Secondo mia madre per vendere bisogna far sognare le clienti. E lei lo sa fare benissimo. Lavora in un negozio di abbigliamento a Friburgo, in Germania. Ha i capelli ricci e scuri, e parla un tedesco non proprio perfetto. Capita spesso che una cliente le chieda da dove venga. “Perché non prova a indovinare?”, risponde mia madre, che adora fare questa domanda.
“Dalla Spagna?”. “No”.
“Dall’Italia?”. “Neanche”.
“Da un paese arabo?”. “Ma no”, dice a quel punto. “Da un paese dei Caraibi”. E dopo una breve pausa a effetto, proclama: “Da Cuba”.
Appena pronuncia questa frase, le clienti tedesche si trasformano: sgranano gli occhi e cominciano a sognare un paese da favola, dove si lavora poco, si balla la salsa, si beve mojito e si fumano i sigari. Quando le clienti sognano Cuba, l’atmosfera nel negozio migliora e tutto appare più bello, pensa mia madre. È il suo trucco per vendere bene. Di recente a mia sorella Isabel è venuta un’idea: perché non facciamo un viaggio a Cuba noi tre? Non è stato facile convincere mia madre, ma qualche mese dopo eccola qui: seduta accanto a me sul volo da Francoforte all’Avana. Quando stiamo per atterrare, poggia la fronte sul vetro del finestrino: la terra sotto di lei è verde e rossa, ci sono cespugli, stagni e palme. “Ecco la giungla”, dice. “Non si vede anima viva. È bellissimo, vero?”. Una volta a terra tira fuori un cappellino di paglia colorato che ha comprato ai grandi magazzini Karstadt. Poi mi guarda e mi chiede dove dobbiamo andare: ha 52 anni e l’ultima volta che è stata a Cuba, il suo paese di origine, è stato ventiquattro anni fa.
Per quasi mezzo secolo Cuba è stata governata da Fidel Castro, che aveva promesso una società egualitaria, senza fame né sfruttamento. All’inizio molti cubani ebbero un certo benessere. La rivoluzione del 1959 aveva i suoi ammiratori anche in Germania: Cuba sembrava indicare al sud globale la strada per superare la povertà, sostituendo al capitalismo un socialismo allegro in salsa caraibica. Oggi la situazione è precipitata. Nel 2024 il governo cubano ha chiesto per la prima volta l’aiuto del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite, ci sono blackout quotidiani e a ottobre l’isola è rimasta senza elettricità per giorni.
Prima di partire credevo che il socialismo avesse le ore contate e che il sistema stesse per implodere. Ora non ne sono più così sicuro. Attraversiamo L’Avana in taxi, fuori è già buio. Mia madre parla tutto il tempo con l’autista. Da quando hanno messo i lampioni? Perché è pieno di pozzanghere? È una strada pericolosa? Al semaforo, il tassista ci porge un biglietto da visita: porta in giro i turisti come noi. Si rivolge a mia madre e le dice: “Ti faccio vedere la spiaggia e i posti più belli della città”. Lei scoppia a ridere. Poi scendiamo davanti a un palazzo dalla facciata blu. È strano vederla qui, in un posto di cui ci ha parlato tanto. In questo palazzo, costruito nel 1943, ha trascorso l’infanzia. È nel quartiere del Vedado, dove vivono funzionari del governo e professori universitari, a due passi dal malecón, il lungomare della città.
Ristorante e avanzi
Nell’androne sentiamo la voce di un rapper statunitense venire da uno degli appartamenti, quella di un politico cubano da un altro. Al secondo piano c’è l’appartamento che mia madre ha ereditato dai suoi nonni e che sta cercando di ristrutturare da qualche anno, gestendo i lavori dalla Germania. Ma c’è sempre qualche intoppo. I vicini si sono lamentati dei rumori, poi c’è stato un tubo che perdeva e infine si sono ammalati gli operai.
La porta di casa è ancora avvolta nella plastica, l’hanno montata solo qualche mese fa. L’appartamento è proprio come in foto, se non peggio: per terra ci sono sacchi di cemento aperti e piastrelle rotte, mozziconi di sigaretta, bottiglie d’acqua vuote e una lucertola impolverata, non si capisce se viva o morta. Due stanze per 43 metri quadri di caos assoluto. Mamma però è al settimo cielo: spalanca le finestre e manda messaggi vocali euforici agli amici in Germania, poi scatta foto a tutto. “Ma quanto è bella”, dice. Ora che è qui, crede che riuscirà a finire i lavori. Finalmente la casa potrà accogliere i turisti. L’idea è proprio questa: dopo la ristrutturazione l’appartamento sarà affittato in puro stile capitalista. Nei giorni successivi mia madre bussa a molte porte del palazzo blu. Fa fatica a riconoscere alcuni vicini di un tempo: Juanito del primo piano, quello con cui suo padre andava sempre a pescare; Sofía del terzo piano, che parlava sempre di Fidel perché faceva la hostess sull’aereo di stato. A tutti mia madre consegna una tavoletta di cioccolata Lindt, seguono baci e abbracci, poi comincia a raccontare della Foresta nera, della neve e dello stinco di maiale, mentre i vicini le parlano della situazione a Cuba. Per proteggerli non ho usato i loro veri nomi. Ho omesso anche il nome di mia madre che teme, a torto o a ragione, che possano toglierle la casa.
Un racconto particolarmente dettagliato è quello di Clara, 73 anni. Cuoca in pensione, ha lo smalto rosa e indossa una salopette piuttosto corta. “La situazione è catastrofica”, dice mostrandoci il gruppo WhatsApp di quartiere. Clara scorre la chat, dove si leggono solo lamentele. La gente pubblica foto di file ai bancomat, strade piene di rifiuti e fogli con il nome di farmaci di cui c’è urgente bisogno. Si rivolgono ad Alfredo, che lavora al comune. “Scusi l’impazienza, ma nella nostra via manca l’acqua da tre giorni”. “Nella nostra da sette”. “Dobbiamo lavarci”. “Almeno nel palazzo blu l’acqua c’è ancora, grazie a Dio”, dice Clara.
Prima il lungomare era sempre pieno di gente: pescatori del posto, coppie, turisti. Quando Clara rimaneva a casa e apriva la finestra sentiva spesso la musica: sul malecón suonavano vari gruppi internazionali. “La gente ballava sulle macchine parcheggiate”, racconta.
Oggi manca tutto. I turisti scarseggiano e varie compagnie aeree internazionali hanno sospeso i collegamenti con Cuba. L’economia va male. Negli anni ottanta il raccolto annuale di canna da zucchero superava gli otto milioni di tonnellate, oggi si è ridotto del 97 per cento. E dato che l’agricoltura cubana ha praticamente smesso di produrre generi alimentari, i prezzi sono schizzati alle stelle. “È questo il mio problema principale”, spiega Clara. La pensione è rimasta la stessa: 1.638 pesos cubani al mese, l’equivalente di 64 euro. Bastano a malapena per mezzo cartone di uova o due chili e mezzo di pollo. Clara è costretta a fare affidamento sugli amici all’estero che le mandano soldi oppure stoffe e vestiti da rivendere.
La invitiamo a uscire con noi: una bella cenetta, un mojito e magari un po’ di salsa in uno degli alberghi più famosi dell’Avana, Presidente. Il ristorante, però, è vuoto. Quando apriamo il menù, la cameriera si scusa: può offrirci solo riso integrale e cosce di pollo. Ci consiglia di andare a mangiare da un’altra parte. Puntiamo direttamente su un albergo a cinque stelle di una catena spagnola, con un ristorante italiano. Qui è possibile ordinare tutti i piatti presenti sul menù. Da un momento all’altro, però, ci ritroviamo al buio. Anche la cucina è fuori uso. Guardando giù dalla terrazza capiamo che la corrente è andata via in tutto il quartiere. Gran parte delle infrastrutture di Cuba risalgono agli anni sessanta e settanta, e il governo non ha i soldi per modernizzarle. Dopo aver vagato per le strade buie dell’Avana, finiamo in un ristorante dove ci servono una carne gommosa dal sapore molto strano. Non la finiamo. Clara, raggiante, si fa dare una busta e ci mette dentro i nostri avanzi. Per dopo.
Un amore coraggioso
Prima della rivoluzione cubana del 1959 L’Avana non era molto diversa da una qualsiasi città dell’Europa occidentale. Ma lontano dalla capitale, nelle campagne, c’era molta miseria: quasi metà della popolazione era analfabeta e molti vivevano in capanne senz’acqua corrente né elettricità. Cuba era il paese con più disuguaglianze di tutta l’America Latina. La maggior parte dei terreni agricoli apparteneva ad aziende statunitensi e a tutelarne gli interessi c’era il presidente dell’isola, il dittatore Fulgencio Batista.
Più tardi mia madre mi confessa che le mancano la disciplina e l’affidabilità dei tedeschi, quello “scatto decisivo che fa funzionare le cose”
Sulle montagne della Sierra Maestra, nel sudest, si formò un gruppo di guerriglieri che accolse i cubani insoddisfatti: contadini e operai dalle campagne, ma anche studenti e artisti dalle città. Bert Hoffmann, politologo tedesco esperto di Cuba, sostiene che la principale particolarità della rivoluzione cubana fu la capacità di avere il sostegno di quasi tutti i gruppi sociali. A capo della guerriglia c’era un giovane avvocato di provincia: Fidel Castro. Il 1 gennaio 1959 Batista lasciò L’Avana e Castro salì al potere dichiarando che a Cuba sarebbero successe cose mai viste prima.
Tredici anni dopo, nel 1972, nacque mia madre. Mia nonna Teresita era biologa all’università, mio nonno faceva l’elettricista. Da bambina mamma studiava il francese, suonava il piano, andava a danza e a teatro. Le importava poco che nei negozi non ci fossero quasi per niente prodotti occidentali: annodava un filo di nylon, lo immergeva nel dentifricio e lo masticava come se fosse una gomma. Si spalmava nei capelli un composto di albumi e olio come se fosse gel. Aveva animali di ogni tipo: criceti, pappagallini, un barboncino e una tartaruga. E due galline che portava a passeggio lungo il malecón usando i lacci delle scarpe come guinzaglio. Erano i tempi d’oro del socialismo cubano. La mia famiglia occupava due appartamenti al secondo piano del palazzo blu: quello di sinistra, che oggi è di mamma, e quello a destra, dove alloggiamo durante il nostro soggiorno sull’isola.
Castro fece costruire centri sanitari, strade, cinema e gelaterie in tutto il paese. Espropriò gli statunitensi e gli altri latifondisti e distribuì le terre ai contadini. Molte persone povere, per la prima volta nella loro vita, ebbero accesso alle cure mediche. Gli studenti furono mandati nelle province per insegnare a leggere e a scrivere. L’analfabetismo sparì quasi del tutto, l’aspettativa di vita si avvicinò ai livelli statunitensi e l’economia era in crescita. Castro però non convocava elezioni libere, censurava la stampa e perseguitava gli oppositori. Ma questo sembrava lontano dalla vita quotidiana della mia famiglia. Dal loro punto di vista, le cose stavano migliorando.
Castro raggiunse i suoi obiettivi grazie a un accordo con il suo grande alleato socialista, l’Unione Sovietica. Dai paesi del blocco orientale i cubani potevano comprare carburante e concime, macchinari e medicinali a prezzo scontato. In cambio, l’Unione Sovietica poteva contare su un alleato geograficamente molto vicino agli Stati Uniti. Lo scambio funzionò finché durò la guerra fredda. Il crollo dell’Unione Sovietica segnò la fine delle importazioni e l’implosione dell’economia cubana. A molti la crisi sembrava senza via d’uscita, proprio come quella attuale. Nel palazzo blu mia nonna vendette i gioielli di famiglia, mia madre smise di andare a danza e a pianoforte, e le galline furono macellate. Per la mia famiglia era il tramonto del paradiso socialista.
Poi il governo castrista scoprì una nuova fonte di reddito: il turismo. Cuba aveva un fascino trasandato, i suoi edifici decadenti erano pittoreschi come le vecchie auto d’epoca. Per gli occidentali che arrivavano dalla Germania, dalla Francia o dalla Spagna la rivoluzione era un’attrazione. Quei turisti potevano girare il mondo, mentre mia madre era bloccata sull’isola. Per uscire servivano il benestare del governo e parecchi soldi, entrambi molto difficili da ottenere.
“Mi sentivo come una bambina a cui i genitori proibiscono di uscire. Più me lo vietavano, più lo desideravo”, dice.
Conobbe un ragazzo tedesco innamorato di Cuba. Ci era già stato due volte, la prima con il Partito socialdemocratico e la seconda con un’organizzazione comunista. Quel ragazzo sarebbe diventato mio padre, un funzionario dell’agenzia delle entrate della regione dell’Odenwald. I due s’innamorarono sul _malecón _e quando lui tornò in Germania cominciarono a scriversi lettere in inglese e in spagnolo. Leggendole, anni dopo, mi sono commosso: il loro era un amore improbabile e coraggioso. Si sposarono e mia madre lasciò L’Avana per trasferirsi a Reichenbuch, nel sud della Germania.
All’inizio, mentre papà lavorava, lei si occupava della casa e del suocero affetto da demenza. Imparava il tedesco con fatica. Oggi dice che si sentiva sola, ma anche orgogliosa: era andata via da Cuba e mandava i soldi alla famiglia. A poco a poco conobbe gli amici, i vicini e i colleghi di papà, a cui dopo mostrò le foto delle sue amiche cubane single. Non voleva “combinare matrimoni” né tantomeno “favorire l’immigrazione”, racconta ridendo. Vuole che citi le sue parole: “Volevo semplicemente far contenti tutti, i tedeschi e le cubane. Volevo risolvere i loro problemi”. Quelli delle cubane che volevano andare via dal paese e quelli dei tedeschi benestanti che si sentivano soli.
Alcuni di questi uomini andarono a Cuba per conoscere le amiche della mamma. La storia dei miei genitori si ripeté per Telma, Carmen, Maite e la cugina Janet: tutte si trasferirono nella regione dell’Odenwald. Perfino mia nonna Teresita, da tempo divorziata dal nonno, lasciò il palazzo blu e trovò un nuovo compagno in Germania: Theo, il vicino di papà, elettricista prossimo alla pensione.
Sono trenta ore e più di mille euro per il volo di sola andata. Jorge sta risparmiando su tutto il possibile, ma ci vuole tempo
Io sono nato nel 1995, primo di nove tedesco-cubani. La nonna vendeva sigari e preparava cuba-libre alle feste della chiesa, mamma insegnava la salsa e sul cartello stradale di Reichenbuch c’era un adesivo con la scritta Piccola Avana. Non durò a lungo. Di tutte quelle relazioni, solo tre hanno resistito, e una è stata quella di Theo e Teresita. I miei genitori si sono separati e nel 2004 mi sono trasferito a Friburgo con mia madre, il suo nuovo compagno e mia sorella Isabel. A casa non parlavamo quasi mai di Cuba. L’unico rimasto sull’isola era il nonno e gli mandavamo vestiti e medicinali.
Sentirsi a casa
Nel 2016 è morto Fidel Castro. Il potere era già passato al fratello Raúl, che aveva avviato un processo di riforme introducendo alcuni scampoli di libero mercato: sono stati aperti ristoranti e caffè privati, molti cubani si sono messi in proprio e sono arrivate le catene alberghiere internazionali. Per la prima volta dopo 88 anni un presidente statunitense, Barack Obama, è andato in visita di stato a Cuba per “sotterrare le ultime vestigia della guerra fredda sul continente americano”. I cubani lo hanno acclamato. All’epoca mia madre credeva che Cuba sarebbe tornata a prosperare. Ma non ci siamo mai andati in vacanza, perché non poteva permettersi il volo per tutti e tre. E poi, da quando il padre era morto, a parte la casa non aveva più niente.
Due anni fa ha assunto dalla Germania un’arredatrice d’interni spagnola che ha realizzato un progetto al computer: 65 pagine con immagini ad alta risoluzione, piastrelle a mosaico per il pavimento, faretti sul soffitto e un frigorifero Smeg verde. Il bilocale sul malecón porterà “la firma inconfondibile del gusto cubano, che non rifugge colori e texture vivaci”. A realizzare il sogno avrebbe dovuto essere l’ingegnere Redys, scovato su un sito cubano. “Piano piano faremo tutto”, dice Redys. Oggi gli operai devono fare il controsoffitto, e prima o poi toccherà anche ai faretti. Mamma si fida di lui, ma capisce che le cose non stanno procedendo come dovrebbero. Quando glielo fa notare, Redys risponde che gli dispiace, ma non può fare più in fretta: ci sono i blackout e i materiali come il cemento, che lei non può spedire dalla Germania, sono difficilissimi da trovare.
Già in occasione della sua ultima visita, nel 2000, mia madre aveva notato che le facciate dei palazzi si erano scolorite. Quella decadenza ha smesso da tempo di essere pittoresca: le case cadono letteralmente a pezzi e capita di continuo che ospedali, palazzi e musei debbano essere sgomberati.
“Sono sotto shock”, continua a ripetere. “Immaginati di avere migliaia di tessere di un puzzle, tutte già viste. Cominci a metterle insieme e a un certo punto ti rendi conto che l’immagine che stai assemblando ti è del tutto estranea”. Forse per questo chiede se sembra ancora cubana a tutti quelli che incontriamo.
Le rispondono di sì, probabilmente per gentilezza. Non ci vuole molto per capire che manca dall’Avana da un’eternità: riesce a perdersi nel suo quartiere e a farsi imbrogliare dai tassisti. È sempre alla ricerca di cose che, senza una buona conoscenza del posto, sono difficili da trovare, per esempio l’acqua in bottiglia oppure i contanti. Alla fine, l’acqua ce la dà Clara e i contanti la figlia di un conoscente. Ma il gabinetto che mamma vorrebbe comprare per l’appartamento è un’altra storia.
Andiamo senza successo in due negozi fai da te semideserti e con gli scaffali vuoti, poi in un centro commerciale. Un tassista ci suggerisce un negozio che vende solo sanitari. È un po’ fuori mano, alle spalle di un parcheggio e per arrivarci attraversiamo a piedi un quartiere molto più degradato del Vedado. Su un marciapiede bivacca un gruppo di ragazzi con gli stivali di gomma. Quando ci vedono arrivare, con l’aria da turisti, io con i pantaloni di lino e mamma con il cappellino di paglia di Karstadt, schizzano in piedi e ci chiedono: “Cosa state cercando?”.
Sui cellulari ci mostrano foto di gabinetti che con un po’ di pazienza potrebbero procurarci. Ma a mamma sembra tutto “molto inaffidabile” e ce ne andiamo.
Più tardi mi confessa che le mancano la disciplina e l’affidabilità dei tedeschi, quello “scatto decisivo che fa funzionare le cose”. Insomma, perché i cubani non raccolgono i rifiuti davanti alla porta di casa e non puliscono i vetri sporchi? Non mi è mai sembrata così tedesca come a Cuba. Le chiedo se la sente ancora casa sua: “Non saprei”, dice. Anche mia sorella, che è psicologa, un giorno le chiede se qui si sente a casa. Mamma svicola, dice che è passato tanto di quel tempo dall’ultima volta che è venuta. Ma alla fine risponde: “Non saprei”. Isabel la incalza: “Dove ti senti a casa?”. “Be’, non qui. Forse in Germania”.
Un po’ di pazienza
Il fatto che mia madre faccia continui paragoni tra Cuba e la Germania, tra la casa di un tempo e quella di ora, è normale, ma anche ingiusto. È ovvio che al confronto con una potenza industriale europea come la Germania per molti aspetti l’isola caraibica non regga. Il quadro diventa più complesso quando si paragona Cuba con gli altri paesi latinoamericani.
Un anno fa sono andato nel Salvador per fare un reportage. Negli anni ottanta ci fu una guerra civile in cui si scontrarono l’esercito governativo di destra sostenuto dagli Stati Uniti e la guerriglia di sinistra sostenuta da vari paesi, tra cui Cuba. A vincere non fu il socialismo, ma il capitalismo. Eppure oggi la situazione nel paese è pessima, proprio come a Cuba anche se in modo diverso. Finita la guerra civile, per molto tempo ci sono stati scontri tra bande rivali armate di fucili d’assalto, bombe a mano e machete. Poi è arrivato un nuovo presidente, che ha abolito lo stato di diritto e ha messo in galera decine di migliaia di persone senza fare differenze tra colpevoli e innocenti. La sicurezza è un problema in quasi tutta l’America Latina. In Brasile ci sono assalti armati nelle favelas, in Ecuador i carri armati circondano le prigioni, in Honduras c’è il coprifuoco. Ad Haiti la violenza è fuori controllo, le bande attaccano commissariati e tribunali, ci sono di continuo violenze contro le donne e rapimenti di bambini.
A Cuba non ci sono bande armate, il tasso di omicidi è basso e, per gli standard latinoamericani, è un paese molto sicuro. E ci sono anche altri dati interessanti. Quello dello Human development index, per esempio, che classifica i paesi in base al loro livello di sviluppo umano. In testa alla classifica ovviamente ci sono paesi come la Norvegia e la Svizzera. Ma Cuba non è il fanalino di coda: è in posizione centrale, prima di paesi capitalisti con economie più forti come il Brasile o il Perù, e molto prima del Salvador e di Haiti. In alcune sottocategorie, poi, Cuba se la cava benissimo: occupa il terzo posto a livello mondiale per quanto riguarda la spesa per l’istruzione in rapporto al pil e il primo per il numero di medici in rapporto alla popolazione complessiva. Sono tanti che vengono inviati anche all’estero: negli ultimi decenni centinaia di migliaia di mediche e medici cubani sono stati in missione in tutto il mondo, in zone colpite da crisi umanitarie e catastrofi naturali, tanto da essere stati più volte proposti per il premio Nobel per la pace.
Per me, mia madre e mia sorella questo lato di Cuba rimane invisibile. Ma parlando con l’oculista del secondo piano, con la hostess di Fidel Castro del terzo o con l’insegnante del quarto, capiamo che la situazione per loro è capovolta: è l’altro lato del paese a prevalere, almeno in parte, sulla crisi in corso. Non mettono in discussione il sistema socialista. Parlano delle conseguenze della pandemia, che hanno colpito il paese in maniera particolarmente pesante perché Cuba dipende molto dal turismo; della crisi del Venezuela, un paese che da decenni ha sostituito l’Unione Sovietica come fornitore di petrolio a basso costo, e dell’inflazione. E poi ci sono gli statunitensi.
Negli anni sessanta, subito dopo la rivoluzione, gli Stati Uniti imposero delle sanzioni a chi aveva rapporti commerciali con Cuba, con l’obiettivo di indebolirla. Durante la visita di stato del 2016 Obama aveva annunciato l’abolizione di questo embargo. Poi, con la prima amministrazione di Donald Trump, il processo di riavvicinamento tra i due paesi si è bruscamente concluso: Trump ha perfino inasprito l’embargo, introducendo 243 nuove misure che il suo successore, Joe Biden, ha lasciato in gran parte intatte. Per gli statunitensi andare in vacanza a Cuba è possibile solo a condizioni gravose, i bonifici sui conti correnti cubani hanno limiti severissimi e le aziende statunitensi non possono investire nell’isola né vendere carburante o pezzi di ricambio per le centrali elettriche. Neanche gabinetti. L’embargo colpisce anche le aziende di paesi terzi attive sia a Cuba sia negli Stati Uniti. Alcuni istituti di credito tedeschi hanno interrotto le relazioni con L’Avana per timore di ritorsioni statunitensi. Gli Stati Uniti hanno inserito Cuba nella lista dei paesi che sostengono il terrorismo insieme all’Iran, alla Corea del Nord e alla Siria.
Nel suo appartamento al terzo piano del palazzo blu, Clara, la cuoca in pensione, si picchietta il polso con aria teatrale, come se portasse l’orologio. Più di sessant’anni di embargo, è un sacco di tempo! Senza le sanzioni, s’illude Clara, a Cuba “la situazione sarebbe rosea”. E invece, per quanto i cubani s’impegnino per ottenere anche solo un briciolo di benessere, ci si mettono sempre gli Stati Uniti a rovinare tutto.
“Ma allora che dobbiamo fare?”, si chiede Clara, “diventare capitalisti”? Per carità: significherebbe inseguire il sogno americano e, di conseguenza, avere sempre sonno. El sueño americano es tener sueño, il sogno americano è avere sonno. Non ci sarebbe tempo per la musica, per ballare, per pensare. “Ma arriveranno tempi migliori”, continua, “dobbiamo avere pazienza”. A ottobre, quando la corrente è mancata per giorni, ha riempito il frigorifero di bottiglie d’acqua per evitare che le provviste andassero subito a male. Per caricare il cellulare doveva arrivare fino al poliambulatorio all’angolo, che ha il generatore. Una bella scocciatura, ma in fondo non è stato niente di grave.
Il collasso del regime cubano è stato annunciato più volte: non solo negli anni novanta, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, ma anche prima, subito dopo il trionfo della rivoluzione, quando le truppe statunitensi attaccarono Cuba. Poi quando è morto Fidel Castro. Invece il socialismo ha resistito, forse perché Cuba è piena di persone che la pensano come Clara. Questo discorso vale soprattutto per i più anziani, nati prima della rivoluzione: ancora ricordano la fame sofferta negli anni quaranta e cinquanta, la povertà delle campagne e la mancanza di scuole.
Sono ancora grati a Fidel Castro e ai suoi compagni per quello che hanno fatto per Cuba. Se mettessero in discussione il socialismo, dovrebbero mettere in discussione se stessi e la loro vita nel paese. Anche per questo al momento il governo socialista non deve temere per la sua sopravvivenza. Ma i più giovani, quelli che devono guardare avanti e hanno conosciuto soprattutto la crisi?
Sognando la Thailandia
È la mia ultima sera a Cuba e ho appuntamento con Jorge, che ha 29 anni come me e ha studiato economia. È il figlio di Juanito, il signore che andava a pescare con mio nonno, e vive con lui nell’appartamento sotto quello di mia madre. Jorge ha il gel nei capelli e indossa una camicia elegante. È bello, con un gran fisico e un sorriso gentile. Mentre aspettiamo il taxi davanti al palazzo blu, mi chiede due cose, vergognandosi un po’. “Possiamo parlare inglese?”. Deve fare pratica. E poi: “Puoi pagare tu stasera?”. Deve risparmiare. Quando gli chiedo perché, mi risponde: “I will tell you later”, te lo dico dopo.
La Fábrica de arte cubano è una galleria d’arte con discoteca annessa in una vecchia fabbrica di olio per cucinare. L’ingresso costa otto dollari statunitensi e alle pareti sono appese le foto di una discarica e di un uomo nudo con una maschera verde. Ci sono soprattutto turisti: olandesi, danesi e italiani. Ordiniamo due mojito e ci sediamo nel cortile interno. Jorge comincia a raccontare che non è soddisfatto della vita a Cuba, perché non ha una casa sua né un lavoro serio. Guadagna qualche dollaro aiutando i musicisti a trasportare l’attrezzatura. Ma soprattutto non trova una donna con cui mettere su famiglia: la maggior parte di quelle che conosceva hanno lasciato il paese, come molti suoi amici.
Alcuni prendono l’aereo per il Nicaragua, dove possono entrare senza visto, e da lì provano a raggiungere gli Stati Uniti via terra. Jorge ha perfino sentito dire che qualcuno si costruisce delle imbarcazioni con cui salpare verso Miami, in Florida, a più di trecento chilometri di distanza.
Di tanto in tanto i cubani sono scesi in piazza per chiedere un cambiamento, ma il governo ha sempre represso le proteste. Rendendosi conto che non avrebbero ottenuto nulla, i giovani se ne sono andati. Ed ecco l’altra ragione della longevità del socialismo: chi è insoddisfatto va via. Negli ultimi tre anni Cuba ha perso un abitante su dieci.
Jorge però non vuole andare negli Stati Uniti. Via terra o via mare, la rotta per arrivarci è troppo pericolosa. E poi non crede che lì la vita sia semplice. Lui vorrebbe emigrare in Thailandia.
Sono sorpreso: come mai in Thailandia? Jorge scoppia a ridere. Tre mesi fa su un’app di incontri ha conosciuto una donna tailandese di 27 anni che fa l’estetista. Non l’ha mai incontrata ma la sente tutti i giorni al telefono, nonostante dodici ore di fuso orario. Di solito si parlano la mattina, quando Jorge comincia la sua giornata e lei rientra a casa dal lavoro. A volte, mentre chiacchierano, bevono un bicchiere di vino rosso. A Jorge piace, è un romantico.
Parlano per ore: dei loro ex, delle loro famiglie, di sesso, di solito in inglese. È per questo che lui sfrutta ogni occasione per fare pratica con la lingua. “Lei mi piace molto”, dice Jorge. “Tra noi c’è un’ottima chimica”. Online Jorge ha scoperto con gioia che la Thailandia è piena di turisti: magari riuscirà a trovare lavoro come guida. Al telefono lui e la donna tailandese hanno già pianificato tutto: sono trenta ore e più di mille euro per il volo di sola andata. Jorge sta risparmiando su tutto il possibile, ma ci vuole tempo. Spera che lei abbia pazienza. Se le cose tra loro andassero bene, vorrebbe che lo raggiungesse anche suo padre. A meno che non trovi il modo di lasciare il paese per conto suo: ha conosciuto una signora tedesca su internet.
Gratitudine
Dopo tre settimane torniamo in Germania. Facciamo il check in all’aeroporto dell’Avana e poi passiamo al controllo passaporti. Chiedono a mia madre se parla spagnolo. Lei s’incupisce e mi chiede: “Perché mi scambiano per una straniera?”. Ho fatto questo viaggio per capire meglio mia madre e il suo paese e in un certo senso ci sono riuscito. Ho visto il palazzo in cui è cresciuta e l’appartamento di cui mi aveva tanto parlato. Ma c’è anche un’altra cosa, un’abilità che prima non padroneggiavo e ora ho acquisito: l’uso del congiuntivo e del condizionale in spagnolo. In queste settimane mi sono serviti.
Cosa ne sarebbe stato di Cuba se non ci fosse stata la rivoluzione? Come sarebbe oggi il paese se Fidel Castro e i suoi uomini avessero perso la guerra contro il governo? Forse comprare un gabinetto sarebbe più facile. Ma la gente starebbe meglio? Non lo so. Senza la rivoluzione mio padre non si sarebbe innamorato di Cuba e non ci sarebbe andato, i miei genitori non si sarebbero conosciuti e Isabel e io non saremmo mai nati. Almeno di questo mia madre dev’essere grata al socialismo.
Sulla pista, mentre andiamo verso l’aereo, mamma si mette a chiacchierare con una donna cubana che le racconta contenta della figlia che studia a Colonia. “È la prima volta che vai all’estero?”, le chiede. “Sì”, risponde la donna. “Ti piacerà moltissimo”, le assicura mia madre
Jorge non ha mai lasciato Cuba. Non sente più la ragazza tailandese, che era stanca di aspettarlo. Nel palazzo blu a volte manca l’acqua corrente. Clara si fa la doccia usando una bottiglia di plastica. Da qualche tempo il ministero degli esteri tedesco consiglia di valutare con attenzione l’opportunità di viaggiare a Cuba. L’appartamento di mia madre è ancora un cantiere e il gabinetto non c’è. ◆sk
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Questo articolo è uscito sul numero 1601 di Internazionale, a pagina 52. Compra questo numero | Abbonati