Danielle Henderson, madre di cinque figli, ha smesso di fare l’infermiera nel 2020, quand’è scoppiata la pandemia di covid-19. Non c’erano abbastanza camici, mascherine e altri materiali per proteggersi dal contagio, racconta. “All’epoca ero incinta e non mi sentivo tutelata. E mentalmente ero già esaurita, anche prima del covid”. Henderson, che ha fatto l’infermiera per otto anni, è una delle centinaia di migliaia di operatori sanitari che hanno abbandonato un settore alle prese con carenza di personale già prima della pandemia. Nel 2020 l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) avvertiva che in tutto il mondo mancavano 5,9 milioni di infermieri, quasi un quarto dell’attuale forza lavoro, pari a 28 milioni di persone. Il sottodimensionamento più evidente si registrava nei paesi a reddito medio-basso dell’Africa, dell’America Latina, del sudest asiatico e del Mediterraneo orientale. La pandemia ha peggiorato la situazione. Secondo l’Oms, dal gennaio 2020 al maggio 2021 sono morti di covid-19 più di 180mila operatori sanitari. Molti altri hanno avuto problemi di esaurimento fisico e mentale, faticando a gestire il caos e la paura prodotti dalle ripetute ondate del virus, che hanno riempito i reparti di terapia intensiva degli ospedali in tutto il mondo. In molti paesi ricchi le autorità sanitarie avvertono che la carenza di infermieri qualificati e l’alto tasso di assenteismo per malattia tra gli operatori in prima linea stanno mettendo in crisi un settore già sotto pressione, vanificando i progressi fatti negli ultimi anni per ampliare gli organici. Howard Catton, amministratore delegato del Consiglio internazionale degli infermieri (Icn), una federazione formata da più di 130 organizzazioni infermieristiche nazionali, riconosce che gli infermieri sono stati giustamente elogiati dai governi per il loro “eroismo” quand’è scoppiata la pandemia. Tuttavia, sottolinea, le autorità non si stanno impegnando abbastanza per risolvere i problemi strutturali, come le retribuzioni basse, le cattive condizioni di lavoro e una formazione inadeguata.

In tutto questo, in Europa e negli Stati Uniti l’invecchiamento della popolazione sta facendo crescere la domanda di servizi sanitari, ma le scarse opportunità formative in molti paesi occidentali e i tagli generalizzati alla spesa sanitaria stanno rendendo le assunzioni sempre più difficili. “La carenza di infermieri in tutto il mondo rappresenta una delle più grandi minacce sanitarie”, dice Catton. Fino a tre milioni di infermieri, aggiunge, potrebbero lasciare la professione prima del previsto a causa della pandemia.

Marsiglia, Francia, aprile 2020 (Antoine d’Agata, Magnum/Contrasto)

Negli Stati Uniti durante la crisi del covid-19 diversi stati hanno chiesto aiuto alla guardia nazionale (una forza militare di riservisti) per rafforzare i presidi negli ospedali e nelle case di cura. Con l’intento di assumere infermieri dall’estero, inoltre, molti paesi ricchi hanno introdotto una serie di “misure rapide e d’emergenza” che secondo alcuni esperti rischiano di trasformare la mancanza di personale nei paesi in via di sviluppo in una crisi a lungo termine. La provincia canadese del Québec ha stanziato 65 milioni di dollari canadesi (circa 47,5 milioni di euro) per assumere e formare entro due anni infermieri stranieri, provenienti soprattutto da Algeria, Camerun, Mauritius, Marocco e Tunisia. Nel 2021 lo stato dell’Australia Occidentale ha lanciato una campagna per attirare infermieri dall’estero, offrendo voli gratis, indennità di trasferimento e la copertura delle spese per la quarantena in albergo. Nei momenti di necessità prendere personale dall’estero sembra una “soluzione rapida”, dice Catton, ma spesso ne fanno le spese i paesi dove ci sono meno infermieri in rapporto alla popolazione e che “non possono permettersi di perderli. Le conseguenze lì possono essere davvero drammatiche”.

Il quadro completo degli effetti della pandemia sulla popolazione infermieristica non è ancora chiaro a causa di una raccolta dei dati incompleta. Gli studi sul campo e le statistiche nazionali, tuttavia, mostrano che le strutture sanitarie hanno sempre più difficoltà a mantenere gli organici. A maggio il Nursing and midwifery council del Regno Unito ha rivelato attraverso un sondaggio che più di 27mila infermieri e ostetrici sono usciti dal registro ufficiale della categoria tra il marzo 2021 e il marzo 2022, un aumento del 13 per cento rispetto all’anno precedente. Un terzo degli intervistati ha dichiarato che la decisione di lasciare era stata influenzata dalla pandemia, dallo stress e da un cattivo ambiente di lavoro.

Secondo uno studio dell’azienda di consulenza McKinsey pubblicato nell’agosto 2021, negli Stati Uniti circa il 15 per cento degli infermieri ha lasciato il lavoro durante il primo anno della pandemia, contro l’11 per cento dell’anno precedente. E tra quelli ancora operativi, uno su cinque ha manifestato l’intenzione di smettere di prestare assistenza diretta ai pazienti entro un anno.

Marsiglia, Francia, aprile 2020 (Antoine d’Agata, Magnum/Contrasto)

Da un successivo rapporto della McKinsey è emerso che l’insoddisfazione della categoria è diffusa ovunque. In cinque dei sei paesi osservati (Stati Uniti, Regno Unito, Singapore, Giappone e Francia) circa un terzo degli infermieri ha detto di volersi dimettere entro la fine dell’anno. Le motivazioni citate sono straordinariamente uniformi, osserva Gretchen Berlin, che ha guidato il gruppo di ricerca ed è un’ex infermiera diplomata. La retribuzione figura relativamente in basso nella lista. Le lamentele riguardano soprattutto la mancanza di riconoscimento e apprezzamento, i carichi di lavoro e il bisogno di un “senso d’appartenenza”. “La buona notizia”, dice Berlin, “è che le soluzioni a questi problemi ci sono”. In Arkansas, dopo aver lasciato il lavoro, Henderson ha aperto un’attività di cookie design (decorazione di biscotti). Le sollecitazioni fisiche e mentali imposte dalla professione erano diventate eccessive, spiega. “C’è troppo da fare: accoglienza di base, pulizie, pesi da sollevare; e poi bisogna badare ai pazienti ed essere empatici. Non credo che gli infermieri siano adeguatamente retribuiti per tutto questo”.

Emotivamente in salute

Come testimonia il caso di Henderson, l’esaurimento fisico e mentale era un problema già prima della pandemia. Secondo uno studio del 2021 pubblicato su una delle riviste del network Jama, un consorzio di pubblicazioni mediche, un’infermiera aveva il doppio delle probabilità di suicidarsi rispetto a una persona comune.

Dal marzo 2020, quando il covid-19 si è diffuso negli Stati Uniti, un terzo degli infermieri non è “emotivamente in salute”, rivela un sondaggio dell’American nursing association. Matthew Crecelius, a cui è appena scaduto il contratto da infermiere a tempo determinato nel Missouri, è tra quelli che stanno pensando di abbandonare la professione. “Fare i turni di notte e lavorare per orari prolungati non è il massimo per la mia salute mentale. È un mestiere davvero duro”, dice Crecelius, 31 anni, che sta cercando lavoro come istruttore nel campo delle apparecchiature elettromedicali. Durante la pandemia lavorava a New York, dove i corpi dei malati deceduti erano ammassati nei camion refrigerati, e l’esperienza lo ha segnato.

La provincia canadese del Québec ha stanziato 65 milioni di dollari canadesi per assumere e formare entro due anni infermieri stranieri

Ma Crecelius è preoccupato anche da un caso finito di recente sui giornali, in cui un infermiere è stato denunciato per aver commesso un errore sul lavoro. “Mi sono rivolto a uno psicologo per avere dei consigli, era una cosa che non avevo mai fatto”, dice.

Nel settembre 2021 l’American nursing association ha chiesto al governo degli Stati Uniti di dichiarare lo stato di crisi nazionale a causa della carenza di infermieri, che secondo le stime ammonterebbe addirittura a un milione di operatori. L’associazione chiedeva anche che si attivassero degli interventi strutturali e una serie di misure per migliorare la salute mentale della forza lavoro.

Secondo gli esperti, tuttavia, gli Stati Uniti sono in una posizione migliore rispetto a molti altri paesi ricchi, con sedici infermieri ogni mille abitanti, un rapporto tra i più alti del mondo sviluppato. Secondo le stime della Banca mondiale, nel Regno Unito il rapporto è dieci ogni mille, mentre la media mondiale è di quattro infermieri ogni mille abitanti. “Negli Stati Uniti non c’è carenza di infermieri. Negli ultimi vent’anni abbiamo aumentato gli organici introducendo misure che rendono la professione più attraente, e ogni anno si diplomano 185mila infermieri”, dice Linda Aiken, docente della scuola per infermieri dell’università della Pennsylvania. “Il problema è che le aziende sanitarie non ne assumono abbastanza”.

Le strutture private, spiega Aiken, non investono molto nell’assunzione dei nuovi diplomati, e la conseguenza è una carenza di personale infermieristico nelle cliniche e nelle case di cura. Uno dei problemi più evidenti del sistema sanitario statunitense, aggiunge, è che non esistono requisiti minimi di qualità nelle assunzioni in grado di garantire standard di assistenza adeguati.

Nel Regno Unito la situazione è diversa, osserva Aiken. Qui la mancanza di personale è dovuta a una consolidata dipendenza dagli infermieri stranieri, che hanno colmato le lacune interne sia dal punto di vista numerico sia da quello delle competenze. Tra il marzo 2021 e il marzo 2022 il registro degli infermieri e degli ostetrici del Regno Unito ha raggiunto il suo massimo storico, con 760mila iscritti. Quasi la metà dei nuovi arrivati, però, si era formata all’estero.

Andrea Sutcliffe, presidente del Nursing and midwifery council del Regno Unito, dice che due terzi degli assunti dall’estero provengono dall’India e dalle Filippine. Affidarsi tanto al personale straniero comporta rischi significativi, osserva. “Nei primi tre mesi della pandemia le assunzioni internazionali sono crollate quasi a zero, perché ovviamente nel Regno Unito non entrava più nessuno. La dipendenza dagli infermieri stranieri ci rende vulnerabili ai cambiamenti che avvengono nel resto del mondo”.

Nel 2021 quasi quattromila infermieri provenienti dalla Nigeria e dal Ghana si sono iscritti al registro britannico

Bis0gna coinvolgere più lavoratori locali ed essere bravi a mantenere gli organici, dice Sutcliffe, che ha delle riserve etiche sulle assunzioni dall’estero. “Siamo sicuri che non stiamo privando altri paesi di risorse valide e preziose?”, dice. Nel Regno Unito il dipartimento della salute e dell’assistenza sociale ha “un codice etico di condotta” che esclude le assunzioni fatte in paesi dove c’è carenza di personale. Ma secondo Sutcliffe “è evidente che arrivano infermieri anche dagli stati inclusi nella lista rossa dell’Oms”.

Non è compito del Nursing and midwifery council far rispettare il codice etico, ma il consiglio, insieme al dipartimento della salute, confida sul fatto che le aziende sanitarie “prestino attenzione a dove assumono”.

Assunzioni all’estero

La Nigeria e il Ghana sono sulla lista rossa dell’Oms. Eppure, nel 2021 quasi quattromila infermieri provenienti dai due paesi africani si sono iscritti al registro britannico. A questi si aggiungono 3.655 infermieri dello Zimbabwe, un paese con significative carenze nell’assistenza infermieristica.

In un rapporto presentato di recente all’Assemblea mondiale della sanità, il direttore generale dell’Oms Adhanom Ghebreyesus ha osservato che molti paesi “si stanno ancora una volta affidando alle assunzioni dall’estero per accrescere rapidamente la capacità interna”, uno sviluppo che rischia di “accelerare la migrazione e la mobilità globale del personale sanitario”. Secondo gli esperti, tuttavia, le assunzioni dall’estero non sono necessariamente un male. Paesi come le Filippine, l’India e la Giamaica si sono affermati come centri di formazione per gli infermieri, e le rimesse dall’estero hanno fatto bene alla loro economia. In Africa, dove in alcuni paesi il numero degli infermieri in rapporto alla popolazione è di 0,1 ogni mille abitanti, le implicazioni etiche sono più complesse. Il Kenya è un esempio delle dinamiche complicate che si innescano quando si spostano risorse e competenze infermieristiche da un paese in via di sviluppo a uno più ricco. Il governo britannico ha siglato un accordo con Nairobi in cui s’impegna ad assumere solo gli infermieri disoccupati nel loro paese. Bernard Mwega, dirigente della National nurses association of Kenya, spiega che l’accordo in sé non danneggia il sistema sanitario locale, perché i diplomati delle scuole per infermieri sono molti di più di quelli che trovano lavoro.

Tuttavia, il motivo per il quale molti infermieri specializzati in Kenya restano disoccupati è che il sistema sanitario pubblico è sottofinanziato. Mwega riferisce che, secondo voci non confermate, il governo sta pensando di imporre delle restrizioni sul numero di infermieri che possono andare a lavorare all’estero.

Jim Campbell, direttore del dipartimento del personale sanitario dell’Oms, dice che le destinazioni più comuni per gli infermieri sono il Regno Unito, il Canada, la Nuova Zelanda, l’Australia, gli Stati Uniti, i paesi del golfo Persico e la Francia. Uscendo dall’Unione europea, spiega Campbell, il Regno Unito ha chiuso una delle sue principali fonti di approvvigionamento e ora si ritrova con “un numero enorme di posizioni scoperte”, proprio mentre il governo conservatore di Boris Johnson si è dato l’obiettivo politico di assumere cinquantamila nuovi infermieri entro il 2024. “A chi ti rivolgi allora?”, dice Campbell. “È chiaro che cerchi di sfruttare i canali del Commonwealth che il sistema sanitario britannico ha sempre avuto”. Probabilmente, aggiunge, la pandemia e i suoi postumi hanno reso più attraente la prospettiva di lavorare nel Regno Unito. “Prendiamo un lavoratore dell’Africa subsahariana: c’è l’inflazione, il tuo salario all’improvviso vale il 20 per cento di meno, mancano i farmaci e le apparecchiature per il covid-19. Poi ti guardi intorno e ti accorgi che puoi andare a lavorare in un bellissimo ospedale a Londra o in una casa di cura in Scozia, guadagnare dieci volte di più e mandare i tuoi figli a scuola”.

Marsiglia, Francia, aprile 2020 (Antoine d’Agata, Magnum/Contrasto)

A riprova delle tensioni esistenti tra gli stati a reddito medio-basso e quelli più ricchi, il vicepresidente dello Zimbabwe Constantino Chiwenga, che è anche ministro della salute, ha chiesto alle Nazioni Unite di contribuire a risarcire il suo paese per gli operatori sanitari che vanno a lavorare nel Regno Unito. Le cifre ufficiali mostrano che solo nel 2021 lo Zimbabwe ha perso circa 1.800 infermieri, più del 10 per cento del personale degli ospedali pubblici. Quasi tutti sono andati nel Regno Unito. “Se applichiamo la logica e i numeri del vicepresidente, l’investimento stimato in capitale umano supera facilmente i cento milioni di dollari, che adesso sono risorse del servizio sanitario britannico”, osserva Campbell.

Un danno senza precedenti

Il covid-19 ha già causato “un danno senza precedenti” alla professione infermieristica a livello mondiale, scrive l’International centre on nurse migration in un rapporto pubblicato a gennaio. L’ong ha invitato le autorità sanitarie nazionali e internazionali a varare un piano d’azione urgente, chiedendo un monitoraggio indipendente dei flussi transfrontalieri degli infermieri, delle agenzie di reclutamento che fanno da intermediarie e degli accordi bilaterali tra i paesi ricchi e quelli in via di sviluppo.

James Buchan, socio anziano dell’ente di beneficenza britannico the Health foundation e coautore del rapporto, dice che è difficile capire se alcuni paesi ricchi stanno violando il codice di condotta dell’Oms, perché non c’è modo di verificare come gli infermieri stranieri entrino nei vari sistemi sanitari nazionali. Un monitoraggio più stringente aiuterebbe a fare chiarezza.

Quello che serve, spiega Buchan, è un intervento coordinato a livello nazionale e internazionale. Le autorità nazionali devono affrontare innanzitutto il problema del sottodimensionamento degli organici, prima causa dell’esaurimento fisico e mentale e dell’abbandono della professione. La soluzione è migliorare l’offerta formativa interna e garantire condizioni economiche e di lavoro eque.In un referendum che si è svolto a novembre, viste le carenze di personale emerse durante la pandemia, la Svizzera ha votato per migliorare le condizioni di lavoro degli infermieri. “Ci sono troppi infermieri che abbandonano la professione, e un terzo ha meno di 35 anni”, dice Yvonne Ribi, direttrice dell’Associazione svizzera degli infermieri. “Il problema non sono le retribuzioni, ma le cattive condizioni di lavoro”. Il referendum impegna il governo a mettere mano alle riforme.

Secondo Ribi, anche gli altri paesi dovrebbero prendere ispirazione dal messaggio lanciato dagli elettori svizzeri. “La gente ha bisogno di infermieri, in tutto il mondo. Altrimenti ci saranno sofferenze, morti e costi sanitari più alti”, dice Ribi. Buchan è d’accordo: “Le autorità devono prendere atto che gli infermieri sono al centro della ripresa economica. Uno dei punti fondamentali è che l’assistenza infermieristica non deve essere considerata un costo per un paese, ma un investimento”. ◆ fas

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Questo articolo è uscito sul numero 1467 di Internazionale, a pagina 68. Compra questo numero | Abbonati