La prima cosa che facciamo dopo l’arrivo a Moorea, un’isola vulcanica venti chilometri a nordovest di Tahiti, è caricare in macchina un autostoppista di nome Didier. Sto visitando l’isola in compagnia di Hannah Stewart, una biologa marina canadese appassionata di piccoli granchi “guardiani” e di cultura polinesiana. Stewart è indaffaratissima con la prima edizione del corso che ha avviato per portare i laureandi dell’università statunitense di Berkeley a Moorea. Gli studenti soggiornano presso la Gump station, un centro di ricerca sull’isola dell’università della California, ma sono liberi di girare per tutta l’isola, imparando dagli esperti locali la biodiversità, le politiche ambientali e la cultura locale.

Stewart accosta per permettermi di ammirare la laguna sotto il pendio verdeggiante. Le palme da cocco svettano su una spiaggia di sabbia bianca, da cui bungalow turistici dai tetti di paglia si affacciano su un’acqua incredibilmente turchese, punteggiata da affioramenti di coralli dai contorni indistinti. Stewart è una di quelle donne bionde con gli occhi azzurri, amanti dell’aria aperta, che tanto invidiavo ai tempi del liceo. Ma ciò che la rende davvero attraente è la sua energia trascinante: quando si è con lei, sembra che tutto possa succedere. Anche Didier deve averlo percepito, perché le chiede subito in francese se è single. Stewart evita gentilmente di rispondere, e poi gli fa a sua volta una domanda: cosa sa della stazione di ricerca statunitense sull’isola?

L’isola di Moorea, in Polinesia francese (Jim Zuckerman, Getty Images)

“La Gump?”, chiede Didier. “Pensavo avesse chiuso”.

“È questo il problema”, commenta Stewart, dopo che abbiamo fatto scendere Didier. Gli sforzi per la tutela dell’ambiente marino a Moorea sono ostacolati dall’incapacità degli scienziati stranieri di comunicare con gli abitanti dell’isola e con le altre comunità. “Con il mio corso vorrei trovare una soluzione”.

Sono a Moorea per via di una frase che Stewart mi ha detto la prima volta che ci siamo sentite al telefono, nell’estate 2021: “Non stiamo solo formando degli scienziati, perché forse – anzi, sicuramente – non abbiamo bisogno di altri scienziati”. M’interessa conoscere le ragioni per cui si è stancata della ricerca accademica, caratterizzata da brevissime missioni sul campo per raccogliere dati e di un’estrema specializzazione anche in campi molto simili tra loro.

Sono una scrittrice e a volte parlo di scienziati. I mondi immaginari si basano sui dettagli concreti, e niente è più concreto di un esperimento complesso in un laboratorio. Poiché il conflitto è il cuore di ogni narrazione, volevo saperne di più sulle tensioni tra gli scienziati e le comunità di nativi della Polinesia francese, che in tahitiano sono chiamate māohi.

Studiare il mare

I coralli abbondano nelle Isole della Società, in Polinesia francese, l’arcipelago che comprende Moorea e Tahiti. Note come le “foreste pluviali del mare”, le barriere coralline sono le più variopinte riserve di biodiversità del mondo. Quasi il 25 per cento delle specie marine vive all’interno o intorno agli organismi sessili (cioè ancorati al loro substrato) che formano la barriera corallina e che sono minacciati, e in molte zone decimati, dai cambiamenti climatici e dallo sviluppo costiero. Il loro recupero è fondamentale per la salute degli oceani e dei più di cinquecento milioni di esseri umani che dipendono dai mari per il loro sostentamento.

Un vivaio di coralli gestito dal centro di ricerca Criobe a Moorea, maggio 2019 (Alexis Rosenfeld, Getty Images)

Moorea è un’isola importante per lo studio delle barriere coralline perché ospita da anni due centri di ricerca: il francese Centre de recherches insulaires et observatoire de l’environnement (Criobe) è stato fondato nel 1971, la stazione statunitense Gump nel 1985.

Eppure, ci sono molte cose che gli scienziati ancora non sanno. Due mesi prima del mio arrivo a Moorea, i mezzi d’informazione internazionali avevano dato notizia della scoperta di una nuova barriera corallina da parte di una missione per la mappatura dei fondali marini sostenuta dall’Unesco. Gli scienziati l’avevano definita “incontaminata”, descrivendo i coralli disposti a forma di rosa per catturare più luce possibile. La barriera si trova fra i trenta e i sessantacinque metri sotto la superficie, nella zona mesofotica, cioè lo strato oceanico più profondo in cui può arrivare la luce del sole. La collocazione in profondità potrebbe spiegarne lo stato di salute, perché protegge dal riscaldamento, dall’acidificazione e dall’inquinamento delle acque, che sono stati letali per i coralli più vicini alla superficie. Tra le tante cattive notizie, l’esistenza della barriera è stata accolta come una scoperta incoraggiante. “Questa straordinaria scoperta a Tahiti dimostra l’incredibile lavoro svolto dagli scienziati”, recitava un comunicato stampa dell’Unesco.

Quando ho contattato Rahiti Buchin, il presidente del club tahitiano di pesca subacquea agonistica Team Tefana, per chiedergli di commentare la notizia, mi ha scritto per email: “Chi l’avrebbe scoperta? Sono i nostri antenati e non certo quelli che se ne sono vantati sulla stampa locale e internazionale”. Mi ha risposto in francese, che è ancora la lingua più usata nelle scuole tahitiane, ma per riferirsi ai suoi antenati ha usato la parola indigena tupuna.

La distanza tra i māohi e gli scienziati stranieri è evidente anche quando assisto a una delle lezioni del corso di Hannah Stewart. Siamo riuniti nel fare potee della Gump station, il padiglione polinesiano dal tetto di paglia che sorge su un’estremità della baia di Cook. Sopra di noi si staglia il monte Mouaputa, distinguibile nella verdeggiante catena vulcanica di Moorea per il buco rotondo appena sotto la cima, che spesso si nasconde dietro le nuvole di passaggio. La lezione è sul dibattito intorno al Piano di gestione dello spazio marittimo (Pgem), un tipo di area marina protetta che ha fatto molto discutere l’isola, e al rāhui, una pratica tradizionale di controllo delle risorse che può prevedere, per esempio, il divieto temporaneo di sfruttamento di una determinata risorsa marina.

Claude Teiho sembra una vecchia star del cinema, con i suoi folti capelli argentati e il fisico muscoloso da pescatore d’apnea. È il segretario del sindacato dei pescatori dell’isola. Seduto su una sedia di plastica rossa davanti al semicerchio di studenti, racconta di aver fabbricato il suo primo fucile da pesca subacquea con del legno e la camera d’aria di una ruota da bicicletta, usando un cucchiaio come grilletto. I suoi primi occhialini li ha fatti con dei fondi di bottiglia. Teiho spiega che le barriere coralline sono state a lungo influenzate dai cicli naturali. Nel 2010 Moorea è stata colpita da un’invasione di stelle marine “corona di spine”, che hanno distrutto le barriere coralline nutrendosi di coralli duri. Insieme a un ciclone nel 2011, le velenose stelle viola hanno devastato il reef di Moorea. Se n’era salvato solo il 2 per cento. Alla lezione è presente anche Taiano, il figlio di Teiho, che confessa agli studenti di essersi spaventato per lo stato della laguna in quel periodo. Ma suo padre l’aveva rassicurato: la barriera corallina può rigenerarsi.

Un ricercatore del Criobe nelle acque di Moorea, maggio 2019 (Alexis Rosenfeld, Getty Images)

Le previsioni di Teiho si erano avverate: nel giro di otto anni era tornata come prima. Nel 2019, però, un grave episodio di sbiancamento ha distrutto il 50 per cento dei coralli su quella parte di scogliera rivolta verso il mare aperto. I coralli si sbiancano per lo stress termico: dopo un periodo di tempo a una temperatura intollerabile, il corallo espelle le zooxantelle simbiotiche, microscopiche alghe dinoflagellate che forniscono cibo attraverso la fotosintesi in cambio di un riparo, ma che a temperature elevate possono diventare tossiche per gli organismi che le ospitano. Le minuscole piante tornano nei coralli se l’acqua si raffredda, ma in caso di sbiancamento prolungato o ripetuto, il corallo muore e viene rapidamente invaso dalle alghe.

Quando gli studenti chiedono a Teiho dei cambiamenti climatici che ha osservato in cinquant’anni di pesca a Moorea, lui fa un collegamento tra gli effetti del clima sulla laguna e il fatto che molti tahitiani hanno perso la capacità di comprendere i cicli lunari. Quest’affermazione richiama più il folclore che la scienza, e la conversazione si sposta in fretta su altro.

Stewart chiede a Teiho se sa di cosa si occupano gli scienziati della stazione Gump. Lui fa spallucce: “Un sacco di ricerche”. Stewart scuote la testa, sconsolata per l’incapacità degli scienziati di creare legami con le comunità locali, soprattutto per quanto riguarda la politica ambientale. “Dobbiamo fare di meglio”, mormora. Teiho indica la laguna con un gesto. “Non c’è bisogno di una laurea per capire cosa succede qui”, commenta. “È evidente”.

I vivai di Taiano

Le comunità locali e gli scienziati stranieri condividono l’obiettivo di rivitalizzare le barriere coralline della zona. Entrambi stanno testando delle idee di recupero che rientrano nell’ampia categoria dell’evoluzione assistita, incluse le strategie progettate per aumentare la resilienza delle barriere coralline ai fattori di stress legati all’intervento degli esseri umani. Il problema sono gli interessi in conflitto all’interno di una laguna che ha un grande valore per la scienza, per il turismo, per i pescatori e soprattutto per le persone che considerano quest’isola di 130 chilometri quadrati la loro casa.

Una mattina presto attraverso la baia di Cook in kayak per parlare con Taiano, uno dei fondatori di un’organizzazione di protezione ambientale chiamata Coral gardeners. I “giardinieri” lavorano in un modesto ufficio sulla baia, sotto un tetto di lamiera zincata dotato di pannelli solari. Il kayak è il modo più diretto per arrivare qui dalla Gump station. Tento di apparire disinvolta mentre tiro fuori dall’acqua la mia imbarcazione di fronte a un gruppo di ventenni abbronzati di vari paesi, che fanno surf sul serio o almeno ne hanno tutta l’aria.

Poiché il conflitto è il cuore di ogni narrazione, volevo saperne di più sulle tensioni tra gli scienziati e le comunità della Polinesia francese

Taiano, amico d’infanzia di Titouan Bernicot, il fondatore dell’organizzazione, ha notato per la prima volta delle chiazze bianche nell’acqua mentre faceva surf nella vicina baia di Ōpūnohu. In una perlustrazione in apnea, lui e Bernicot hanno trovato un corallo bianco come un osso. Cercando informazioni su Google, hanno scoperto cos’era lo sbiancamento dei coralli e l’acidificazione degli oceani. Questa combinazione di esperienza locale e uso delle nuove tecnologie è una cifra dell’organizzazione, come dimostra la presentazione in stile Silicon valley che Taiano mi mostra sul suo computer portatile sotto l’albero di tamanù che spunta da un’apertura nella veranda sul retro dell’ufficio.

Il lavoro dei giardinieri consiste nel prendere dalla barriera dei supercoralli –degli esemplari che hanno mostrato una maggiore capacità di riprendersi o di resistere allo sbiancamento o ad altri stress causati dall’azione umana – e usarne dei frammenti, o protuberanze, per farli riprodurre in vivai subacquei, su dischi di cemento, su alberelli fatti di fili di metallo o su corde. Il loro obiettivo è piantare un milione di coralli. Per questo sono sostenuti da un’azienda che si occupa di merchandising, che permette ai donatori di adottare un corallo online. Hanno lanciato anche un’ambiziosa campagna sui social network e hanno una lunga lista di sponsor, tra cui l’ex ingegnere della Tesla Drew Gray e il cantautore Jack Johnson.

Potrebbe sembrare scontato che gli scienziati delle stazioni di ricerca francese e statunitense collaborino con questi giovani divulgatori scientifici qualificati. In realtà, i loro mentori vengono tutti da fuori. Taiano era certo che il direttore del Criobe fosse ben disposto ad aiutarli, ma dice che alla stazione di ricerca ci sono – e qui passa dal linguaggio professionale a quello da surfista – degli hater (odiatori), secondo i quali la collaborazione con i giardinieri contaminerebbe la missione del centro.

Il Criobe sorge su un campus verdeggiante di edifici bassi dai tetti in lamiera ondulata verde, in cima alla baia di Ōpūnohu. Sopra i laboratori c’è l’imponente monte Rotui. Secondo una leggenda, i guerrieri di Raiatea, nelle isole Sottovento, cercarono di rubare il monte, trascinandolo in mare con una corda intrecciata. Ma furono scoperti da una potente donna dell’isola, e uno dei ladri fu trasformato in un blocco di corallo che ancora oggi si trova nel tratto di barriera corallina di Papetōai.

Lì incontro Laetitia Hédouin, un’esperta di coralli del Criobe, che è stata citata nelle notizie sulla scoperta della barriera mesofotica al largo di Tahiti. A differenza di quanto riportato nei primi lanci, la missione esplorativa non ha “scoperto” la barriera, ma è stata la prima a “studiarla scientificamente”, precisa la studiosa. Le chiedo il suo parere sui giardinieri di coralli. Riconosce il loro successo nell’informare un vasto pubblico sulle condizioni della barriera corallina, ma è preoccupata che passi un tipo di messaggio secondo cui, adottando il corallo, le persone possono contribuire a salvare la barriera. “Quel denaro sarebbe investito in modo più utile se destinato a ridurre le emissioni di anidride carbonica. Ma per le persone è più divertente piantare o adottare un corallo, che mangiare meno carne o volare di meno”. Quando se ne parla in una conferenza, osserva, tutti cominciano ad abbandonare la sala.

Hédouin preferisce il termine “rinnovamento assistito” a “evoluzione assistita”, perché non crede che l’uomo possa riportare la barriera corallina alle condizioni naturali. “Quando si parla di piantare coralli”, mi dice, “la prima domanda è: quale area si vuole ripristinare? E perché quell’area è morta? Quali sono le fonti di stress? Sono scomparse? Se ci fosse un reinserimento naturale di coralli, non ci sarebbe bisogno di piantarne di nuovi”.

Dal suo punto di vista il recupero dei coralli dopo l’invasione di stelle marine del 2010 e dopo il ciclone dell’anno successivo è stato “stupefacente”. Ma lo sbiancamento del 2019 è stato “tutta un’altra storia” e la barriera nelle acque profonde meno di dieci metri non si è ancora ripresa.

Di recente il team di Hédouin ha incrociato coralli “genitori” che avevano subìto un episodio di sbiancamento con altri che non si erano mai sbiancati. Usando la fluorescenza naturale dei tessuti corallini – rossa o verde – per contare le larve, gli scienziati hanno osservato qualcosa di sorprendente: i genitori dei coralli sbiancati rilasciavano un numero significativamente maggiore di larve a fluorescenza rossa. La differenza è importante, perché le larve a fluorescenza rossa sopravvivono fino a una settimana in più delle verdi ad alte temperature, e sono più inclini a nuotare per lunghe distanze nella fase larvale pelagica.

Il team di Hédouin ha ipotizzato che, rilasciando un maggior numero di larve rosse fluorescenti, i coralli genitori sbiancati stessero predisponendo la prole a reagire allo stress termico, inviando una sorta di messaggio biologico che incoraggiava a disperdersi più lontano nella speranza di trovare un ambiente più ospitale.

È stata una scoperta affascinante. La domanda a quel punto era: dove sarebbe andata la prole? “Dobbiamo proprio uscire dai laboratori”, afferma Hédouin. Come i giardinieri di coralli, il suo team cura dei vivai nelle baie di Cook e Ōpūnohu, tra cui uno nuovo a trenta metri di profondità, di fronte all’hotel Hilton. Hédouin immagina di creare diversi vivai a quella profondità, come una sorta di magazzino della biodiversità di Moorea. “Abbiamo margini di intervento limitati quindi dobbiamo favorire il naturale processo di recupero e riproduzione”, spiega. “Piantare coralli più in profondità permette di proteggerli dallo sbiancamento e da altre minacce”. Distingue tra ricerca scientifica e conservazione, affermando che l’identificazione di coralli più resistenti è stimolante per gli scienziati, ma per la conservazione delle barriere coralline è fondamentale la presenza di vivai a profondità maggiori. A trenta metri sott’acqua, i coralli crescono più lentamente, ma hanno meno probabilità di subire aggressioni: “È un buon compromesso”.

Traccia indelebile

Una sera mi siedo fuori dal dormitorio della Gump station con gli studenti del corso sulla sostenibilità dell’isola a mangiare poisson cru, un tipico piatto tahitiano a base di pesce crudo e verdure, marinati in latte di cocco e lime. Chiazze di luce bianca e arancione colpiscono la baia verde scuro mentre il sole scompare dietro le montagne.

La stagione della scarsità cominciava quando la costellazione delle Pleiadi scompariva dietro l’orizzonte nel mese di maggio

“Perché non collaborano?”, si chiede una ragazza, riferendosi agli scienziati e ai giardinieri del corallo. La sua domanda mette in evidenza che nell’ecologia il tempo della territorialità è finito e che gli scienziati dovrebbero collaborare con il “gruppetto di ragazzi dell’isola” – francesi, māohi e di altre provenienze – che sono riusciti a convincere persone di mezzo mondo a spendere 25 euro per adottare un pezzo di Acropora. Questa è una delle tante osservazioni acute che sento dagli studenti. Allo stesso tempo, sono consapevoli che le critiche mosse agli scienziati – che entrano ed escono dai siti di ricerca sul campo – possono essere rivolte anche a loro, nonostante il corso che stanno seguendo a Moorea sia improntato alla specificità territoriale. Stewart spera che in futuro nel programma universitario possano essere coinvolti anche gli studenti dell’università della Polinesia francese e di quella delle Hawaii, possibilmente di tutto il Pacifico.

È un aspetto cruciale per il successo del programma. È impossibile non notare quanti pochi scienziati tahitiani o di altre isole – ne ho incontrato uno solo nel corso della mia indagine – abbiano lavorato in entrambe le stazioni di ricerca, nonostante siano presenti sull’isola ormai da mezzo secolo.

Molti degli studenti che condividono con me le loro esperienze sul periodo trascorso a Moorea mi parlano di una persona che ha lasciato su di loro una traccia indelebile. Hinano Teavai-Murphy è la presidente dell’associazione comunitaria Te Pu Atitia, che punta a preservare il patrimonio bioculturale polinesiano. Nella sua lunga carriera è stata un’insegnante e ha collaborato a numerosi progetti cinematografici, tra cui il film d’animazione Oceania della Disney. Ho visto un video del suo intervento alle Nazioni Unite in occasione della giornata mondiale degli oceani nel 2019, in cui raccontava il mito polinesiano della creazione di Ru e Hina, con una voce profonda e risonante, e accompagnandosi con gesti. La performance è così spettacolare che non mi sorprende quanto sia difficile ottenere un’intervista. Suo marito Frank Murphy, che dirige la Tetiaroa society – l’associazione non profit che gestisce un atollo corallino acquistato da Marlon Brando nel 1967 dopo aver girato Gli ammutinati del Bounty –, a volte deve fare da guardiano, perché le persone che vogliono parlare con sua moglie sono moltissime.

Alla fine riusciamo a incontrarci un caldo martedì sera alla Gump station, sul balcone di un bungalow in collina con vista sulla baia di Cook. Anche se ha trascorso tutta la giornata in traghetto per andare avanti e indietro tra riunioni governative a Tahiti, Teavai-Murphy arriva con un abito a fiori bianco e marrone e un cappello tradizionale, con un filo di scintillanti perle nere al collo. Ci sediamo a un tavolo da picnic di legno bevendo succo di mango, con il fumo acre di uno zampirone che arriva da una padella sistemata vicino ai nostri piedi. Parliamo del significato della parola rāhui, nella lingua māohi.

Il tempo dei sacrifici

Teavai-Murphy spiega che il rāhui non è semplicemente una zona vietata. È anche un periodo di tempo in cui “s’impara a risparmiare”. Un tempo di “sacrificio per se stessi, la propria famiglia, la propria comunità”. Il problema, a suo avviso, è che circa vent’anni fa il concetto occidentale di area marina protetta – una zona delimitata in cui sono imposte regole discutibili come i divieti permanenti di pesca – è stato tradotto nelle riunioni governative di pianificazione come rāhui. “È da lì che è nata la confusione nella mente delle persone”, spiega.

Moorea, maggio 2019 (Alexis Rosenfeld, Getty Images)

Le prime aree marine protette definite dal Piano di gestione dello spazio marittimo hanno bloccato in modo permanente alcuni tratti di mare, spesso, sfacciatamente, quelli di fronte agli hotel.

Il rāhui, invece, consiste in un divieto temporaneo su un’area o riguardo a una risorsa per consentirne il recupero. Tradizionalmente i tahitiani vivevano al risparmio in quella che era chiamata la stagione della scarsità, matarii-i-raro, che cominciava quando la costellazione delle Pleiadi scompariva dietro l’orizzonte a maggio. Ma poi ne raccoglievano i benefici durante matarii-i-nia, la stagione dell’abbondanza, che cominciava non appena la costellazione tornava visibile a novembre. L’imposizione e la revoca del rāhui – per esempio, sui pesci della laguna o sui frutti di alcuni esemplari dell’albero del pane – erano modi per mantenere vivo il rapporto della comunità con la terra e si svolgevano cerimonie per segnare queste transizioni. C’era un aspetto religioso e culturale nel rāhui che oggi è del tutto assente nel Pgem; senza quello, ha detto Teavai-Murphy, “il rapporto con la Terra si è perso”.

Dopo l’imposizione del Pgem, i pescatori che avevano partecipato alle riunioni indette dal governo hanno sentito di aver “contribuito alla loro stessa rovina”. E hanno smesso di andarci.

“Se rispettassimo quel ciclo, oggi non saremmo nei guai”, osserva Teavai-Murphy. “Dobbiamo aspettare la deposizione delle uova dei pesci e lasciarli in pace. Saranno le stelle a dirci quando è il momento per uscire e pescare”.

Il pescatore Teiho non raccontava storie quando ha messo in relazione la perdita delle conoscenze tradizionali sui cicli lunari con la crisi climatica; quei cicli erano parte integrante del funzionamento del rāhui. Gli studiosi ritengono che nel 1767, al momento del primo contatto con gli europei, a Tahiti e a Moorea vivessero circa centomila persone. Questa popolazione viveva bene, senza aver bisogno d’importare altro, sostenendo le abbondanti risorse naturali delle isole con il commercio locale e con un complesso piano di rāhui.

Mentre parlo con Teavai-Murphy, si fa buio; i cani abbaiano e la foresta intorno al laboratorio si anima del suono degli insetti. Mi hanno sempre insegnato che la rivoluzione scientifica è stata un’illuminazione prima della quale c’erano solo leggende. Ma a Moorea sono arrivata a pensare che non è un caso se l’emergere della scienza occidentale sia coinciso con l’urbanizzazione, quando le persone si trasferirono nelle città e di colpo ebbero bisogno di un modo meno immediato di conoscere il mondo naturale.

Lungo una strada di Moorea, 2016 (James D. Morgan, Getty Images)

Nella settimana che trascorro sull’isola, tornando al mio bungalow di notte, a volte fa così buio che inciampo nelle due strisce d’asfalto che si snodano su per la collina. Tuttavia, alzando lo sguardo, posso vedere la via Lattea più chiaramente di quanto abbia mai fatto prima, un intreccio celeste che cattura la piccola isola in una rete di stelle. Non sono brava a distinguere le costellazioni, ma riesco a individuare le Pleiadi. Per me ha perfettamente senso l’idea che un tempo l’inizio e la fine delle stagioni dettasse i rapporti tra gli esseri umani e l’ambiente naturale, perché quelle sette stelle luminose sembrano così vicine da poterle toccare.

Teavai-Murphy ha sentimenti contrastanti riguardo alcuni degli sforzi in corso nella laguna. Ci tiene a precisare che ammira il successo dei Giardinieri dei coralli nel far conoscere la situazione delle barriere coralline nel mondo ed è particolarmente entusiasta del lavoro svolto nelle scuole locali, ma per lei il nome dell’organizzazione è problematico. Piantare coralli suggerisce che “si possa continuare a fare quello che si sta facendo, perché c’è una soluzione. Ma penso che sia un’idea sbagliata di conservazione. È un insulto al nostro ecosistema”. Per questo appoggia gli scienziati delle stazioni di ricerca Gump e Criobe, ritenendo però i loro sforzi di rinnovamento assistito una cosa “da laboratorio”: nella laguna, quello che va ripristinato è il delicato equilibrio del rāhui.

“Ci stiamo muovendo verso un processo di questo tipo”, dice Teavai-Murphy. Dal 2016 il Pgem è sottoposto a una revisione collettiva. Allo stesso tempo, l’organizzazione di base Association Rāhui lavora a un nuovo piano per la gestione delle risorse, ma il processo è frammentario, con un bizantino insieme di organizzazioni locali coinvolte. Due rāhui stanno però funzionando con successo a Tahiti, nella remota punta sudorientale dell’isola chiamata Fenua aihere (letteralmente, “terra incolta”). Una zona è stata completamente chiusa alle attività marine per periodi rinnovabili di tre anni, mentre intorno a una puna (fonte) erano stati imposti dei limiti alla pesca a rotazione con l’obiettivo di preservare i coralli e le specie della barriera corallina. I rāhui sono gestiti da comitati chiamati tōmite, composti da pescatori, funzionari governativi, ambientalisti locali e leader religiosi, a sottolineare l’importanza di trasmettere gli elementi sacri alle generazioni successive.

Un’altra accoglienza

I residenti della zona hanno sempre diffidato degli scienziati, sia per il trauma storico della colonizzazione sia per il timore, molto attuale, che gli ambientalisti vogliano sabotare i mezzi di sostentamento dei pescatori. Tuttavia, gli sforzi più recenti hanno ricevuto un’accoglienza più calda. Dopo che un’équipe del Criobe ha consultato gli abitanti delle isole per imparare cos’è il rāhui, i residenti non solo hanno tollerato, ma hanno anche espresso apprezzamento per le ispezioni condotte degli scienziati. Una madre di Taiarapu, un distretto di Tahiti, mi ha detto di sperare che, un giorno, “i figli dell’isola potranno lavorare in collaborazione con loro”.

Un elemento cruciale del rāhui è il monitoraggio da parte della popolazione locale, per impedire la pesca dove non è consentita. Un articolo di Pauline Fabre, scritto con i ricercatori Tamatoa Bambridge e Alexander Mawyer, esperti in studi sul Pacifico, cita un abitante del villaggio di Teahupoo che racconta di un’anziana del posto e dei suoi nipoti, che hanno cominciato a segnalare coscienziosamente ogni infrazione a cui assistono nell’area protetta.

Teavai-Murphy sottolinea che non si tratta di un ritorno acritico a una pratica antica, che originariamente era profondamente gerarchica: un gruppo di alberi del pane poteva essere circondato da foglie di banano per proibirne la raccolta fino a che non sarebbero stati raccolti per un sontuoso banchetto nuziale di un capo. La gestione da parte dei comitati e il monitoraggio sul campo da parte dei residenti non solo hanno spostato le priorità, dal differimento del consumo alla resilienza della barriera corallina, ma hanno reso il nuovo rāhui più democratico.

Racconto a Teavai-Murphy la storia dei tupuna, gli antenati che avevano pescato in apnea fino alla barriera mesofotica. “Se prendiamo il pescatore, è lui che sta in acqua tutti i giorni”, osserva lei. “La sua parola vale più di quella degli scienziati o della polizia”.

La sua voce s’incrina per l’emozione ricordando un venerabile anziano, Yves Teihotata, conosciuto come Papa Mape, esperto di cicli lunari tradizionali, di navigazione seguendo le stelle e del vasto catalogo di uccelli, pesci e piante dell’isola. Sosteneva che il modo migliore per insegnare ai giovani l’oceano fosse portarli fuori di notte, per costringerli a usare tutti i loro sensi. “Era uno scienziato dell’oceano”, commenta.

Forse Stewart ha ragione quando dice che Moorea non ha bisogno di altri scienziati, perché li ha già da tempo; o forse c’è posto per la scienza occidentale all’interno dei parametri del rāhui, fatto rispettare da una nonna che tiene attentamente d’occhio la laguna. ◆svb

Nell Freudenberger è una scrittrice statunitense. Ha pubblicato tre romanzi, il più recente è Perduta e attesa (Codice 2020), e la raccolta di racconti Ragazze fortunate (Mondadori 2004). Scrive per varie riviste statunitensi, tra cui The New Yorker e Harper’s Magazine.

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Questo articolo è uscito sul numero 1471 di Internazionale, a pagina 150. Compra questo numero | Abbonati