La settimana scorsa ho letto un articolo (di Davide Coppo, se non erro) in cui si diceva che il cervello di una persona cambia definitivamente dopo la prima sigaretta, e da quel momento sarà per sempre un fumatore in astinenza. Io, da atea, il rapporto degli esseri umani con le divinità l’ho sempre immaginato così: una volta che ti è prospettata la speranza dell’aldilà, non si torna indietro. Anche se ne esci, è a quel pensiero che torna il tuo cervello nei momenti di spaesata fragilità. Mio padre avrà vita eterna si apre con un uomo che “traeva piacere nel festeggiare feste pagane, nel fumare e nel brindare a tavola” che torna a essere, dopo un periodo di astinenza-allontanamento, un testimone di Geova. Nel suo esordio Valoppi ripercorre gli anni condizionati dall’ingombrante presenza di Geova nella sua vita. Durante l’infanzia e l’adolescenza, in bilico sul senso di colpa, il protagonista si divide tra la paura di deludere la devozione di suo padre e lo scetticismo pagano di sua madre. Un libro ironico, fin dalla copertina, che racconta con sensibilità l’incontro tra due persone agli antipodi e la genesi di un equilibrio familiare che sopravvive all’incombere della fine del mondo. Tra commemorazioni, adunanze e sale del regno, Paolo trova infine una propria strada che incrocia quella dei Pokémon, della vergogna, di Babilonia.◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1562 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati