L’entrata in vigore, il 10 dicembre, del divieto d’accesso ai social media per i minori di sedici anni in Australia è una violazione della libertà compiuta con il pretesto di proteggere i più giovani. Centinaia di migliaia di persone non possono più usare Instagram, TikTok o Snapchat.
Gli studi indicano che la salute dei ragazzi può subire danni in seguito alla frequentazione eccessiva di queste piattaforme. Dipendenza, disturbi del sonno, scarsa autostima: sono tutti pericoli reali. Ma tenere lontano le vittime potrebbe non essere la soluzione. “Trascorrete del tempo con i vostri amici e la vostra famiglia, Di persona, faccia a faccia”, ha detto il primo ministro australiano Anthony Albanese rivolgendosi ai giovani. È chiaro che Albanese vive in un altro mondo in cui tutto questo funziona. Ma per molti non è così. Come faranno a incontrarsi ragazzi che vivono a centinaia di chilometri di distanza? Internet permette di restare in contatto con chi rischia di essere marginalizzato, in particolare le persone con disabilità e quelle lgbt. Mentre gli altri, consapevoli o meno, gli impediscono di partecipare, molti ragazzi si salvano grazie ai social media, trovando una qualche forma di comunità.
Di sicuro saranno escogitati modi per aggirare il divieto, usando alternative che sfuggono alla legge, in un’area senza diritti e per questo più pericolosa. Detto in altre parole, l’Australia chiude un posto conosciuto, e in qualche misura più sicuro, in centro e manda i ragazzi in una strada periferica in mezzo a estremisti e truffatori. Se l’Unione europea vuol fare una cosa intelligente, dovrebbe limitarsi ad aspettare e vedere come funziona l’esperimento australiano. È probabile che presto arrivino soluzioni migliori del semplice tecnoscetticismo. Così forse l’Unione riuscirà a rendere più sicure le piattaforme. Per tutti e tutte. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1644 di Internazionale, a pagina 17. Compra questo numero | Abbonati