Nel mondo sono stati avviati centinaia di studi scientifici per contrastare il nuovo coronavirus. Di questi solo poche decine sono svolti da laboratori africani. La pandemia potrebbe essere l’occasione per la scienza africana di salire sul treno della globalizzazione? Non è scontato: anche se il panorama scientifico del continente si sta evolvendo rapidamente, la scienza globalizzata viaggia ad alta velocità.
“Con lode”: Marie-Françoise Roy assapora soddisfatta un momento che aspettava da tempo. All’inizio di gennaio del 2020 all’università Assane Seck di Ziguinchor, in Senegal, Sény Diatta ha finalmente sostenuto la tesi di dottorato in matematica di cui Roy era la relatrice. Un percorso di studi durato molti anni, ma la docente dell’università francese di Rennes 1, che dagli anni ottanta si batte per lo sviluppo dello studio della matematica nell’Africa francofona, sa che la pazienza è la virtù dei forti e che le scienze africane progrediscono a un ritmo tutto loro.
In medicina e in fisica, le due discipline in cui è più probabile che si formino scienziati di alto livello, si vedono già risultati notevoli in Africa occidentale
Per Roy, che ha contribuito a lanciare il corso di laurea specialistica in matematica in Niger negli anni ottanta, i dottorandi di oggi rappresentano una nuova generazione di studiosi. Ma sa che c’è ancora molta strada da fare in questo continente, dove l’eccellenza si alterna al vuoto più assoluto e dove la priorità è rendere stabili i centri di studio più efficienti. È un po’ quello che sta succedendo con la pandemia di covid-19, che ha favorito lo sviluppo di settori di punta, in grado di elaborare risposte adatte al contesto africano e di collaborare con la ricerca di altri paesi senza complessi d’inferiorità.
In un continente che a sessant’anni dalle indipendenze aspetta ancora il suo primo premio Nobel in discipline scientifiche al di fuori del Sudafrica, il problema è sapere se i laboratori avranno un futuro. In medicina e in fisica, le due discipline in cui è più probabile che si formino scienziati africani di alto livello, si vedono già risultati notevoli in Africa occidentale. Oltre alla scoperta del virus hiv-2 in un laboratorio senegalese e dell’efficacia della chemioprevenzione contro la malaria, un fisico del Burkina Faso ha permesso di affinare considerevolmente le previsioni meteorologiche studiando le variazioni del segnale elettromagnetico che precede piogge e uragani.
Sono progressi considerevoli, anche se sono meno popolari della colla inventata dal sudafricano George Pratley, che permise all’equipaggio dell’Apollo 11 nel 1969 di rimettere insieme i pezzi della navicella e di tornare sulla Terra. Più di recente, nel 2018, il burkinabé Frédéric Ouattara ha ricevuto il premio Africa dell’Unione americana di geofisica. Nello stesso anno il senegalese Mouhamed Moustapha Fall è stato il primo matematico subsahariano invitato a parlare al Congresso internazionale dei matematici di Rio de Janeiro, un evento d’importanza mondiale. Inoltre alcuni laboratori africani sono in prima linea nello studio del nuovo coronavirus.
Traiettorie diverse
Ma questi progressi rimangono isolati in un continente dove nonostante le ambizioni dell’Unione africana (Ua), nessun paese riesce a destinare nemmeno l’1 per cento del pil alla ricerca. Secondo i dati della Banca mondiale, nel 2017 il Sudafrica e il Kenya erano fermi allo 0,8 per cento, il Burkina Faso allo 0,67, il Ghana allo 0,38 e il Madagascar allo 0,01. La percentuale della Francia, che non è tra i paesi più virtuosi del mondo, era del 2,19 per cento e quella del Nordamerica del 2,71 per cento.
L’Africa ha seguito una traiettoria diversa da quella dell’Asia, dove paesi come il Vietnam e la Cambogia, partiti da livelli molto bassi trent’anni fa, hanno raggiunto una rilevanza internazionale. Di fatto il continente africano è la zona geografica che contribuisce di meno alla ricerca scientifica mondiale, con appena il 3 per cento delle pubblicazioni (di cui la metà sono sudafricane e nigeriane). Anche se sono poche per un continente dove vive il 14 per cento della popolazione mondiale, questo dato non deve oscurare i progressi compiuti, perché il numero di pubblicazioni di ricercatori di origine africana è aumentato del 60,1 per cento tra il 2008 e il 2014, rispetto a un aumento del 13,8 per cento di quelle europee.
Di fatto il panorama africano è molto eterogeneo, “con poli di ricerca di alto livello, che però non riescono ad avere ricadute all’esterno e non formano un numero sufficiente di ricercatori”, si rammarica Annick Suzor-Weiner, docente all’università Paris-Saclay e vicepresidente dell’Associazione per la promozione scientifica dell’Africa (Apsa).
Nel campo della matematica, per esempio, molti concordano nel riconoscere gli ottimi risultati raggiunti in Benin, la buona scuola di statistica del Camerun e l’alto livello della didattica in Senegal.
Ma tutti si preoccupano della fragilità delle équipe e della loro tenuta nel corso del tempo. Nonostante gli sforzi fatti per creare laboratori e finanziare piattaforme all’avanguardia, i ricercatori sono ancora troppo pochi. Inoltre sono molto richiesti e spesso abbandonano le università, dove sono sottopagati, per un posto in un ministero o in una grande organizzazione internazionale. È il caso del nigerino Issoufou Katambé, passato all’inizio del 2019 dal suo laboratorio dell’università Abdou Moumouni di Niamey al posto di ministro dell’idraulica e poi della difesa. O di Moussa Baldé, che ha preferito diventare ministro dell’agricoltura e dello sviluppo rurale in Senegal invece di continuare le sue promettenti ricerche. Per non parlare di Cheick Modibo Diarra, che è stato astrofisico alla Nasa prima di diventare capo del governo del Mali nel 2012. Questi cambiamenti di carriera sono anche la conseguenza delle condizioni dell’università, dove “i giovani ricercatori sono obbligati a dedicare molte ore all’insegnamento a causa del gran numero di studenti”, si rammarica Jean-Paul Moatti, ex presidente dell’Istituto francese di ricerca per lo sviluppo (Ird). Inoltre bisogna ricordare l’influenza dei professori anziani sulla carriera dei giovani ricercatori, in particolare nelle università francofone, dove spesso i docenti di lunga data preferiscono circondarsi di persone selezionate in base ai rapporti personali più che ai lavori di ricerca.
Per sostenere chi vuol fare carriera in campo scientifico, l’Apsa ritiene essenziale la creazione di una comunità scientifica panafricana. E a questo scopo si batte “organizzando ogni due anni eventi per mettere in contatto tra loro i giovani ricercatori del continente”, ricorda
Suzor-Weiner.
Anche se per molto tempo si è pensato che gli africani avrebbero sviluppato per conto loro una scienza per il continente, oggi ci si rende conto che la ricerca non ha confini e che senza i dati relativi all’Africa mancano dei pezzi a questa grande struttura generale. Per Moatti una prova è l’emergenza climatica, di cui per molto tempo abbiamo minimizzato la rapidità e la portata proprio a causa della mancanza di dati affidabili provenienti dal sud del mondo.
“Le collaborazioni con i paesi del sud sono considerate come delle specie di aiuti allo sviluppo, ma è un errore. Abbiamo un grande bisogno dei loro studi per progredire nella comprensione globale dei fenomeni naturali”, insiste Moatti. “Dovendo fare i conti con risorse limitate, gli scienziati africani immaginano una ricerca più partecipativa e fanno innovazione contenendo le spese. Non partono da programmi di ricerca basati sulle diverse discipline, ma da problemi concreti che la scienza deve risolvere. Questo metodo si sta imponendo anche fuori dall’Africa, la Cina per esempio ha cominciato a seguirlo e anche noi lo stiamo prendendo in considerazione”.
Libertà di movimento
Per accelerare il cambiamento un ruolo fondamentale spetta ai vari paesi, che devono definire delle strategie d’innovazione nazionali o regionali, aumentare gli investimenti nella ricerca e nello sviluppo, puntare sulla cooperazione con il settore privato e così via.
Il Ruanda e il Marocco hanno dato l’esempio, ma sono ancora poco seguiti. Negli ultimi anni diverse iniziative si sono moltiplicate per far emergere centri di ricerca e università di alto livello. La Banca mondiale, per esempio, finanzia l’insegnamento post-universitario e ha contribuito alla nascita di un’Accademia africana delle scienze in Kenya.
Annick Suzor-Weiner sottolinea che bisognerebbe intensificare la circolazione dei ricercatori, adottando una politica più generosa per la concessione dei visti. Secondo la vicepresidente dell’Apsa per spingere i giovani che hanno studiato nelle università in Europa o negli Stati Uniti a tornare nei loro paesi d’origine per contribuire alla ricerca è necessario farli sentire liberi di andare e venire, così che siano consapevoli di fare pienamente parte di una comunità scientifica mondiale.
È questa l’aspirazione del più giovane continente della Terra, come ha mostrato la pandemia di covid-19. ◆ adr
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Questo articolo è uscito sul numero 1366 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati