. E Trump ora vuole imporre un cambiamento drastico nel commercio internazionale e nei rapporti tra Washington e i suoi alleati.
Il fatto che Russia e Cina vogliano sovvertire l’ordine mondiale non è una sorpresa. La Russia è un’ex superpotenza che sta cercando di ricostruire la sua influenza, mentre la Cina è una superpotenza in ascesa che vorrebbe piegare il resto del mondo alle sue ambizioni. La cosa davvero sorprendente è il revisionismo statunitense, ed è anche quella che potrebbe avere le conseguenze più profonde.
Gli Stati Uniti sono ancora il paese più potente e ricco del mondo. Il dollaro è la valuta di riserva mondiale e il sistema di alleanze guidato da Washington è alla base della sicurezza in Europa, in Asia e nelle Americhe. Se gli Stati Uniti dovessero rivedere sul serio i loro impegni internazionali, il mondo sarebbe costretto ad adattarsi. Sembra proprio che stia andando così. Secondo John Ikenberry, esperto di relazioni internazionali all’università di Princeton, Trump è pronto a contestare “quasi tutti gli elementi dell’ordine internazionale liberista: commercio, alleanze, migrazioni, multilateralismo, solidarietà tra le democrazie e diritti umani”.
I primi a sentirsi minacciati da questo cambiamento sono gli alleati di Washington. Le potenze di media grandezza con sistemi democratici, come il Regno Unito, la Corea del Sud, la Germania e l’intera Unione europea, sono abituate a un mondo in cui i mercati statunitensi sono aperti e gli Stati Uniti sono una garanzia di sicurezza contro le minacce dei governi autoritari. Ma Trump ha promesso d’imporre pesanti dazi ad alcuni degli alleati più stretti e ha messo in discussione le garanzie di sicurezza offerte dal suo paese, compreso l’articolo 5 della Nato sulla difesa reciproca. Mesi fa ha detto che permetterebbe alla Russia di “fare quello che diavolo vuole” con i paesi della Nato che non rispetteranno gli impegni presi per il bilancio della difesa.
Le conseguenze delle minacce di Trump si sono fatte subito sentire in alcuni paesi. Dopo essersi dimessa da ministra delle finanze del Canada, a dicembre Chrystia Freeland ha accusato il primo ministro Justin Trudeau di non aver saputo riconoscere “il grave pericolo” creato dal “nazionalismo economico degli Stati Uniti, a cominciare dalla promessa di introdurre dazi fino al 25 per cento”.
Reazioni diverse
La necessità di rispondere agli eventuali dazi di Trump preoccupa i diplomatici di tutto il mondo occidentale. Capire come farlo è particolarmente difficile anche perché non conosciamo le sue vere intenzioni. È prima di tutto un uomo d’affari, quindi aperto alla trattativa? Oppure è un estremista che vuole mandare all’aria il sistema costi quel che costi?
La risposta iniziale dell’Unione europea si baserà sulla speranza che le minacce di Trump siano solo una tattica negoziale, e che quindi sia possibile trovare un accordo per evitare una guerra commerciale totale. Detto questo, se Trump dovesse imporre dazi consistenti per un periodo prolungato, è probabile che Bruxelles si rassegni all’idea di restituire il colpo.
Altri alleati di Washington, come il Regno Unito e il Giappone, potrebbero reagire in modo diverso. Il governo britannico spera che Trump risparmi Londra dai dazi, contando sul fatto che gli Stati Uniti hanno un piccolo surplus commerciale con il Regno Unito. Se fossero colpiti dai dazi, i britannici difficilmente risponderebbero con la stessa moneta, considerata l’importanza del rapporto tra i due paesi nel campo della sicurezza. Il Giappone è un bersaglio più scontato, visito che invece ha un forte surplus commerciale con gli Stati Uniti. Ma vari funzionari giapponesi non credono che Tokyo risponderebbe in modo aggressivo. Neanche i giapponesi vogliono che a Trump venga la tentazione di usare le garanzie di sicurezza e gli aiuti militari in un eventuale negoziato.
Il fatto che gli alleati di Washington si affannino per trovare un equilibrio tra le priorità commerciali e la sicurezza nazionale dimostra che in ballo non c’è solo l’ordine economico internazionale.
In Europa e in Asia la posta in gioco riguarda anche i rapporti di potere. A livello geopolitico Russia e Cina sono le due principali forze revisioniste mondiali, perché chiedono un cambiamento dei confini internazionali e della sicurezza regionale e globale. Putin e Xi vedono delle opportunità nella situazione attuale. In un recente discorso a un vertice delle economie emergenti (Brics) in Russia, il leader cinese ha parlato dell’inizio di una nuova era “definita dalla turbolenza e dalla trasformazione”. Putin ha usato gli stessi toni in un discorso pronunciato a Sochi, una città russa sul mar Nero, il 7 novembre 2024, due giorni dopo la vittoria di Trump: “Un nuovo ordine mondiale sta emergendo davanti ai nostri occhi”.
A volte Putin e Trump usano la stessa retorica. Nel discorso di Sochi il presidente russo ha indicato come suo nemico “il messianismo liberale e globalista”, un sentimento che riecheggia nelle dichiarazioni di Trump. Ma esiste una differenza chiara tra i due: mentre Trump vuole un nuovo ordine mondiale in cui gli Stati Uniti siano più ricchi e potenti, l’obiettivo principale di Putin è ridimensionare il peso di Washington. Davanti alla platea di Sochi, il leader russo ha dichiarato che “in gioco c’è il monopolio del potere dell’occidente emerso dopo il crollo dell’Unione Sovietica”.
Anche Xi vorrebbe ridimensionare il peso dell’occidente, e ripete spesso che “i paesi orientali sono in crescita mentre quelli dell’ovest sono in declino”. Russia e Cina sperano di rafforzare i Brics per contrastare il G7 dominato dall’occidente.
Al di là delle questioni generali, Putin e Xi hanno rivendicazioni territoriali specifiche. A Washington e Bruxelles si è diffusa la convinzione che la Russia non solo voglia conservare i territori ucraini occupati ma anche mettere fine all’indipendenza dell’Ucraina, ottenendo un diritto di veto sulla sua politica estera e di sicurezza e installando a Kiev un governo vicino al Cremlino. Alcuni funzionari occidentali sottolineano che prima dell’invasione Putin faceva richieste che non si limitavano all’Ucraina. In un ultimatum diffuso da Mosca a dicembre del 2021, la Russia chiedeva anche il ritiro di tutte le forze Nato dai paesi dell’Europa orientale entrati nell’alleanza dopo il collasso del blocco sovietico.
Tra i paesi della Nato prevale l’idea che la guerra in Ucraina – in cui Kiev ha inflitto gravi perdite a Mosca grazie al sostegno dell’occidente – abbia radicalizzato ulteriormente Putin e le sue ambizioni. “Dobbiamo capire che la Russia pensa di essere già in guerra con noi”, spiega un alto funzionario europeo. Un suo collega statunitense aggiunge che una vittoria russa in Ucraina rappresenterebbe una “grave minaccia” per la Nato. La percezione di una vittoria russa in Ucraina potrebbe avere conseguenze in tutto il mondo, in particolare in Cina. Xi potrebbe sentirsi incoraggiato a realizzare le sue ambizioni revisioniste in Asia. Secondo Steve Tsang, docente alla Soas university di Londra, “la conquista di Taiwan” è parte integrante del “sogno per la Cina” di Xi. Per il presidente cinese la vittoria su Taipei segnerebbe “l’affermazione della Cina come potenza preminente” nell’indo-pacifico e in prospettiva anche nel mondo.
Pechino fa leva sul fatto che Taiwan sia riconosciuta a livello internazionale come parte della Repubblica popolare cinese, ma allo stato attuale l’isola si autogoverna e la sua indipendenza di fatto può essere cancellata solo da un’intensa pressione cinese o addirittura da un’invasione. In Cina i leader politici taiwanesi sono considerati pericolosi separatisti. Negli Stati Uniti si dice che Xi abbia ordinato all’esercito di prepararsi a conquistare Taiwan entro il 2027. Il leader cinese ha parlato pubblicamente del 2050 come data limite, ma considerando che è arrivato alla soglia dei 71 anni, potrebbe essere tentato di accelerare i tempi per consolidare la propria eredità politica.
Joe Biden ha ribadito più volte che gli Stati Uniti sono pronti ad andare in guerra per difendere Taiwan da un’invasione cinese. Trump invece non si è mai espresso su questo punto. Anche se è circondato da “falchi” sulla questione cinese, si è presentato come un candidato che vuole pace e ha manifestato più volte la sua ammirazione per Xi e Putin.
Cinque scenari
Le implicazioni del programma revisionista di Trump sono complicate ulteriormente dal fatto che il leader repubblicano non agirà in un vuoto internazionale. Dovrà infatti rispondere alle azioni e alle reazioni delle potenze straniere, a cominciare da Mosca e Pechino. Alla luce di tutti gli elementi analizzati, è difficile dire in che direzione andrà il nuovo ordine mondiale. Possiamo immaginare cinque scenari.
1. Un accordo tra potenze In questo caso la tendenza di Trump a trattare tutto come uno scambio commerciale, la sua determinazione a evitare la guerra e il suo disprezzo per gli alleati democratici porterebbero gli Stati Uniti a stringere un accordo con la Russia e la Cina. Washington garantirebbe a Mosca e a Pechino una sfera d’influenza nelle rispettive regioni, mentre gli Stati Uniti si concentrerebbero sul dominio delle Americhe, imponendo la loro linea su Messico e Canada e prendendo il controllo del canale di Panamá e della Groenlandia. Trump costringerebbe l’Ucraina ad accettare un accordo di pace senza dare garanzie di sicurezza e ridurrebbe le sanzioni contro la Russia. Un’intesa con la Cina porterebbe a ridurre le sanzioni tecnologiche contro Pechino, che s’impegnerebbe a comprare i prodotti statunitensi e a concedere agevolazioni per aziende come la Tesla. Trump farebbe capire di non voler combattere per Taiwan, mentre gli alleati degli Stati Uniti in Europa e Asia sarebbero costretti a trovare un’alternativa per garantire la propria difesa, in un’atmosfera d’incertezza.
2. Una guerra involontaria In questo scenario gli alleati occidentali finirebbero invischiati in una guerra commerciale che alimenterebbe l’instabilità politica in Europa, con l’ascesa di forze populiste vicine a Trump e a Putin. In Ucraina si arriverebbe a un cessate il fuoco ma con la paura, per i paesi europei, che la Russia possa riprendere le ostilità in ogni momento. Trump metterebbe in discussione l’impegno degli Stati Uniti a difendere gli alleati. Cina, Russia o Corea del Nord – o una combinazione di questi tre paesi – deciderebbero di approfittare della crisi occidentale per lanciare un’azzardata campagna militare in Asia o in Europa. Le democrazie asiatiche ed europee reagirebbero e gli Stati Uniti finirebbero per essere trascinati nel conflitto, come già successo due volte nel novecento.
3. Anarchia in un mondo senza leader In questa ipotesi gli Stati Uniti, la Cina, la Russia e l’Unione europea eviterebbero un conflitto diretto, ma le politiche nazionaliste di Trump sul commercio, la sicurezza e le istituzioni internazionali creerebbero un vuoto di potere. Le guerre commerciali frenerebbero la crescita economica in tutto il mondo. Le guerre civili in paesi come Sudan e Birmania si intensificherebbero, mentre le Nazioni Unite sarebbero destabilizzate dalla rivalità tra le grandi potenze, perdendo la capacità di intervenire. Le potenze regionali, alla ricerca di vantaggi geopolitci e del controllo delle risorse, alimenterebbero una serie di conflitti. Altri paesi sprofonderebbero invece nell’anarchia violenta, seguendo un percorso simile a quello di Haiti. I profughi si riverserebbero in massa nei paesi occidentali. I partiti populisti trionferebbero in un clima d’insicurezza sociale ed economica.
4. La globalizzazione senza gli Stati Uniti Washington imporrebbe pesanti dazi commerciali e lascerebbe l’Organizzazione mondiale del commercio. Negli Stati Uniti i prezzi aumenterebbero e ci sarebbe una scarsità di prodotti. Il resto del mondo risponderebbe accelerando l’interdipendenza economica. L’Unione europea stringerebbe un accordo commerciale con l’America Latina e firmerebbe patti con l’India e la Cina. L’Europa aprirebbe il suo mercato alla tecnologia verde e ai veicoli elettrici cinesi, in cambio della creazione di fabbriche cinesi sul suo territorio e dell’impegno di Pechino a limitare le mire espansionistiche della Russia. L’integrazione del sud globale nell’economia cinese si rafforzerebbe, mentre i Brics accoglierebbero nuovi paesi e aumenterebbero la loro influenza. Comincerebbe il declino del dollaro come valuta globale.
5. Il successo dell’ America first In questo scenario verrebbe premiata la fede di Trump nella natura irresistibile del potere americano. Aumenterebbero gli investimenti negli Stati Uniti, rafforzando il dominio del paese in campo tecnologico e finanziario. Gli europei e i giapponesi accetterebbero di spendere di più per la difesa, scoraggiando le tendenze aggressive di Russia e Cina. I dazi americani frenerebbero la crescita cinese, mandando in crisi il sistema di Pechino. Il regime iraniano cadrebbe a causa della pressione militare ed economica esterna e delle proteste sul fronte interno. Trump guadagnerebbe consensi in patria e all’estero. I progressisti statunitensi sarebbero ridotti al silenzio e alcuni nemici di Trump finirebbero dietro le sbarre. Il mercato azionario toccherebbe vette mai raggiunte.
La realtà dei prossimi cinque anni sarà probabilmente uno strano miscuglio di tutte queste ipotesi, con l’aggiunta di sviluppi imprevedibili. Come scrisse Antonio Gramsci alla fine degli anni venti, “il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. ◆ as
Gideon Rachman è un giornalista britannico. Scrive di politica internazionale per il Financial Times. Il suo ultimo libro è The age of the strongman (2022).
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Questo articolo è uscito sul numero 1597 di Internazionale, a pagina 42. Compra questo numero | Abbonati