Non si deve essere Godot, per alimentare un’attesa. Si può essere anche Pino Insegno, il cui ritorno in tv è annunciato con straordinario clamore drammaturgico. Il comico e doppiatore romano si è prestato alla campagna elettorale di Giorgia Meloni con un tale trasporto da conquistare sulla carta una poltrona televisiva di prima fila. Non è semplice. La Rai di poltronissime ne ha una sola: Sanremo, e l’astuto Lucio Presta (agente di Amadeus) ci ha già messo il cappello sopra. La casella più appetibile resta quindi quella dei quiz di mezza serata. Ma il caso Insegno è vincolante per due motivi: in un momento di ricomposizione del pantheon culturale della destra, dopo l’offensiva su Dante, serve una figura in carne e ossa che attesti la vitalità dell’agire conservatore. E se è vero che questo è il governo del merito, è giusto tributare a Insegno, che si è esposto politicamente, il dovuto elogio. Certo, il suo è un merito “istituzionale”, manca l’aspetto del “risarcimento”, come spesso succede nella storia del servizio pubblico: far rientrare dalla porta principale chi è stato cacciato da quella di servizio. Sullo sfondo non ci sono editti o censure, non c’è il “furor di popolo” a invocarlo, forse neppure quell’eccellenza artistica che il critico non seppe scorgere. La vera gloria di Insegno è nella promessa della sua comparsa che lui, semmai aspirasse all’immortalità, potrebbe affidare solo alle parole di Vladimiro ed Estragone. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1506 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati