Le autorità di Charkiv, la seconda città dell’Ucraina, stanno derussificando i nomi delle strade. Invece di commemorare uno scrittore comunista russo d’avanguardia che si è suicidato negli anni trenta, oggi il nome della via dove ho alloggiato a ottobre è intitolata a uno scrittore comunista ucraino d’avanguardia che si è suicidato negli anni trenta: via Vladimir Majakovskij è diventata via Mykola Chvylovyj. Ho letto alcuni racconti di Chvylovyj durante il viaggio in treno dalla Polonia. Il suo amaro e allucinatorio Io (Un romanzo), in cui un agente della polizia politica dell’Ucraina sovietica uccide la madre nella Charkiv post-rivoluzionaria, ha gli echi e le atmosfere della Charkiv di oggi: una città assediata, con l’elettricità che va e viene e il rumore dell’artiglieria in lontananza.
Podcast | |
Questo articolo si può ascoltare nel podcast di Internazionale A voce.
È disponibile ogni venerdì nell’app di Internazionale e su internazionale.it/podcast
|
Ma ci sono anche delle differenze. Charkiv non corre il rischio immediato di cadere sotto il controllo russo, e nonostante i bombardamenti e le finestre sprangate la città è illuminata e ben tenuta. Quello che nel romanzo di Chvylovyj ricorda la Charkiv di oggi è il motivo per cui è stato scritto, lo sgomento dello scrittore per il fatto che i suoi nemici – l’imperialismo russo, il capitalismo globale, la ristrettezza mentale dei suoi concittadini – erano più forti che mai, mentre le cause in cui credeva (il socialismo internazionalista, l’Ucraina, l’arte e la gentilezza umana) erano messe a repentaglio dalle stesse istituzioni create per difenderle.
Qualcosa di simile sta succedendo nella Charkiv del 2024. Il presidente russo Vladimir Putin è ancora il nemico, e sembra che non possa essere sconfitto. Ma anche la guerra – lo strumento che dovrebbe servire a liberare l’Ucraina dalla crudeltà di Putin – è ormai un nemico.
C’è ancora ammirazione per l’esercito, per i soldati coraggiosi, ma cresce la percezione che siano vittime dell’egoismo e dell’immobilismo della parte più retrograda della società ucraina, della corruzione, della burocrazia e del clientelismo, che negli anni novanta si sono fusi con la decadenza tardo-sovietica e l’affarismo importato dall’estero. È stato questo il primo ostacolo allo sviluppo dell’Ucraina indipendente, molto prima che arrivasse Putin. E a quanto pare è ancora un problema.
Dopo il coprifuoco
Nei giorni della mia visita a Charkiv le strade sono piene di reclutatori che cercano persone da mandare al fronte. L’esercito ucraino non ha soldati a sufficienza per contenere l’avanzata russa nell’est del paese. I posti di blocco e le pattuglie, incaricati di verificare che i dati dei cittadini nel database della leva nazionale siano aggiornati, a quanto pare fermano gli uomini e, violando la legge, li spediscono prima alle visite militari, poi nei centri di addestramento e infine al fronte.
Per quanto ammirino il coraggio delle loro forze armate, gli uomini di Charkiv hanno paura, e in molti casi evitano, di farsi arruolare.
Dopo il coprifuoco delle 23 nel mio primo giorno in città, quando stavo per mettermi a letto ignorando le sirene dei raid aerei (come fanno tutti) ho sentito un lieve e breve rimbombo. Le luci si sono spente e si è attivato il generatore del palazzo. Dopo circa mezz’ora è tornata la corrente. Più tardi ho scoperto che i russi avevano colpito la periferia sud con una bomba planante, danneggiando alcuni edifici e il sistema di distribuzione dell’elettricità, e ferendo una decina di persone. Cose del genere succedono quasi ogni notte, e la città si è attrezzata per gestire le difficoltà. Di solito entrano in scena i servizi di emergenza, gli addetti alla manutenzione delle reti pubbliche e i tecnici per la riparazione delle strade. Charkiv ha un gruppo di volontari chiamato Dobrobat, che accorrono sulla scena dei bombardamenti per chiudere con delle assi le finestre rotte dalle esplosioni e proteggere le case, soprattutto con l’avvicinarsi dell’inverno. Quella notte, invece, non è venuto nessuno. Come mi ha spiegato Pavlo Filipenko, fondatore e direttore della filiale di Charkiv dell’organizzazione, i volontari avevano paura di essere intercettati dagli agenti della TsiKa, la sigla che indica l’ufficio di reclutamento.
La nuova legge sulla mobilitazione in Ucraina è entrata in vigore a maggio. Prima, spiega Filipenko, ai volontari bastava esibire il tesserino di riconoscimento del Dobrobat per passare i posti di blocco della TsiKa. Ora non hanno più quel privilegio. Ai tecnici del comune – gli ingegneri che riparano i cavi dell’alta tensione, per esempio – viene rilasciato il cosiddetto bron, un tagliando di esenzione dal reclutamento. Ai volontari del Dobrobat no. Al momento ci sono alcune deroghe generali – per gli studenti, gli insegnanti e il personale sanitario a tempo pieno – ma per il resto tutti i maschi tra i 25 e i 60 anni di età sono reclutabili (anche le donne prestano servizio, ma non hanno obblighi di leva). Secondo la legge, la chiamata alle armi deve essere comunicata con una notifica scritta, cosa che però spesso non succede. Tre volontari del Dobrobat sono stati prelevati dallo TsiKa mentre rispondevano a un’emergenza.
Filipenko ha 44 anni, l’aspetto di una persona benestante, l’aria stanca e una barba color argento. Possiede una grande impresa di costruzioni. A differenza di molti ucraini della sua età, non ha l’obbligo di rimanere nel paese: è padre di tre figli, quindi esentato dalla mobilitazione. “Avrei potuto prendere i miei figli all’inizio della guerra e andare all’estero. E da lì avrei potuto sostenere il mio paese, manifestare, sfoggiare la tipica camicia ricamata da contadino ucraino. Insomma fare il patriota dal Canada o da Los Angeles. Invece no. Sono rimasto. Penso di aver fatto pienamente il mio dovere per la patria, anche senza servire nell’esercito”.
Il peso della corruzione
Al mio arrivo sono rimasto colpito dalla desolazione delle strade di Charkiv. Certo, era domenica, e la popolazione si è molto ridotta rispetto agli 1,4 milioni di prima della guerra, ma la città mi è sembrata straordinariamente silenziosa. Un paio di giorni dopo ero seduto su una panchina in piazza della Libertà con lo storico dell’architettura Maksim Rosenfeld. Era un limpido pomeriggio d’autunno, e attraverso gli alberi vedevamo il Deržprom, l’edificio dell’industria di stato, un capolavoro del costruttivismo (pochi giorni dopo la mia partenza, i russi l’hanno bombardato).
Ho detto a Rosenfeld che nonostante tutto la città mi sembrava calma, sotto controllo.
“Questa calma ha molte sfaccettature”, mi ha risposto. “Una persona si abitua a certe difficoltà. Per un po’ le settimane passano. Poi compare un nuovo problema”. Ha fatto un cenno in direzione della piazza deserta.
“Sai perché è così vuota?”.
“No, non lo so”.
“È in corso un’operazione a tappeto dell’ufficio di reclutamento. E gli uomini se ne stanno chiusi in casa per evitare i posti di blocco”, spiega Rosenfeld. “È cominciato tutto appena sei arrivato. Una settimana fa la piazza era piena: gente che passeggiava, che ballava. La mente funziona così, si adatta a ogni situazione. E appena si abitua, succede qualcos’altro”. Qualche giorno dopo ho incontrato Dmitrij Nabokov, 37 anni, reduce del Donbass. Appena uscito dalla metropolitana ho visto un uomo alto con gli occhiali scendere con aria preoccupata dall’auto appena parcheggiata. Zoppicava leggermente. Ho dato un’occhiata alla sua caviglia, appena visibile sotto l’orlo dei pantaloni, e ho notato una sbarra nera. A gennaio Nabokov stava per concludere il suo primo anno di servizio nella 58esima brigata dell’esercito quando ha calpestato una mina. Era insieme a un gruppo incaricato di raccogliere provviste. In teoria il sentiero era stato bonificato, ma evidentemente gli artificieri non erano stati meticolosi. L’uomo alla testa del gruppo ha scavalcato la mina senza accorgersene; Nabokov è passato subito dopo e l’ha fatta saltare. È stato trasportato in un ospedale nel centro dell’Ucraina. Il chirurgo è riuscito a salvargli il ginocchio, ma ha perso il piede e la caviglia, e ora cammina con una protesi a cui si sta ancora adattando.
La guerra ha fatto un numero enorme di amputati, sia tra gli ucraini sia tra i russi. Le aziende occidentali che realizzano le protesi migliori hanno un sacco di lavoro. La ditta tedesca Ottobock, per esempio, rifornisce tanto la Russia quanto l’Ucraina, cosa che secondo Kiev sta ritardando le consegne, e temo che in fila ci siano anche palestinesi e sudanesi.
Nato a Charkiv, sposato e senza figli, Nabokov ha fatto il direttore di supermercato prima di diventare un soldato. Non è stato reclutato a un posto di blocco. Ha aspettato il suo turno. “Non sono andato ad arruolarmi quand’è cominciata la guerra. Avevo paura, credo. Ma avevo ancora più paura di scappare. Quando ho ricevuto la chiamata, sono andato. Non mi sono nascosto”.
Gli chiedo cosa pensa di chi evita il reclutamento, e mi racconta di tre suoi amici di Charkiv. Il primo è stato mobilitato ed è finito a prestare servizio al fronte. Un giorno Nabokov ha ricevuto un messaggio: aveva disertato. “Mi vergogno a dirlo”, gli ha scritto l’amico, “ma non ce la faccio più”. Ora è nascosto da qualche parte in Ucraina. “Non so com’è al fronte”, dice Nabokov. “Ma so che è facile avere un crollo nervoso. La mente se ne va da qualche parte e continua a vagare per giorni. Cosa dovrei dirgli? Che è una cattiva persona? Non lo farò. Lui lì c’è stato. Certe cose le ha viste”. Il secondo amico ha una placca di metallo nel cranio: gli era stata impiantata prima della guerra. In un sistema di reclutamento ben gestito una persona in quelle condizioni non finirebbe mai al fronte. Ma l’Ucraina non ha un sistema di reclutamento ben gestito, dice Nabokov. Il ragazzo aveva paura, così ha preso un periodo di aspettativa al lavoro e oggi si nasconde in casa. Come il terzo amico, che ha lasciato l’impiego per evitare di essere arruolato, dichiarando di “non voler morire per Zelenskyj”.
“Da una parte li capisco, dall’altra no”, racconta Nabokov. Ha due cognati che sono ancora in servizio, anche se tutti e due “stanno andando fuori di testa”: uno per colpa di un cattivo comandante, l’altro semplicemente perché è spaventato e scoraggiato da tutti i morti che vede. “C’è chi dice: ‘Non sono nato per la guerra!’. Be’, nessuno è nato per la guerra. Siamo tutti nati per vivere. Ma la situazione è questa, e ci tocca fare i soldati”.
Non è solo la prospettiva di morire o di rimanere feriti che spinge gli ucraini a nascondersi o a scappare all’estero. Gli strumenti della guerra sono sempre più infernali. E le potenziali reclute sostengono che il sistema di arruolamento è corrotto e che le persone ricche e influenti trovano il modo di aggirarlo. Inoltre l’esercito non valorizza le capacità, ma cerca solo carne da cannone. Infine, se perdi un arto, non è detto che si prenderanno cura di te.
La società ucraina sta ancora metabolizzando le ultime rivelazioni sulla corruzione nelle commissioni sanitarie incaricate di certificare i casi di disabilità. Senza il loro nulla osta le persone disabili, compresi i reduci, non ricevono né risarcimenti né pensioni d’invalidità. Con il sistema delle commissioni è facile arricchirsi. I funzionari corrotti vendono certificati falsi oppure chiedono tangenti a chi ha davvero una disabilità per sveltire le pratiche o fargli ottenere condizioni più favorevoli.
All’inizio di ottobre un funzionario di una commissione medica di Charkiv è stato arrestato con l’accusa di aver preso migliaia di dollari di tangenti in cambio di certificati falsi, che permettevano di evitare la coscrizione e di andare all’estero. Più o meno nello stesso periodo, la responsabile della commissione medica della regione occidentale di Chmelnytskyj, Tetjana Krupa, è stata arrestata per corruzione. Nella sua casa sono stati sequestrati sei milioni di dollari in contanti, ed è circolata perfino una foto di suo marito steso sul letto tra mazzette di banconote da cento dollari. A quanto pare, il personale della commissione faceva parte di una rete di funzionari pubblici che si coprivano a vicenda. Krupa rappresentava il partito di Zelenskyj al livello locale, e suo figlio era il direttore del fondo pensione della regione. La stampa ucraina ha scoperto che il 28 per cento dei pubblici ministeri della regione erano stati dichiarati portatori di disabilità di “secondo livello” dalla commissione di Krupa: lo stesso grado di disabilità di un soldato come Nabokov. In tutto questo, dieci mesi dopo il suo ferimento, Nabokov non ha ricevuto né risarcimento né pensione, e siccome è stato smobilitato in estate, non ha neanche un salario. Il sistema delle commissioni mediche è allo sbando, e la sua inefficienza è ancora più scandalosa se si considera che invece il sistema sanitario si è preso cura al meglio di Nabokov. Nessun medico gli ha chiesto tangenti o l’ha obbligato a comprare farmaci particolarmente costosi. La riabilitazione si è svolta in palestre ben attrezzate ed è stata finanziata da un mix di fondi statali e donazioni di enti benefici stranieri e locali.
La situazione riflette bene le tre tendenze emerse nella politica interna ucraina dopo la rivoluzione arancione del 2004: da un lato c’è una sorta di populismo arcaico e nazional-patriottico; dall’altro c’è un filone intellettual-borghese di persone che aspirano a quello che considerano l’ideale europeo, fatto di libertà personale, rispetto reciproco e stato di diritto; e infine c’è l’universo cinico, apolitico e clientelare degli oligarchi, dei dipendenti pubblici più o meno corrotti e di tutti quelli che dipendono da loro. Mentre in molti altri paesi dell’Europa orientale post-comunista i nazionalisti e i cinici si sono alleati, in Ucraina la reazione a decenni di bugie, provocazioni e violenze putiniane ha portato a un’unione tra nazionalisti e liberali, che ha ridotto lo spazio di manovra per i cinici. È stato l’ideale liberal-patriottico a portare Nabokov al fronte e a far sì che fosse ben curato quando è rimasto ferito. I cinici, tuttavia, hanno ancora un ruolo importante nella gestione dello stato.
Lezioni sottoterra
Non solo gli uomini, ma anche gran parte dei bambini di Charkiv rimangono a casa. Scuole e asili erano faticosamente tornati a una parvenza di normalità dopo la pandemia quando, nel febbraio 2022, è arrivato l’attacco russo. E hanno dovuto chiudere di nuovo. Fin dall’inizio della guerra Charkiv è bombardata quasi ogni giorno. Le scuole sono state distrutte. Il liceo numero 134 era specializzato nell’insegnamento del tedesco. Il magnifico edificio degli anni trenta, con le sue colonne bianche, era sopravvissuto alla seconda guerra mondiale. Oggi è rimasta solo la facciata. Quando è scoppiata la guerra l’istituto aveva 635 alunni tra i sei e i diciassette anni. Oggi, racconta la preside, Tatjana Maltseva, sono circa 470: venti vivono in altre parti dell’Ucraina, 240 a Charkiv e 210 all’estero. Studiano tutti a distanza.
Ci vorrebbero settimane per visitare tutte le scuole devastate dalle bombe
Ci vorrebbero settimane per visitare tutte le scuole devastate o danneggiate. Un altro istituto che ho visitato, il numero 17, è stato attaccato in tre giorni diversi. Una granata è esplosa mentre venivano distribuiti gli aiuti umanitari. L’ultima volta, nel giugno 2022, la scuola è stata colpita da un missile Iskander, che ha ucciso la madre di un’insegnante. Viveva lì accanto e aveva l’abitudine di usare il rifugio dell’istituto. Quel giorno era uscita per un attimo, proprio nel momento dell’attacco. Quasi tutti i pilastri in cemento armato e i pavimenti dell’edificio, costruito 45 anni fa, sono intatti, ma molte delle pareti e delle finestre sono crollate, e gli interni sono stati distrutti: la palestra, la mensa, la biblioteca, il museo dedicato al poeta russo Sergej Esenin. D’accordo con i genitori, racconta la direttrice Irina Kaseko, la scuola è passata dall’insegnamento in russo a quello in ucraino nel 2015, ma fino all’invasione del 2022 la lingua e la letteratura russa erano ancora insegnate come materie facoltative. Anche se il russo è ancora molto parlato a Charkiv, qui non viene più insegnato. “I genitori non vogliono”, dice Kaseko. “Del resto i russi hanno bombardato la scuola tre volte”.
“Sapevate cos’era un missile Iskander prima della guerra?”, chiedo.
“Ovviamente no”.
C’è una parola in ucraino, prylit, che a Charkiv si sente in continuazione. È un raro esempio di un vocabolo che ha improvvisamente cambiato significato. Letteralmente vuol dire “arrivo per via aerea” e in Ucraina era usato esclusivamente sui tabelloni degli aeroporti. Dal giorno in cui è scoppiata la guerra la parola indica invece “l’arrivo di un proiettile lanciato da un aereo”. Tre prylit hanno trasformato la scuola numero 17, dove un tempo studiavano 1.200 bambini, in un rudere.
Dima, un alunno di quindici anni, è stato ucciso dall’esplosione di una granata alla fermata dell’autobus. Un ex studente è morto al fronte a Donetsk, e un altro mentre lavorava come giornalista. Inizialmente calma, allegra e fiduciosa, parlando dei tre ragazzi Kaseko si è fatta seria e si è commossa. Anche suo figlio è al fronte.
Quando ci sono i bombardamenti la prima cosa da fare è spostarsi sottoterra. Molti bambini fanno lezione nelle stazioni della metropolitana. Alle spalle di una scuola nel quartiere Industrialnyj, una minuscola casupola grigia, non più grande di un ripostiglio da giardino, si erge solitaria in uno spazio in mezzo agli aceri. Attraversando la porta e scendendo due rampe di scalini si accede a una barriera protettiva e poi a un lungo corridoio bianco candido, illuminato a giorno, su cui si aprono diverse aule. Qui più di mille bambine e bambini fanno lezione in due turni, al riparo dalle bombe. La scuola sotterranea ha un generatore e un sistema di filtraggio dell’aria. Ci sono la mensa, l’aula per i bambini con necessità speciali, quella d’informatica e una ludoteca dove s’impara a riconoscere i proiettili, le mine, le granate e le munizioni a grappolo in cui ci si potrebbe imbattere. La scuola è stata allestita grazie a fondi stranieri, soprattutto statunitensi. Altre scuole bunker sono in costruzione, ma per il momento questa è l’unica attiva. Gli insegnanti sono fieri del loro istituto sotterraneo, ma vorrebbero non averne bisogno. “Vogliamo uscire e tornare nelle nostre aule”, dice uno di loro.
La minaccia delle bombe, dei missili e dei droni russi ha reso inevitabile anche la chiusura degli asili municipali. Alcuni genitori tengono i bambini in casa, ma per chi se lo può permettere ci sono gli asili privati più ricercati e costosi, tutti forniti di rifugi antiaerei. Quando ho incontrato Katja Kaštanova, direttrice dell’asilo Honey academy, i venti bambini iscritti, tra i due e i sei anni, dormivano sottoterra. “È l’ora del pisolino”, mi ha detto. “Li portiamo sempre a dormire nel rifugio. È più sicuro e non siamo costretti a svegliarli se c’è un allarme. Ogni volta che parte la sirena scendiamo giù nel rifugio, che è attrezzato anche per fare lezione”.
Mentre ero a Charkiv ho visto un po’ di bambine e bambini in giro, ma in città c’è una gran paura degli assembramenti, e per loro non ci sono molte opportunità per socializzare. “Proviamo a renderli felici, nella speranza che nei loro ricordi d’infanzia non ci siano solo i bombardamenti, ma anche un po’ di gioia e di calore, legati alla vita collettiva qui all’asilo”, dice Kaštanova.
Studenti o soldati
Mykola Chvylovyj era un nazionalista e un socialista ucraino, mentre il suo contemporaneo Michail Bulgakov era un borghese che rimpiangeva il crollo dell’impero zarista, guardava con scetticismo alle pretese di autonomia dell’Ucraina e tollerava il comunismo perché costretto. Durante gli anni del grande terrore staliniano, Bulgakov ricevette una telefonata quasi amichevole da Stalin, che aveva denunciato pubblicamente Chvylovyj. Tutto questo rende ancora più sorprendente il fatto che l’atmosfera della Charkiv raccontata da Chvylovyj in Io (Un romanzo) sia molto simile a quella della Kiev narrata da Bulgakov nella Guardia bianca: due grandi città moderne, con la loro complessa trama di mestieri, traffici e piaceri, immerse in un’esistenza cosmopolita e solo vagamente consapevoli della guerra che infuria ai loro confini, del rombo dei bombardamenti in lontananza e delle terribili battaglie combattute nelle sterminate pianure tra cittadine e villaggi ancora dominati da una mentalità contadina. Oggi, malgrado i bombardamenti quotidiani, il silenzio innaturale delle strade e la consapevolezza che il confine russo è a venti chilometri appena dalla periferia settentrionale della città, arrivando a Charkiv con il treno dalla Polonia ho avuto quasi l’impressione di trovarmi in un avamposto urbano dell’Europa. Spostandosi da Charkiv verso est, verso la campagna, sembra invece di entrare in uno spazio diverso, un luogo di rovine, incertezza e decadenza.
Le chiedo che pensa di un accordo con la Russia. “Dei russi non ci si può fidare”, dice
Una mattina sono uscito presto dall’albergo e mi sono incamminato per via Sumska fino a raggiungere la fermata Università della metropolitana. Charkhiv è, o almeno era, una città di studenti. Uno dei cambiamenti portati dalla guerra è stata la cancellazione della sua varietà etnica: migliaia di studenti stranieri, in gran parte dell’Asia meridionale, hanno abbandonato l’Ucraina. Su via Sumska, le facciate art nouveau decorano i palazzi costruiti per i ricchi durante il boom edilizio del primo novecento, ai tempi del sindaco Oleksandr Pohorilko. I danni della guerra si vedono anche qui, ma in modo meno evidente rispetto alla periferia nord. Un isolato integro, un altro ancora, una casa art nouveau restaurata con cura, un palazzo danneggiato con le assi di compensato davanti alle finestre, poi un edificio bombardato e nascosto dietro a un telo, ridotto a poco più di un cumulo di macerie. Entro in un caffè pieno di ragazzi e ragazze dall’aria fragile piegati sui loro pc, e solo dopo un po’ mi accorgo che le schegge delle bombe hanno lasciato il segno sugli stipiti delle porte.
In strada, sui cartelloni pubblicitari l’argomento principale è la guerra. A coordinare il reclutamento non sono le forze armate, ma le singole brigate: “Fortificate la vostra volontà”, intima un tipo muscoloso, strizzato in un giubbotto antiproiettile sullo sfondo di una città in rovina. È una pubblicità del reggimento Kraken, legato al dipartimento dell’intelligence militare. “Tutti possono”, proclama un manifesto della 93a brigata, considerata un’unità dalle posizioni progressiste. In reazione alla già ricordata tendenza dell’esercito ad assegnare compiti a caso, la pubblicità recita: “Scegliete la vostra professione nella brigata”; sotto la grande foto di un giovane soldato pettinato alla perfezione c’è l’immagine di un uomo di mezza età dall’aria preoccupata, con un elmetto della taglia sbagliata e tremante per il freddo. C’è un codice qr per arruolarsi e un altro per donare. La campagna pubblicitaria più imponente, almeno a giudicare dal numero dei manifesti, è quella della Terza brigata d’assalto. Sul cartellone è ritratto un uomo di spalle, con la camicia a quadri e un berretto da baseball indossato al contrario, che avanza in moto verso la battaglia. Aggrappata a lui c’è una ragazza con una pistola in mano. “Amo la terza”, recita lo slogan.
Una macabra strategia
Ci vogliono sei fermate per arrivare al capolinea nord di Saltivska. Siamo alla periferia di Charkiv: schiere di palazzoni, file apparentemente infinite di bancarelle che vendono prodotti cinesi a poco prezzo, binari del tram che attraversano sterrati e prati pieni d’erbacce. Nel parcheggio di un supermercato incontro i due autisti che mi accompagneranno fuori città, Dima e Serhij. Ogni giorno vanno in furgoncino fino a Kupjansk, una cittadina sul fiume Oskil a circa 120 chilometri da Charkiv, verso est, per dare una mano ad allontanare i civili. Minacciata dall’avanzata dell’esercito russo, Kupjansk si sta svuotando.
Una volta partiti, chiedo a Dima e Serhij della mobilitazione di massa.
“Tutti hanno paura”, dice Dima. “Ma quando arrivi al terzo anno di guerra devi prepararti a fare qualcosa. O contribuisci e dai una mano in qualche modo, oppure vai a combattere. Non puoi chiamarti fuori. Dopo tre anni, la guerra tocca tutti”.
Gli chiedo se hanno un bron.
“Il pezzo di carta ce l’abbiamo, ma comunque non è una garanzia”, risponde Dima.
Ci dirigiamo verso est su strade ben tenute che attraversano campi ancora coltivati. È una giornata limpida e il sole brilla sulle foglie autunnali degli alberi lungo la strada: aceri, querce, pioppi. All’orizzonte vedo una cosa abbastanza banale, la scia di condensa lasciata da un aereo. Poi penso che qui non ci sono aerei civili. Si tratta quasi sicuramente di un aereo da guerra russo. Per bombardare l’Ucraina i piloti non devono uscire dai confini della Russia: raggiunta una certa altitudine e una certa velocità, mollano il carico e tornano indietro, mentre le bombe planano verso i bersagli per cinquanta e più chilometri. Il viaggio da Charkiv dura circa un’ora e mezza. Ci fermiamo a Korobočkyne per una fetta di torta. Più avanti, al posto di blocco di Ševčenkove, la situazione sembra ancora abbastanza rilassata: i soldati portano dei berretti di lana. Il traffico ora è quasi solo militare. All’ultimo posto di blocco prima di Kupjansk i soldati indossano l’elmetto, e la postazione è coperta da una rete anti-drone.
Prima dell’invasione russa, la popolazione di Kupjansk era di circa 28mila persone. Oggi è molto più bassa: ogni giorno c’è qualcuno che parte. All’inizio della guerra l’esercito russo è entrato in città, trovando diversi residenti filorussi e un sindaco, Hennadij Matsehora, pronto a collaborare nella speranza di evitare vittime e danni. Dopo sette mesi di occupazione, la controffensiva ucraina ha ricacciato indietro i russi. Diversi collaborazionisti sono scappati in Russia, tra cui Matsehora, che poi è stato ucciso. Quando chiedo com’era la vita sotto l’occupazione, le persone non si sbilanciano. I filorussi e i nazionalisti ucraini più convinti se ne sono andati, e parlando con gli abitanti rimasti è difficile capire se temono il ritorno dei russi, se lo aspettano o non gli importa più niente. Più che altro non sopportano l’idea di lasciare la propria casa.
I russi sono vicini, sulla riva orientale del fiume, a sei chilometri di distanza. Tutti i ponti che collegano la zona occidentale di Kupjansk al piccolo quartiere dall’altra parte del fiume sono stati distrutti. Come nel Donbass, dove ultimamente l’avanzata russa ha avuto una chiara accelerazione, Mosca ha sfruttato a suo vantaggio le bombe plananti, la mancanza di soldati dell’Ucraina e la riluttanza dell’occidente a dar seguito alla sua retorica sul sostegno all’Ucraina “fino alla vittoria” con una seria strategia di addestramento ed equipaggiamento delle sue truppe.
Più che altro, però, i recenti successi russi sono riconducibili alla volontà di Putin di sacrificare migliaia di vite in attacchi di fanteria su piccola scala, che alla lunga, dopo enormi perdite, travolgono le linee nemiche. Man mano che la Russia avanza e il conto dei suoi morti e feriti sale, crescono anche i premi che il Cremlino deve pagare per trovare volontari, visto che per ora vuole evitare una nuova mobilitazione di massa nelle grandi città. Oltre ad aver invitato le truppe della Corea del Nord a unirsi ai combattimenti, Mosca ha cominciato ad arruolare mercenari dall’Africa. Con le grandi risorse di denaro e uomini di cui Putin dispone, la strategia sta funzionando, almeno per quanto riguarda i macabri obiettivi della sua guerra d’attrito. A giudicare dalle sue azioni, il leader russo ritiene che valga la pena sacrificare un gran numero di soldati pur di spazzare via anche un solo ucraino dal campo di battaglia e conquistare poche centinaia di metri di territorio.
In fuga dalle bombe
Serhij e Dima avevano in programma di andare a prendere delle persone sulla riva orientale. Ma alla vigilia del viaggio i russi hanno colpito il traghetto principale e i civili non possono ancora attraversare il fiume. Parcheggiamo in un’area di smistamento ai margini della città, lasciando gruppetti di anziani al lato della strada, in attesa di salire sui bus che li porteranno a ovest. Poliziotti sudati in tenuta da combattimento fanno avanti e indietro su un’auto blindata scaricando sfollati della riva orientale, dove praticamente si vive sotto i bombardamenti. L’evacuazione è organizzata bene. Chi è pronto a partire deve solo fare una telefonata. Ma dev’essere disposto a lasciare casa, beni ed effetti personali.
Parlo con Ljuda, 64 anni, che piange in silenzio, da sola, in piedi accanto a due valigie. Sarebbe rimasta volentieri nel suo appartamento, ma i figli hanno insistito per farla partire. Suo figlio si è trasferito in Repubblica Ceca prima della guerra. Ljuda andrà a vivere con la figlia nella città di suo genero, Korosten, nell’Ucraina occidentale. Le chiedo della possibilità che si arrivi a un cessate il fuoco e che il fiume Oskil diventi il nuovo confine tra Ucraina e Russia. “Non dipende dalla gente comune”, dice. “Viene tutto deciso in alto. Qualsiasi cosa decidano, quello sarà. Noi possiamo solo affrontare le cose come vengono. Questo è quanto”.
Entriamo in città e troviamo il primo gruppo di rifugiati. Forse il sole e il giallo brillante delle foglie fanno apparire Kupjansk più graziosa di quello che è, ma se provo a dimenticare la distruzione che mi circonda, ho l’impressione che prima della guerra dovesse essere un posto piacevole. Non ha ancora subìto la sorte di altre città del Donbass, ridotte in macerie, ma è messa molto peggio di Charkiv.
Ogni tanto si sente lo scoppio di una bomba o il crepitio delle armi da fuoco. Sulla via principale, con le cupole dorate della chiesa sulla collina di fronte ancora intatte, un venditore ambulante ha parcheggiato il suo furgone con gli sportelli aperti davanti ai resti di un piccolo centro commerciale.
Gli indirizzi sulla lista di evacuazione di Dima e Serhij sono in quello che loro chiamano il “settore privato”, un groviglio di case vicino al fiume. Il furgone arranca su stradine piene di buche, passando accanto a casette dietro recinti dipinti di verde e giardini protetti da cancelli d’acciaio. Capisco perché le persone anziane si aggrappano a questi rifugi: le case sono cresciute con loro secondo uno schema che solo loro sanno decifrare, una specie di patchwork simile a una seconda pelle.
Aiuto Tatjana, una donna di 62 anni che vive da sola, a caricare le sue cose sul furgone. Tra i suoi pochi averi c’è una tv ancora imballata, con sopra un adesivo con la pubblicità dei mondiali di calcio in Russia del 2018. Le chiedo perché ha deciso di andarsene. “I bombardamenti sono fortissimi. E ci sono anche i droni. Ho paura anche ad andare in farmacia. Abbiamo una certa età, ci servono le medicine. La notte non riesco a dormire”.
Sua figlia e suo nipote sono stati portati in salvo da Kupjansk durante l’occupazione russa. Oggi vivono in Polonia, in un appartamento troppo piccolo per ospitare anche Tatjana. Durante l’occupazione il figlio più grande si è nascosto in casa. I russi non hanno mai bussato alla loro porta, ma in altre parti della città molti uomini sono stati arrestati. Dopo la liberazione della città il figlio si è arruolato nell’esercito ucraino.
La cosa più struggente di Kupjansk sono le tracce fresche di un lavoro che è segno della speranza di un prossimo ritorno: un’ordinata catasta di legna da ardere appena tagliata oppure, come a casa di Tatjana, la terra nera dell’orto arata con cura. Le chiedo cosa pensa di un accordo con la Russia, di concessioni in cambio della pace. “Dei russi non ci si può fidare”, risponde.
Fermandosi ora, Putin sarebbe molto lontano dal suo obiettivo dichiarato
Usciti dal “settore privato” passiamo a prendere Victoria. Sembra di buon umore. Le chiedo perché sta partendo e lei si gira indicando il condominio. Un gigantesco cratere si è portato via gran parte del settimo piano, dov’era la sua casa. La stessa notte, il negozio di alimentari dove lavorava è stato rapinato. Non ha né figli né fratelli e i genitori sono morti.
Devo insistere per convincerla a condividere la sua opinione sulle eventuali concessioni alla Russia per mettere fine alla guerra. Cosa faresti, le chiedo, se dovessi scegliere tra due candidati, uno disposto a fare concessioni alla Russia per avere un cessate il fuoco e l’altro che insiste per combattere fino alla fine? “Combattere fino alla fine no”, dice Victoria. “Perché vorrebbe dire per sempre”.
Promesse tradite
Tuluzov mi porta sul tetto di un teatro di Charkiv per mostrarmi il razzo russo che ci è caduto sopra, senza però fare troppi danni. La città brilla al sole e si estende fino all’orizzonte in tutte le direzioni. Da qui i danni non si vedono. Scopriamo di avere una conoscenza in comune: Jakov Eisenberg, l’ex direttore di un’azienda che in epoca sovietica produceva i sistemi di guida per i missili balistici intercontinentali. Prima di diventare direttore di teatro, Tuluzov faceva il consulente, e prima ancora era un fisico teorico. In quegli anni ha lavorato con Eisenberg, che io ho intervistato nel 1993, nella mia prima visita a Charkiv. A quell’epoca l’Ucraina era diventata indipendente da poco ed era ancora in possesso di molte testate nucleari, ereditate dall’Unione Sovietica. Avevo insistito per parlare con Eisenberg perché la sua azienda era a corto di liquidità e lui aveva avuto un’idea: installare una chiave a doppio controllo sulle armi nucleari ucraine, in modo che la Russia non potesse usarle senza il permesso di Kiev. Gli avevo chiesto se gli ucraini avrebbero potuto hackerare il sistema e usare le armi da soli. “Perché no?”, mi aveva risposto. “Siamo professionisti”.
Prevedibilmente l’idea di Eisenberg non fu accolta. E l’Ucraina consegnò diligentemente tutte le armi nucleari alla Russia. In cambio il memorandum di Budapest del 1994, firmato tra gli altri da Russia, Stati Uniti e Regno Unito, doveva assicurare la sua integrità territoriale. Nel 2014, quando la Russia ha invaso la Crimea ed è intervenuta nel Donbass, Kiev si è resa conto che il memorandum non era un trattato, ma solo un accordo non vincolante. “La Russia ci ha traditi e l’occidente non si è comportato correttamente, perché in fondo c’erano degli obblighi: la riconsegna delle armi nucleari in cambio di garanzie di sicurezza”, dice Tuluzov. “Quelle garanzie sono state violate. E c’era anche un impegno morale”.
Il presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump, la sua cerchia e probabilmente i suoi elettori non credono che l’invasione dell’Ucraina riguardi gli statunitensi. Sono note l’avversione di Trump per l’Ucraina e la sua simpatia per Putin, un altro maschio bianco ricco, avido, conservatore, nazionalista e formalmente cristiano, con un odio particolare per Barack Obama, Hillary Clinton e l’Unione europea. I repubblicani trumpiani condividono l’idea, ampiamente alimentata da esperti occidentali di ogni orientamento politico, che sia l’Ucraina, spalleggiata dall’occidente, a prolungare la guerra nella speranza di una vittoria totale – cioè un ritorno ai confini del 1991 – e dell’umiliazione di Putin. Il corollario è che, se Putin potesse mantenere i territori conquistati e se l’Ucraina rinunciasse a entrare nella Nato, la guerra finirebbe in un attimo. L’assunto di fondo è che senza le armi occidentali l’Ucraina sarebbe costretta a frenare le sue ambizioni e che, a queste condizioni, Putin sarebbe ben contento di smettere di combattere.
Ma perché mai Putin dovrebbe interrompere le ostilità? Ha eliminato l’opposizione interna. I carri armati stanno per finire, ma ne arrivano sempre di nuovi. L’economia funziona, almeno sulla carta. E Putin non è tipo da avere rimorsi di coscienza per i russi che muoiono al fronte, come abbiamo scoperto vent’anni fa ai tempi della guerra in Cecenia. Inoltre ha il sostegno, attivo o passivo, dei governi che rappresentano la maggioranza della popolazione mondiale, i quali – proprio come fa Mosca – sembrano considerare l’Ucraina un’invenzione statunitense. Fermandosi ora, Putin sarebbe molto lontano dal suo obiettivo dichiarato (anche se mai in termini del tutto espliciti) di trasformare l’Ucraina in uno stato vassallo. Senza la resistenza ucraina e soprattutto senza i rifornimenti di armi occidentali, il presidente russo non avrebbe nessun motivo per fermare la guerra. Se nel sistema di potere ucraino c’è ancora chi spera nella vittoria totale, in questo momento il vero motore della guerra è la Russia, con i suoi alleati Corea del Nord, Iran e Cina. In un conflitto, infatti, è la parte che vuole la pace che dovrebbe smettere di avanzare. E oggi l’Ucraina è sulla difensiva, messa sotto pressione da una Russia che continua a conquistare territori e insiste per conquistare un dominio schiacciante su tutto il paese come condizione per la pace.
Per ora non ci sono negoziati in corso, sono trapelate solo alcune indiscrezioni su presunti colloqui tra Ucraina e Russia – smentite da Mosca – per fermare gli attacchi alle infrastrutture energetiche. Probabilmente i contatti informali non si sono mai interrotti, ma le posizioni pubbliche delle due parti sono molto lontane. Zelenskyj può anche avere obiettivi irrealistici, e Putin ripugnanti, ma c’è un altro problema: l’Europa e gli Stati Uniti hanno assecondato le speranze di vittoria dell’Ucraina senza fornirle i mezzi per realizzarle.
Una possibile via per la pace è la totale capitolazione di Kiev. È un’ipotesi remota, ma è la direzione in cui si sta andando. Al contrario, una pace che contempli un minimo di giustizia per gli ucraini poggia su tre condizioni necessarie. La prima è che la Russia accetti meno di quello che ha dichiarato di volere: meno territori e meno (cioè zero) controllo su un’Ucraina davvero libera. Non ci sono segnali in questo senso. La seconda è che l’occidente sia pronto a difendere adeguatamente ogni possibile cessate il fuoco, con un sostegno più ampio e sistematico agli ucraini, magari anche impegnando le sue forze aeree. Neanche in questo senso ci sono segnali. La terza condizione è che il popolo ucraino accetti di perdere parte del suo territorio per lungo tempo, forse per sempre. E a giudicare da quanto ho visto nel paese, i segnali in questa direzione non mancano. “Da cittadino, sono contrario”, ha detto Tuluzov. “Ma da manager con quarant’anni di esperienza capisco che a volte ci si trova in una situazione senza via d’uscita ed è difficile fare la valutazione giusta. Le mie informazioni sono incomplete. Non so con certezza se davvero le risorse del paese sono esaurite o fino a che punto l’occidente è disposto ad aiutarci. Naturalmente l’obiettivo principale è la sopravvivenza dell’Ucraina come stato. Se ci arriviamo, sarà già una vittoria”.
Parlando con le persone che ho incontrato, ho sentito due metafore molto esplicite a sostegno delle due tesi opposte. La prima è di Dima: “Non puoi dire a un cane rabbioso, ‘Va bene, azzannami il braccio, basta che lasci stare il resto del corpo’”. La seconda è di Max Rosenfeld: “Chi subisce uno stupro deve continuare a vivere. Non è un motivo per non vivere più”. Filipenko, il capo del Dobrobat, dice: “Speriamo tutti che arriverà il momento in cui le autorità si accorderanno su una qualche forma di cessate il fuoco, anche temporaneo. Per noi è questa la cosa più importante. Perché i bombardamenti su Charkiv non sono guerra, sono terrorismo. Con le risorse che abbiamo oggi, e con un nemico come la Russia, la vittoria è impossibile”.
Una piccola informazione
Il rozzo manifesto della Terza brigata d’assalto è più di una pubblicità per il reclutamento: è un atto politico. Anche se formalmente integrata nelle forze armate ucraine e considerata una buona unità dal punto di vista militare, il suo comandante, Andrij Biletskyj, è un ex attivista di estrema destra. E la sua stessa esistenza è un promemoria degli ostacoli politici che esistono all’ipotesi di fare concessioni territoriali. Ma nonostante l’efficacia nel gestire la comunicazione, quello che colpisce della Terza brigata, e dell’estrema destra ucraina in generale, è il suo isolamento. L’esercito si solleverebbe contro un governo pronto a cedere territori alla Russia? Forse. Ma più i reclutatori allargano le reti, più le forze armate diventano lo specchio di una società che sta cominciando a parlare apertamente, anche se con amarezza, di uno scambio tra terra e pace.
Ho parlato con alcuni soldati in servizio. Jegor, dell’unità droni della 93a brigata, mi ha detto che “chi ha visto con i propri occhi cos’è veramente la guerra è pronto a fermarsi e a fare un accordo, perché è stanco di perdere amici e conoscenti, stanco di stupirsi di essere vivo. Chi dice il contrario non sa cos’è la guerra. Ovviamente un sacco di gente griderà che dobbiamo andare avanti fino alla vittoria e tornare ai confini del 1991. Ma i soldati in trincea sono pronti a fare un accordo. Questo, però, nessuno lo vuol sentire”.
Lascio Charkiv una mattina presto, che è ancora buio. I lampioni sono spenti per risparmiare energia e c’è una leggera nebbia. Prenoto un taxi con grande anticipo, perché la paura della leva ha ridotto drasticamente il numero di autisti disponibili. Charkiv, mi ha detto una volta un vecchio tassista, è diventata “una città di dinosauri”. Perciò rimango sorpreso quando passa a prendermi un uomo sulla cinquantina. Scende per aiutarmi con la valigia. Notando che zoppica, gli chiedo se è un reduce di guerra. Dice di sì. Ha calpestato una mina vicino a Izjum. Mentre attraversiamo le strade umide e vuote, mi mostra la protesi: ha perso la caviglia e il ginocchio. Lo lascio guidare. Poco prima di arrivare alla stazione mi dice spontaneamente: “Ho perso mio figlio”. È stato ucciso in battaglia l’anno scorso. Lo dice con grande calma. Voleva solo che lo sapessi. Lo pago e vado ad aspettare il mio treno per l’occidente. ◆ fas
James Meek è un giornalista e scrittore britannico. Lavora per il quindicinale London Review of Books. Negli anni novanta è stato il corrispondente a Mosca del quotidiano The Guardian.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1591 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati