Quei gesti non se li dimenticherà mai: Vania Arana solleva entrambe le braccia, gettandole in avanti, per poi ritirarle indietro di scatto. “È così che si stende un lenzuolo”, spiega. Sollevi il materasso, rimbocchi le estremità, riabbassi il materasso. E poi da capo. Negli hotel di lusso si sovrappongono due lenzuoli e sopra se ne mette un terzo, che qui in Spagna fa da coperta. Poi si passa al letto successivo. Un tempo era questa la sua vita, ora dopo ora, giorno dopo giorno.

“Le cose sono peggiorate da quando gli hotel di lusso hanno cominciato a usare i piumoni”, ci ha raccontato una mattina Arana in un caffè sulla Gran Vía di Barcellona. Gli spagnoli chiamano il copripiumone funda nórdica, perché si usa nei paesi del Nordeuropa. “Il copripiumone ti ammazza”, spiega Arana. Bisogna dimenarsi finché non è a posto e soprattutto bisogna sollevare i pesanti piumoni, letto dopo letto, camera dopo camera. Alla fine il fisico di Arana ha ceduto. Adesso, a 54 anni, non riesce più a fare la cameriera ai piani.

Myriam Barros, una delle portavoci del sindacato Las Kellys, nell’albergo dove lavora a Lanzarote, luglio 2019 (Desiree Martin, Afp/Getty Images)

Arana è nata in Perù ed è arrivata in Spagna a 24 anni. Alla ricerca dell’aria che le mancava, dice oggi. Casa sua le stava stretta, l’ambiente era troppo conservatore, troppo dominato dagli uomini. Aveva già finito l’università e insegnava letteratura alle superiori. Ma la Spagna non le ha riconosciuto la laurea, così ha cominciato a lavorare come colf. “Pulivo, tenevo i bambini, portavo a passeggio i cani, insomma facevo quello di cui c’era bisogno,” racconta. Dopo qualche anno ha trovato lavoro come cameriera ai piani. Anche sua madre aveva fatto questo mestiere, e Arana era contenta di lavorare con altre donne. Ha fatto la cameriera per 26 anni, fino a rovinarsi il fisico.

“Certi giorni mi sento i piedi enormi e congelati”, dice Arana. Il dottore le ha detto di non stare in piedi più di cinque ore per volta. Poi ci sono i dolori cronici alle spalle e alla cervicale, che a volte si irradiano fino all’orecchio. Arana ha dovuto farsi operare al polso destro per la sindrome del tunnel carpale. Per operarsi al sinistro vorrebbe aspettare ancora un po’. Nel frattempo, il medico le ha diagnosticato anche una malattia cronica, la fibromialgia, letteralmente “dolore ai muscoli e al tessuto fibroso”, il che rende l’idea di come si sente Arana nelle fasi di riacutizzazione della malattia.

Da una ricerca è emerso che in Spagna il 70 per cento delle cameriere d’albergo soffre di dolori cronici e assume regolarmente farmaci per riuscire a lavorare. Oltre agli antidolorifici, molte prendono anche ansiolitici, che servono a gestire meglio lo stress. “Siamo una categoria professionale malata”, osserva Arana. Lei e le sue colleghe avevano l’abitudine di prendere una compressa di paracetamolo ogni mattina all’inizio del turno. Nel corso degli anni la pressione sul lavoro si è intensificata. “Una volta facevamo dodici o al massimo quindici camere al giorno, adesso se ne fanno dalle trenta alle trentacinque”, racconta. E non sta parlando degli ostelli a buon mercato, dove le condizioni per i dipendenti sono spesso pessime. Arana ha quasi sempre lavorato in hotel di lusso, per la maggior parte a cinque stelle.

Battaglie vinte

Da quando non può più lavorare, si impegna per fare in modo che le altre cameriere ai piani non seguano il suo destino. “Chiediamo di essere prese sul serio come categoria professionale, vogliamo solo svolgere il nostro lavoro con dignità”, spiega. E per farlo si sono organizzate in un sindacato tutto loro.

Il sindacato si chiama Las Kellys, un nomignolo che le cameriere ai piani spagnole si sono date da sole e che viene dall’espressione spagnola las que limpian, quelle che puliscono. Nel 2016 si sono costituite in associazione a Barcellona e nel 2018 sono diventate ufficialmente un sindacato. Da allora hanno anche il supporto di un’avvocata che le rappresenta gratuitamente in tribunale. “Dice che si sente una di noi, una Kelly, forse perché è donna anche lei”, spiega Arana, che ha partecipato fin dall’inizio a questa avventura.

Arana racconta che i principali sindacati spagnoli hanno riservato un’accoglienza tutt’altro che calorosa al nuovo sindacato femminile: “Ci odiano”. Lei non ha mai preso in considerazione l’idea di aderire a uno dei grandi sindacati. “Sono troppo pronti ad accettare compromessi al ribasso, solo per non rovinarsi i rapporti con nessuno”, dice. Lei non si accontenta di piccoli passi avanti: “Vogliamo cambiare il mondo”.

Le Kellys sono in lotta da tre anni: per migliori condizioni di lavoro, per il riconoscimento delle malattie professionali, per una serie di cose che dovrebbero essere scontate. Quando faceva la cameriera ai piani, Arana si scontrava di continuo con i datori di lavoro. L’elenco delle sue battaglie è una lista di conquiste: ha ottenuto che lei e le colleghe potessero bere acqua durante l’orario di lavoro, che potessero portare i pantaloni al posto dell’uniforme con la gonna corta, che anche gli uomini potessero essere assunti come camerieri. “Durante la crisi del 2008 molti uomini hanno perso il lavoro, soprattutto nell’edilizia, e allo stesso tempo c’era urgente bisogno di cameriere ai piani”, spiega. Nell’hotel dove lavorava è stata Arana a insegnare il lavoro agli uomini, mostrandogli come rifare un letto e pulire un lavandino. Ha perfino denunciato un datore di lavoro: nel suo hotel a cinque stelle alle cameriere non venivano concessi neanche cinque minuti di pausa. È finita con un procedimento di conciliazione, ma per Arana è stata comunque una vittoria.

“Quando le mie colleghe vengono da me a piangere e lamentarsi, io gli dico: ‘Per piangere vai da quella parte, qui si viene per lottare’”.

In Spagna ci sono circa 400mila persone senza documenti. Sono loro a badare ai bambini, a lavare i pavimenti e a rifare i letti per gli spagnoli

Ogni mattina, prima di uscire di casa, si mette un rossetto rosso acceso. “Più è rosso più mi piace”, spiega, “è la mia pittura di guerra”. Mentre siamo al caffè se lo ripassa due volte. Racconta che nelle giornate in cui si sente a pezzi è quel rosso che le restituisce la gioia di vivere, ma è difficile immaginare come questa donna possa sentirsi a pezzi. Circa una volta al mese Arana è da qualche parte in giro per il paese a manifestare. Solo la pandemia è riuscita a rallentare un poco le Kellys: il settore turistico spagnolo è ancora in fase di stallo, e alle Kellys è mancato molto il contatto diretto tra loro.

Anche per questo, ogni mercoledì Arana frequenta gli incontri di cucito presso la biblioteca Francesca Bonne­maison, ritrovo femminista nel centro storico di Barcellona. Le donne ridono e bevono tè nei bicchieri di plastica, mentre le macchine da cucire lavorano. “Siamo schiave moderne”, dice Arana, e le altre annuiscono. Poi si toglie le scarpe e si avvicina alla macchina da cucire in calzini. Piove, e ha messo le scarpe bagnate ad asciugare sotto il tavolo.

A organizzare gli incontri è l’associazione Sindihogar, che riunisce donne che fanno le domestiche e le bambinaie nelle case private. “Loro sono messe anche peggio delle cameriere ai piani”, dice Arana. “Possono contare solo su se stesse, al lavoro sono isolate e hanno ancora meno possibilità di ottenere qualcosa”. È per questo che oggi è venuta qui ad aiutarle a cucire borse da vendere per finanziare la lotta. Alla parete sono appesi grembiuli ricamati con figure e slogan: “Sono una madre single. Anche noi esistiamo”. Sotto, un pugno chiuso. Le donne indossano questi grembiuli alle manifestazioni. Hanno fatto anche delle bambole di pezza, eroine femminili che spaziano da Rosa Luxemburg a Giovanna d’Arco. C’è anche Valentina Tereškova, la prima donna nello spazio. Le chiamano le loro piccole ribelli e le venderanno per autofinanziarsi.

La maggior parte delle donne che si trovano nella biblioteca faceva altro prima di venire in Spagna, proprio come Arana. C’è Eugenia, argentina, che in realtà ha studiato danza contemporanea; Francesca, cilena, che faceva la giornalista; Norma, sociologa; Roxana, nutrizionista e infermiera. Quasi tutte vivono in Spagna senza permesso di soggiorno. Dei loro lavori precedenti non parlano, proprio come non parlano delle loro vite precedenti. “Perché ormai non contano più”, spiega Arana.

Si stima che in Spagna ci siano tra le 390mila e le 470mila persone senza documenti in regola. Secondo una ricerca dell’università Carlos III e della fondazione porCausa, circa l’80 per cento di loro viene dall’America Latina. La maggior parte lavora in case private: sono loro a badare ai bambini spagnoli, a lavare i pavimenti spagnoli e a rifare i letti spagnoli.

Una manifestazione delle Kellys a Barcellona, febbraio 2019 (Paco Freire, Sopa Images/LightRocket/Getty Images)

Prenotazioni etiche

Per le donne dell’associazione Sindihogar, le Kellys sono un modello. “È ovvio, le Kellys hanno riportato alcune vittorie, sono tante e unite”, dice Norma, fondatrice di Sindihogar, la cui famiglia è originaria dell’Ecuador. Se le chiedono di dove sia, risponde di Barcellona. “Vivo qui da 33 anni e sono nata qui”, spiega. È una donna robusta, con la voce potente e l’aria di chi è abituata a parlare al megafono.

Evidentemente gli uomini potenti dei grandi sindacati vedono come una provocazione il fatto che le donne si organizzino tra loro. Qualche mese fa le Kellys sono state derise pubblicamente da un esponente delle Comisiones obreras, uno dei maggiori sindacati spagnoli, che conta un milione di iscritti. In un’intervista Gonzalo Fuentes, portavoce del sindacato per il settore alberghiero, ha voluto dare lezioni alle donne: i loro progetti sarebbero troppo ambiziosi. Uno di questi progetti è un portale per le prenotazioni alberghiere, gestito direttamente dalle Kellys, in cui i clienti troverebbero solo hotel che rispettano gli standard minimi nella gestione del personale. Una sorta di bollino del commercio equo e solidale per le vacanze, emesso proprio da chi occupa il gradino più basso nella catena del valore del settore turistico.

Quest’estate hanno dato il via a un progetto di crowdfunding, “Prenoto dalle Kellys”, il cui successo ha stupito perfino loro. “Piangevo e urlavo come una ragazzina”, racconta Arana ricordando il momento in cui ha visto sul telefono che avevano superato l’obiettivo dei sessantamila euro. Alla fine ne hanno raccolti 90.235, abbastanza per pagare i programmatori e avviare la costruzione del sito. “Partiremo l’anno prossimo”, dice Arana.

Le Kellys hanno intenzione di collaborare con hotel che rispettino almeno una condizione: devono assumere direttamente le loro cameriere, in modo da essere vincolati ai contratti nazionali di categoria. Negli hotel di lusso è previsto un salario minimo di circa 1.200 euro. Le cameriere assunte da un subappaltatore, come è ormai prassi, non rientrano nel contratto nazionale e spesso figurano come “addette alle pulizie”, il che comporta diverse centinaia di euro in meno in busta paga. Negli ultimi anni non è aumentato solo il numero dei letti da rifare, ma anche le pretese dei clienti, racconta Arana. Per gli ospiti fare il check-out più tardi è una comodità, ma per le cameriere è un incubo. Più tardi i clienti lasciano le camere, meno tempo resta per pulirle prima che arrivino gli ospiti successivi. “I letti rifatti sono fondamentali, eppure al nostro lavoro non viene più attribuito il giusto valore”. Il cliente ha sempre ragione. E le conseguenze le paga chi non è tutelato da una lobby.

Un vero femminista

Le Kellys si sentono ignorate dalla politica. Qualche anno fa Pablo Casado, attuale leader del Partito popolare, la principale forza di opposizione, ha dato una risposta umiliante a una loro collega durante un dibattito. La donna spiegava che prendeva due euro per ogni letto rifatto, e che per sopravvivere doveva rifare quattrocento letti al mese. Dal palco Casado le ha risposto che capiva bene come le sue condizioni di lavoro non fossero ideali, ma che difficilmente potevano essere peggiori di quelle di suo fratello, medico ospedaliero, che ogni giorno si occupava dello stesso numero di letti.

Neanche i partiti di sinistra hanno offerto molto sostegno alle Kellys, e Arana è ancora più diffidente nei loro confronti. “Se siamo vicini a qualche elezione e ricevo una chiamata da un numero sconosciuto, non rispondo mai”, spiega. Troppo spesso è capitato che politici di sinistra gli chiedessero un incontro per scattare qualche foto. E dopo il voto non cambiava assolutamente nulla. Ada Colau, la sindaca di Barcellona, non fa eccezione: il fatto che sia donna cambia poco. Non esita a definirsi femminista, spiega Arana, ma è una che preferisce essere in buoni rapporti con gli uomini.

“Sono venuta in Spagna perché a casa mia non avrei potuto vivere liberamente. Prima sarebbero stati i miei genitori a decidere per me, e poi mio marito”. In Spagna Arana ha trovato un uomo che la sostiene in molte cose, anche nel suo nuovo ruolo di sindacalista. Ma a renderla particolarmente orgogliosa è suo figlio di 22 anni, che quando lei torna a casa tardi dopo le assemblee sindacali spesso le fa trovare la cena pronta. “Credo che sia un vero femminista”. ◆ sk

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Questo articolo è uscito sul numero 1448 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati