Nel giugno 2014 un uomo ha cominciato a scavare nella soffice terra rossa del cortile della casa dove abitava, poco distante da Kolwezi, una città nel sud della Repubblica Democratica del Congo (Rdc). Come avrebbe detto in seguito ai vicini, voleva aprire una buca per farci un nuovo gabinetto. A due metri e mezzo di profondità, la vanga ha colpito una lastra di roccia grigia che presentava striature nere e grumi turchesi simili a muffa. Aveva preso una vena di heterogenite, un minerale da cui si ricava il cobalto. Questo materiale è fondamentale per la fabbricazione delle batterie agli ioni di litio, perché gli impedisce di prendere fuoco. L’aumento della domanda globale di queste batterie, che si trovano nei cellulari come nelle auto elettriche, ha fatto crescere anche il prezzo del cobalto. L’uomo sperava che, se fosse riuscito a estrarre quella roccia prima che se ne accorgessero altri, sarebbe diventato ricco.

Si calcola che nel sottosuolo del sud della Rdc siano sepolte 3,4 milioni di tonnellate di cobalto, quasi la metà delle riserve mondiali conosciute. Negli ultimi decenni centinaia di migliaia di congolesi si sono trasferiti in questa parte del paese. A Kolwezi, che oggi ha più di mezzo milione di abitanti, molti sono impiegati nelle miniere industriali, ma altri sono diventati creuseur (scavatori, minatori artigianali). Alcuni creuseur ottengono i permessi per lavorare in proprio nei pozzi autorizzati, ma tanti altri s’intrufolano nei siti estrattivi di notte o scavano fosse e tunnel autonomamente, sfidando il rischio di crolli e altri pericoli.

L’uomo ha portato alcuni campioni di roccia a uno dei commercianti di minerali che si erano stabiliti intorno a Kolwezi. All’epoca ai lati della strada che portava in città c’erano file e file di comptoir, baracche dal tetto in lamiera dove mercanti cinesi, libanesi, indiani e anche qualche congolese acquistavano cobalto e rame. Uno di loro gli ha detto che il cobalto era straordinariamente puro.

Lui è tornato a casa, nel paesino di Kasulo, deciso a mantenere il segreto. A quei tempi la maggior parte dei diecimila abitanti della cittadina erano lavoratori a giornata. Murray Hitzman, un ex scienziato dell’Istituto geologico degli Stati Uniti che ha viaggiato per più di dieci anni nella Repubblica Democratica del Congo come consulente per progetti estrattivi, racconta che gli abitanti di Kasulo non facevano altro che “gironzolare tutto il tempo” sperando di raccogliere informazioni su qualche nuovo filone.

Murray Hitzman, che oggi insegna allo University college di Dublino, in Irlanda, spiega che i ricchi depositi di cobalto e rame congolesi si formarono circa 800 milioni di anni fa, sul letto di un antico mare. Con il passare del tempo, le rocce sedimentarie furono sepolte da morbide colline e un fluido salino contenente dei metalli filtrò nel terreno, mineralizzando le rocce. Oggi i depositi minerari sono dislocati “in modo caotico, insensato, assumono forme imprevedibili ed è quasi impossibile ipotizzare dove si trovino”. L’uomo di Kasulo ha smesso di lavorare in cortile e ha spaccato il pavimento della casa che aveva preso in affitto, scavando una buca profonda dieci metri. Di notte portava fuori il minerale che estraeva. Zanga Muteba, un fornaio che in quel periodo viveva a Kasulo, conferma: “All’epoca nessuno sapeva niente”. Una sera Muteba e alcuni vicini hanno sentito dei rumori metallici sospetti e si sono precipitati sul posto. Così hanno scoperto che l’uomo, seguendo la vena di cobalto, aveva scavato una serie di gallerie sotterranee sotto le loro case. Quando il padrone di casa l’ha saputo, ha litigato con l’affittuario, che se ne è andato da Kasulo.

“Aveva già fatto un sacco di soldi”, commenta Muteba. A giudicare dalla quantità di minerali estratti, l’uomo aveva probabilmente guadagnato più di diecimila dollari, una piccola fortuna nella Rdc, dove secondo la Banca mondiale nel 2018 tre quarti della popolazione vivevano con meno di due dollari al giorno.

A Kasulo, quando si è diffusa la notizia, centinaia di persone “hanno cominciato a scavare nei loro terreni”, racconta Muteba. Il sindaco li ha avvisati che avrebbero distrutto tutto l’abitato. Ma “la gente non lo ascoltava”, spiega il fornaio, che gestiva un’attività redditizia e non aveva tempo per mettersi a cercare il cobalto. Molti altri, però, erano disperati.

Il lavoro era faticoso, ma emozionante. Kajumba sognava di arricchirsi

Nella Rdc più dell’85 per cento dei lavoratori è impiegato nel settore informale, dominato dalla precarietà, e il costo della vita è decisamente alto: dal momento che le infrastrutture del paese sono state devastate da decenni di dittatura, guerra e corruzione, l’agricoltura è poco sviluppata e i generi alimentari e altri beni di prima necessità devono essere importati.

Circa un mese dopo la scomparsa dell’uomo che aveva trovato il cobalto, le autorità hanno vietato ufficialmente l’estrazione di minerali a Kasulo. Muteba racconta che alcuni sono andati a implorare il sindaco. “Scavavamo nella savana e nella foresta, e ce l’avete impedito”, gli dicevano. “Avete dato la città in pasto alle grandi industrie. Ora abbiamo scoperto i minerali nei nostri terreni, e volete impedirci di prenderli?”. Alcuni, continua Muteba, “hanno tirato delle pietre al sindaco, costringendolo a scappare. Dopo la sua fuga, si è cominciato a scavare sul serio”.

Odilon Kajumba Kilanga è un creuseur che lavora nella zona di Kolwezi da quindici anni. È cresciuto a Lubumbashi, la città più grande del sud del paese, e da ragazzo faceva lavoretti di ogni tipo. Quando aveva diciott’anni, un amico lo chiamò per invitarlo a Kolwezi, proponendogli di unirsi a una cooperativa di scavatori che si spostava di miniera in miniera dividendo i profitti. “C’erano buoni siti dove potevi semplicemente presentarti e metterti a lavorare”, racconta Kajumba.

Per Kajumba il lavoro era faticoso, ma anche emozionante. Cominciava ogni turno sognando di arricchirsi. Ha avuto alcuni colpi di fortuna, ma non ha mai fatto la scoperta della vita. Oggi, che ha circa 35 anni, è un uomo laconico, che si accende solo quando parla di Dio o della sua squadra di calcio, il Tp Mazembe. Scavare non gli sembra più romantico: per lui questo lavoro è un segno della sua povertà, non una strada per uscirne.

Kajumba è diventato minatore piuttosto tardi. A Kolwezi già a tre anni i bambini imparano a distinguere il minerale puro dalla semplice pietra. Non passa molto tempo che cominciano a trascinare i sacchi pieni di minerali per i creuseur adulti. Da adolescenti fanno turni pericolosi in pozzi pericolosi. Vicino alle grandi miniere, si vedono ovunque donne e ragazze prostituirsi. Altre si occupano di lavare il minerale grezzo, che spesso è pieno di metalli tossici e, in alcuni casi, lievemente radioattivo. Se una donna incinta lavora con metalli pesanti come il cobalto, il feto potrebbe morire o sviluppare malformazioni. Secondo uno studio pubblicato nel 2020 da The Lancet, le donne del sud della Rdc “hanno le concentrazioni di metalli nel sangue o nelle urine più alte mai riscontrate in gravidanza”. Lo studio ha individuato un legame tra le anomalie fetali e il lavoro dei padri nelle miniere, dove si usano sostanze chimiche tossiche. La conclusione è che “l’esposizione professionale paterna è il fattore più strettamente associato ai difetti congeniti”.

I bambini in miniera

Nel corso del 2021 il prezzo del cobalto è raddoppiato, superando i 70 dollari al chilo. In un paese povero come la Rdc, le ricchezze minerarie sono una tentazione irresistibile per politici e funzionari corrotti. Tutti sanno che i soldati inviati a Kolwezi, quando nel 2019 sono scoppiati dei disordini, la notte deponevano le armi per entrare nelle miniere. Lo stesso anno a una riunione d’investitori, Simon Tuma Waku, che presiedeva la camera delle miniere, ha usato un linguaggio da corsa all’oro, dicendo: “Il cobalto… ti fa sognare”.

A Kasulo, dopo la fuga del sindaco, molti abitanti hanno cominciato a demolire il terreno sotto i loro piedi. Alla fine del 2014 nella zona lavoravano, praticamente senza regole, duemila creuseur. Kajumba e la sua cooperativa si sono uniti alla caccia. Un altro minatore della squadra, Yannick Mputu, ricorda “i bei tempi”: “Giravano un sacco di soldi e tutti riuscivano a guadagnare. I minerali erano vicini alla superficie e potevamo estrarli senza scavare troppo in profondità”.

Ma in breve la situazione è diventata pericolosa. Poco dopo il divieto del sindaco, un pozzo è crollato e sono morti in cinque. Si è continuato a scavare, e quando un anno dopo sono arrivati i ricercatori dell’ong Amnesty international, c’erano già buche profonde più di trenta metri. Una volta raggiunto un filone, gli scavatori seguivano la vena nel terreno, spesso senza costruire i sostegni per le gallerie. Come spiega Murray Hitzman, l’heterogenite più superficiale spesso contiene meno cobalto, perciò i creuseur di Kasulo rischiavano la vita per procurarsi il minerale peggiore.

Uno dei compagni di squadra di Kajumba racconta che la loro cooperativa di sei persone riusciva a estrarre almeno due tonnellate di materiale grezzo da un singolo pozzo. Ma i siti migliori si esaurivano rapidamente, e la resa dei nuovi scavi era decisamente inferiore. Bisognava anche stare attenti alle truffe di mercanti senza scrupoli e di funzionari corrotti.

Tra i creuseur circolavano droghe e alcol. A detta di Kajumba, molti abitanti di Kasulo spendevano tutti i loro guadagni per procurarseli, ma lui evitava queste tentazioni. Quando ci incontriamo ordina solo Coca-Cola.

Anche i bambini che lavorano nelle miniere spesso assumono sostanze per non sentire la fame. Suor Catherine Mutindi, della Fondazione internazionale del Buon pastore, un’organizzazione benefica attiva a Kolwezi e impegnata contro il lavoro minorile, dice: “Se i bambini non guadagnano abbastanza, restano a stomaco vuoto tutto il giorno. Alcuni non ricordano quand’è stata l’ultima volta che hanno mangiato qualcosa”.

I ricercatori stimano che nella sola Kolwezi siano impiegati migliaia di bambini. “Non credo che il governo sia in grado di controllare il lavoro minorile”, afferma Mark Canavera, esperto di protezione dell’infanzia della Columbia university, che ha passato molto tempo nella città congolese. “E anche se ci riuscisse, non ha fissato dei parametri per definire se si tratti o no di lavoro minorile”.

Sacchi di rame e cobalto in un mercato a Kolwezi, Rdc, 24 aprile 2021 (Ashley Gilbertson, VII/Contrasto)

In una scuola gestita dalle suore del Buon pastore incontro Ziki, 15 anni, un ragazzo serio con grandi occhi scuri. A causa della malnutrizione sembra più piccolo della sua età. Aveva tre anni quando i suoi genitori sono morti in un incidente stradale e lui è andato a vivere da una sorella del padre. “La zia mandava i suoi figli a scuola, io invece dovevo andare in miniera”, racconta. “Ero molto amareggiato”. Si è unito a una banda di ragazzini che vagabondavano per Kolwezi. All’inizio, quando mi dice di aver cominciato a lavorare da così piccolo, non credo alle sue parole, ma Mutindi spiega di aver visto molti altri casi simili. Ziki ha lavorato nei siti minerari intorno a Kolwezi per undici anni. Anche se il governo congolese periodicamente promette di combattere il lavoro minorile, pochi adulti cercano davvero di fermarlo. “I soldati ci davano la caccia”, ricorda. “E quando ci prendevano ci riempivano di botte. Se uno di noi riusciva a vendere minerali e aveva con sé un po’ di soldi, c’erano dei ragazzi di strada, dei delinquenti, che lo bloccavano e gli portavano via tutto”.

Nel bacino del fiume Congo l’estrazione del rame – di cui il cobalto è un sottoprodotto – risale al quarto secolo dC, ma lo sfruttamento delle risorse minerali su vasta scala cominciò solo nel novecento quando il paese diventò una colonia del Belgio. Kolwezi fu fondata nel 1937 dalla Union minière du Haut-Katanga, un monopolio estrattivo creato con un decreto reale dai colonialisti belgi. La compagnia abbatté i boschi di acacie spinose e gli alberi di miombo cresciuti sui ricchi depositi minerari per costruire una città sulle colline, con ampie strade e villini per gli europei, che vivevano in quartieri separati da quelli dei lavoratori congolesi.

Un guscio vuoto

Dopo l’indipendenza, il Katanga, la provincia congolese più meridionale e ricca di minerali, fu contesa tra le potenze protagoniste della guerra fredda e i loro alleati. Nel 1960 la provincia tentò la secessione con l’aiuto del Belgio e della Union minière, scatenando una guerra civile. Anni dopo, nel 1978, un gruppo di ribelli armati dall’Unione Sovietica e addestrati da Cuba occuparono Kolwezi, uccidendo centinaia di civili.

Prima dell’insurrezione sembrava che Mosca avesse accumulato cobalto e, secondo un rapporto della Cia, l’attacco scatenò “una frenetica ondata di acquisti e accaparramento in occidente”. Il cobalto serviva per produrre leghe resistenti alla corrosione che poi venivano usate nei motori degli aerei e nelle turbine a gas.

Per decenni l’occidente sostenne la dittatura di Mobutu Sese Seko, che guidava un regime dominato dalla corruzione. L’élite del paese si manteneva, in parte, con i profitti delle miniere. Géca­mines, la compagnia mineraria pubblica, gestiva un monopolio nella fascia del rame e del cobalto del Katanga, e possedeva intere città costruite per i minatori. Quando Mobutu fu costretto all’esilio la Gécamines si disintegrò, e così il paesaggio minerario congolese. I creuseur scavavano nei siti abbandonati dalla compagnia, vendendo il minerale ai mercanti stranieri rimasti nel paese. All’inizio degli anni duemila andarono al potere Laurent-Désiré Kabila e, dopo il suo omicidio, il figlio Joseph, che finanziarono le loro guerre vendendo i siti della Géca­mines a società straniere, finché dell’azienda non rimase che un guscio vuoto. “Alcuni dei migliori geologi che io abbia mai conosciuto lavoravano per la Gécamines, ma non venivano pagati da anni”, dice Hitzman raccontando della prima volta in cui era arrivato nel paese, a metà degli anni duemila.

Anche alcuni creuseur del collettivo di Odilon Kajumba Kilanga lavoravano per la Gécamines. Yannick Mputu è cresciuto a Likasi, a tre ore di viaggio da Kolwezi. Racconta che un tempo trattava i materiali di scarto in una miniera della Géca­mines della sua città. “Quando ha chiuso, abbiamo dovuto trasferirci tutti a Kolwezi”, ricorda.

Lì il gruppo s’intrufola sistematicamente nelle miniere a cielo aperto gestite da compagnie straniere come la svizzera Glencore. “Entriamo di notte, lavoriamo e ce ne andiamo la mattina presto”, dice Mputu. I creuseur tengono sempre qualche soldo da parte per i soldati e per la polizia, che dovrebbero proibire l’ingresso agli estranei. “Noi gli diamo una percentuale dei guadagni e loro ci lasciano passare”, spiega.

Nel giugno 2019 più di quaranta creuseur sono stati uccisi da una frana in una miniera della Glencore a Kolwezi. C’erano anche Kajumba e i suoi amici quella notte, ma lavoravano su una vena diversa. “Nella mia vita da minatore la cosa più brutta che ho visto sono tutti questi morti causati dai crolli”, dice Kajumba.

La notte dopo la frana, mi confida un dipendente della Glencore, “i minatori artigianali si sono intrufolati di nuovo e hanno ripreso a scavare”.

Vendere all’estero

Dal 2015 la Repubblica Democratica del Congo ha una nuova divisione amministrativa, e Kolwezi è diventata il capoluogo della provincia del Lualaba. Il primo governatore della provincia, Richard Muyej Mangez Mans, si faceva chiamare “Papa Solution”. A Kolwezi c’è il suo nome perfino sulle panchine alle fermate degli autobus. In un’intervista del 2018 al mensile congolese Mining & Business, Muyej ha criticato la “febbre” del cobalto a Kasulo. “Serve un piano per evitare mosse affrettate, che potrebbero portare a una tragedia umanitaria”, ha detto. “Abbiamo una proposta da presentare alle autorità”.

La proposta, che all’epoca Muyej non ha rivelato, prevedeva di concedere i diritti minerari per il territorio di Kasulo a un’azienda straniera: la Congo DongFang International Mining, affiliata al gruppo cinese Zhejiang Huayou, che, tra le altre cose, forniva materiali per le batterie degli iPhone.

La Cina è il più grande produttore mondiale di batterie al litio, e la Zhejiang Huayou ha fatto grandi investimenti nella Rdc. Nel 2015 ha costruito due raffinerie di cobalto. Secondo un documento interno, nel 2017 la Zhejiang Huayou controllava il 21 per cento del mercato globale del cobalto.

La miniera gestita dalla China Molybdenum a Kisanfu, Rdc, 27 aprile 2021 (Ashley Gilbertson, VII/Contrasto)

Il legame tra Cina e Repubblica Democratica del Congo ha una lunga storia. I primi lavoratori cinesi arrivarono già ai tempi in cui il paese africano era proprietà del re belga Leopoldo II, per costruire la ferrovia nazionale. Negli anni settanta il dittatore Mobutu si rivolse a Pechino per un sostegno tecnico sui progetti infrastrutturali. Negli anni novanta il governo e una miriade di aziende cinesi cominciarono a investire in Africa, soprattutto nei paesi ricchi di risorse ma poveri di normative, come la Rdc.

Peter Zhou, un finanziere nato in Cina che ha discusso diversi accordi minerari nel paese, dichiara che in questi paesi “c’è parecchia corruzione e poco stato di diritto, una situazione che concede più autonoma agli imprenditori”.

Nel 2007 l’allora presidente congolese Joseph Kabila ha concluso un accordo da sei miliardi di dollari con la Cina per la costruzione di infrastrutture. In una clausola era previsto che i cinesi potessero estrarre 600mila tonnellate di cobalto.

Oggi, nel sud della Rdc, gran parte del cobalto viene dalle miniere industriali, che appartengono soprattutto ad aziende cinesi. Nel 2016 la China Molybdenum ha pagato alla statunitense Freeport-McMoRan 2,65 miliardi di dollari per assicurarsi una quota di maggioranza della Tenke Fungurume, una gigantesca miniera di rame e cobalto due ore di viaggio a est di Kolwezi. Tre anni dopo la China Molybdenum ha comprato un’altra quota per 1,14 miliardi di dollari.

Peter Zhou, che ha lavorato sull’accordo per la Tenke Fungurume, individua due fasi dell’impegno cinese nella Rdc. In un primo momento, spiega, i cinesi hanno dovuto correre rischi finanziari significativi perché “mancavano le infrastrutture, e i costi per trasportare tutti i materiali erano alti”. Si dovevano anche mettere in conto le tangenti da pagare alle autorità e ai dirigenti della Gécamines. In questa fase le aziende cinesi erano incentivate a fare soldi in ogni modo possibile. “Fare affari senza un adeguato ritorno non giustifica il rischio”, commenta Zhou. In quel periodo, ammette, nelle miniere non si rispettavano le misure di sicurezza.

Ora che le infrastrutture sono adeguate, continua Zhou, “i cinesi gestiscono gli affari in modo più etico. Devono assicurarsi che la gente del posto mantenga un atteggiamento pacifico nei loro confronti. Per questo hanno cominciato a costruire rapporti sociali, per esempio insegnando a rafforzare la cultura locale, le scuole. Il comportamento dei cinesi è meno opaco oggi, e gli affari sono più trasparenti”.

Nel 2017 i lavoratori cinesi sono arrivati nel villaggio di Samukinda, a mezz’ora di strada da Kasulo, e hanno costruito rapidamente una ventina di case dal tetto in lamiera. Agli abitanti di Kasulo è stato ordinato di lasciare l’area entro due settimane. Il governo congolese ha rivelato di aver concesso un permesso minerario alla Congo Dongfang, che avrebbe rimosso lo strato superficiale del terreno e costruito un muro intorno a quello che un tempo era stato un centro abitato. I creuseur di una cooperativa autorizzata avrebbero potuto lavorare nel sito, e la Congo Dongfang sarebbe diventata l’unico acquirente del minerale estratto a Kasulo.

Più o meno nello stesso periodo Joseph Kabila annunciava che, dopo diciott’anni al potere, non si sarebbe ricandidato alla presidenza. Nel gennaio del 2019 è stato eletto Félix Antoine Tshisekedi Tshilombo. Quando, pochi mesi dopo, ho incontrato il governatore Muyej nel suo compound a Kolwezi, mi ha detto che secondo lui Tshisekedi avrebbe mantenuto la rotta tracciata da Kabila. Il governatore sperava di diversificare l’economia locale con il turismo e l’agricoltura. L’attività di estrazione infatti aggravava le diseguaglianze: “Un’immensa ricchezza mineraria accanto a una popolazione che vive in condizioni di enorme precarietà”.

Durante il nostro incontro Muyej ha citato spesso la costruzione di un nuovo palazzo del governatore – una struttura pacchiana che sovrasta un mare di pericolanti casette in calcestruzzo – come dimostrazione che aveva modernizzato Kolwezi. Il rinnovamento dello stadio e della principale rotatoria della città, con al centro la statua di un minatore, sono stati finanziati dalle aziende minerarie. Muyej mi ha detto anche che voleva riformare il settore riducendo il lavoro minorile e centralizzando il mercato dei compratori di cobalto, in modo da rendere più trasparente la catena di approvvigionamento. Le sue riforme sono state criticate da chi le vede come tentativi cinici di controllare e tassare la produzione artigianale per ottenere un guadagno personale. E in effetti Muyej, i suoi familiari e i funzionari a lui vicini hanno tratto grossi vantaggi dal boom minerario.

Secondo il governatore, nella sua provincia operavano informalmente fino a 170mila creuseur. Tra i siti (circa quaranta) dove i minatori artigianali lavorano a giornata c’era quello della Congo Dongfang a Kasulo. Ma lì i creuseur sono soltanto ottocento, e questo alimenta il malcontento. Jacques Kayembe, presidente di un collettivo di minatori artigianali, spiega: “Kasulo è un villaggio costruito sui depositi minerari, ma i creuseur che possono lavorare legalmente non sono abbastanza, e questo è un problema”.

Ogni volta che ha cercato di scendere a patti con i creuseur che si erano intrufolati nei siti industriali, il governatore è stato preso a sassate, e nel 2019 per placare i disordini a Kolwezi è arrivato l’esercito. Da allora è frequente vedere soldati armati di mitra e lanciarazzi in giro per la città. Quando c’ero stato la prima volta, nel 2019, un casello stradale subito fuori città era crivellato di fori di proiettile. Un giornalista locale mi aveva raccontato che qualche giorno prima alcuni banditi avevano ucciso un poliziotto.

Il modo in cui i capi cinesi trattano i congolesi riporta alla mente il colonialismo

Con l’emergenza scatenata dalla pandemia di covid-19, nel sud della Rdc sono stati imposti dei lockdown. Kajumba dice che i creuseur “continuano a lavorare, ma la situazione è difficile”. Le grandi aziende hanno messo in congedo non pagato gli operai, aumentando la loro frustrazione. Un amico congolese mi ha mandato il video di una protesta di minatori che reclamavano gli stipendi arretrati in una miniera di Kolwezi gestita da cinesi. Con il prolungarsi delle restrizioni legate alla pandemia, si sono viste anche immagini di manifestanti che bruciavano pneumatici per strada.

Nel 2020 la Piattaforma per la protezione degli informatori in Africa (Pplaaf)ha annunciato che due cittadini congolesi avevano reso pubblici dei documenti sulle irregolarità commesse dalla Afriland First Bank, una banca con sede in Camerun dove Muyej aveva almeno un conto. Si è scoperto che Muyej aveva fatto passare centinaia di migliaia di dollari per quell’istituto. Ora è al centro di un’inchiesta per corruzione ed è il vicegovernatore ad amministrare la provincia del Lualaba. Radio France Internationale riporta che, secondo le autorità congolesi, il 40 per cento delle spese del suo gabinetto non era giustificato.

Nella zona enormi somme di denaro continuano a cambiare mano. Nel dicembre 2020 la China Molybdenum ha pagato alla Freeport-McMoRan più di mezzo miliardo di dollari per acquistare una quota di controllo della concessione di Kisanfu, a est di Kolwezi, dove si estraggono rame e cobalto. A una conferenza sponsorizzata dal Financial Times, Ivan Glasenberg, ex direttore generale della Glencore, ha commentato: “La Cina Inc. ha capito quant’è importante il cobalto. I cinesi sono andati e si sono accaparrati le riserve”. Glasenberg ha anche lanciato un avvertimento: se le compagnie cinesi avessero smesso di esportare batterie, la produzione di veicoli elettrici si sarebbe fermata in tutto il mondo. Nell’aprile 2021 la Catl, una conglomerata cinese che fabbrica batterie al litio, ha acquisito una quota da 137 milioni di dollari della miniera di Kisanfu. La Tesla collabora con l’azienda per produrre le batterie delle sue auto, e anche la Apple ha comprato i prodotti della Catl. Nel 2021 un crollo nella miniera di Kisanfu ha ucciso almeno quattro creuseur.

Due mondi

Nella primavera del 2019 ho visitato la miniera della Congo Dongfang a Kasulo, scortato da rappresentanti dell’azienda. Al cancello alcuni cartelli vietavano l’ingresso a bambini e donne incinte. All’interno della recinzione, la terra che un tempo era un quartiere pieno di vita era diventata un gigantesco cratere rosso. Non ho visto bambini durante la visita, ma Kajumba mi dice che riescono ancora a intrufolarsi. I miei accompagnatori mi hanno invitato a non avvicinarmi troppo ai creuseur. Poco prima del mio arrivo, un gruppo aveva dato fuoco ad alcuni autocarri della compagnia.

A detta di Kajumba l’azienda aveva chiesto ad alcuni congolesi di mediare tra i creuseur e i suoi dirigenti per risolvere le dispute di lavoro. Spesso le richieste degli operai non sono accolte e loro scioperano. “Vai a lavorare e dici: ‘No, non faccio nulla’. A quel punto i cinesi chiamano la polizia”, osserva Kajumba. La polizia, aggiunge, fa quello che dice l’azienda: “Gli agenti sanno di potersi aspettare dei regali dai cinesi, e così ti minacciano con i lacrimogeni e i manganelli”. Lo stesso Kajumba dice di essere stato bersagliato dai gas lacrimogeni della polizia a Kasulo: “Siamo scappati per salvarci la vita. Ci sentivamo indifesi”.

In alcuni siti estrattivi il modo in cui i capi cinesi trattano i congolesi riporta alla mente il periodo coloniale. In un video condiviso da suor Catherine Mutindi, della congregazione del Buon pastore, una guardia congolese con un kalashnikov in spalla picchia un uomo seminudo, con le braccia legate, che giace nel fango. Fuori campo si sente un uomo urlare: “Piga!”. È una parola swahili che significa “picchia”.

Bambini raccolgono minerali sulla strada verso la miniera della Gécamines a Kolwezi, Rdc, 25 aprile 2021 (Ashley Gilbertson, VII/Contrasto)

Prima del mio arrivo alla miniera mi era stata impartita una lunga lezione sui protocolli di sicurezza, ma avvicinandomi ai creuseur ho visto chiaramente che avevano solo un equipaggiamento rudimentale. Per trasportare il minerale usavano taniche di plastica tagliate a metà e legate a funi. Molti erano scalzi, e non indossavano caschetti né occhiali protettivi.

Alcuni lavavano il minerale in stagni sporchi accanto ai pozzi. “I cinesi ci imbrogliano”, ha mormorato uno di loro. “Il minerale è più puro di quello che dicono loro”. Kajumba dice di aver smesso di lavorare a Kasulo perché pensa di essere trattato ingiustamente.

Non si sa esattamente quanti cinesi vivano nella Rdc, ma le stime variano da meno di diecimila a centomila. Prima della pandemia i voli quotidiani della Ethiopian Airlines da Addis Abeba a Lubumbashi erano pieni di passeggeri cinesi. Quando questi lavoratori arrivano in una città mineraria, una serie di segnali in mandarino li guida verso gli hotel, i negozi e i ristoranti gestiti da connazionali. Al di fuori del lavoro i cinesi raramente socializzano con gli abitanti del posto. Pochissimi conoscono il francese o lo swahili, le lingue più parlate nel sud della Rdc. In un saggio del 2017 il politologo congolese Germain Ngoie Tshibambe ha scritto che molti cinesi giudicano la loro permanenza nel paese difficile e solitaria. “Non è un paradiso per gli immigrati”, osservava Tshibambe.

Pochi congolesi frequentano i ristoranti cinesi, che tendono a essere relativamente costosi e lontani dai loro gusti, mentre gli ambulatori cinesi sono diventati popolari. Questi centri di cura, più delle miniere, offrono la rara opportunità di un’interazione sociale.

I congolesi che lavorano nelle miniere gestite dai cinesi si lamentano del razzismo. Un interprete dal mandarino mi racconta: “I cinesi vengono qui per fare affari e per arricchirsi, perciò non possono essere nostri amici”. Aveva sentito un dirigente cinese dire dei congolesi: “Questa gente non è capace di pensare”.

Molti creuseur vicino a Kolwezi sostengono che nelle miniere di proprietà cinese si riproducono le dure condizioni di lavoro dell’industria estrattiva in Cina. “Se a casa loro lavorano senza scarpe, come possiamo aspettarci che ci diano delle scarpe per lavorare qui?”, dicono i congolesi. Un funzionario occidentale mi ha raccontato di aver visitato una miniera gestita da una piccola azienda cinese, dove lavoravano molti operai arrivati dalla Cina, e gli aveva ricordato un campo di internamento: “Gli operai cinesi erano scalzi, scavavano con le pale e non potevano andarsene”.

Durante una delle mie visite a Kolwezi, Kajumba mi invita nella angusta stanzetta che divide con Yannick Mputu e il fratello di Mputu, Trésor. Lo seguo in un vicolo nei vasti quartieri operai della città. Entriamo in un cortile dove c’è il bucato steso nonostante un forte odore di fogna. Entriamo in una porta dalla cornice verde, chiusa da un pezzo di stoffa stampata. Dentro, le pareti sono dipinte a colori vivaci. Sopra un letto di fronte a una vecchia tv c’è uno scaffale con camicie, giacche e altri vestiti stirati con cura, molti a scacchi o con disegni eleganti. Anche se fatica a tirare avanti, Kajumba è attento alla moda. Quel giorno porta una camicia a quadretti arancione abbinata a un berretto da baseball a macchie bianche e nere.

I creuseur sono orgogliosi dell’ingegnosità necessaria per fare bene il loro mestiere, e alcuni sostengono di essere contenti degli orari di lavoro irregolari. Ma Trésor Mputu, che ha due figli, confessa: “Come padre, non accetterei che i miei figli andassero in miniera”. Yannick annuisce. “Con il mio lavoro, vorrei permettere ai miei figli di fare più strada. Vorrei che potessero studiare in un buona scuola e andare via dal paese, per migliorare la loro condizione”.

Anche se mantiene le famiglie povere della regione, l’attività mineraria artigianale non entusiasma nessuno. La vita dei creuseur è breve e segnata dalla sofferenza. Molti hanno problemi fisici e psicologici causati dai crolli o da altri incidenti, e dagli scontri violenti con la polizia e l’esercito. Ziki, l’ex bambino creuseur, ricorda un incidente avvenuto quando aveva dodici anni: “Un venerdì ce ne stavamo seduti quando i soldati si sono presentati alla miniera e ci hanno preso. Ci hanno spinto per terra e spruzzato addosso dell’acqua. Poi hanno cominciato a frustarci. Noi ci siamo messi a piangere chiedendo pietà. Alla fine abbiamo giurato che non avremmo più messo piede in quel posto”.

Poco dopo quella vicenda Ziki ha lasciato il suo gruppo di amici, che avevano cominciato a bere e fumare pesantemente, e si è messo a girovagare da solo per i siti estrattivi. Dormiva nelle miniere, mangiava poco e subiva gli abusi dei soldati. A un certo punto è stato preso in ostaggio da un gruppo di creuseur più anziani che lo accusavano di aver rubato la loro merce. Per sua fortuna, alcuni giornalisti di Cbs News l’hanno visto mentre lavava dei minerali e hanno incoraggiato la sua famiglia a tirare fuori lui e i suoi fratelli dalle miniere. “Hanno chiesto a mia nonna. ‘Questi bambini non sono bravi a scuola?’”, racconta. “Mia nonna allora ha promesso di farci tornare a studiare”. Gli spettatori della Cbs hanno donato dei soldi per la loro istruzione.

Chiedo a Ziki come giudica chi guadagna molti soldi dall’estrazione del cobalto. “Provo tristezza quando penso alla gente che compra i minerali”, risponde. “Fanno tanti soldi e noi invece restiamo in queste condizioni”. Quando gli dico che negli Stati Uniti c’è chi paga più di mille dollari per un iPhone di ultima generazione, risponde: “Mi fa veramente male saperlo”.

Le aziende che usano le batterie al litio reagiscono periodicamente alle pressioni dell’opinione pubblica sulle condizioni di lavoro nelle miniere di cobalto, promettendo di ripulire la catena di approvvigionamento e trovare sistemi innovativi per risolvere il problema. Hanno anche un incentivo finanziario per farlo: il cobalto è uno dei componenti più costosi di una batteria. Nel 2020 la Tesla si è impegnata a usare batterie al litio-ferro-fosfato, che non contengono cobalto, in alcune delle sue auto elettriche. Le azioni della Zhejiang Huayou sono crollate. Eppure, osservava l’agenzia Reuters, “non è chiaro in quale misura la Tesla intenda usare quelle batterie”, e l’azienda “non prevede d’interrompere” l’uso di batterie che contengono cobalto. Le batterie litio-ferro-fosfato non sono impiegate nei cellulari; per avere il voltaggio necessario dovrebbero raddoppiare il loro volume, rendendo inaccettabili il peso e l’ingombro.

Gli stranieri visitano raramente il villaggio, che è circondato da fabbriche

Quando Amnesty international ha pubblicato, nel 2016, un rapporto sulle condizioni di lavoro inaccettabili nelle miniere di cobalto, la Apple ha rilasciato una dichiarazione in cui diceva “che ogni lavoratore nella nostra catena di approvvigionamento ha diritto a condizioni di lavoro sicure ed etiche”, e che “il lavoro minorile non è mai tollerabile”. L’anno successivo, un servizio di Sky News ha dimostrato che il cobalto estratto da bambini era ancora usato nei dispositivi dell’azienda. La Apple a quel punto ha sospeso gli acquisti di cobalto estratto artigianalmente, ma poi l’attenzione dei mezzi d’informazione si è spostata su qualcos’altro e tutto è tornato come prima. La Zhejiang Huayou resta parte della catena di approvvigionamento della Apple.

Nel dicembre 2019 i rappresentanti di International rights advocates, uno studio legale di Washington, hanno citato in giudizio Apple, Google, Dell, Microsoft e Tesla perché corresponsabili degli infortuni o della morte di bambini minatori. “Questi ragazzi lavorano in condizioni da età della pietra con un salario infimo, e un immenso rischio personale. Tutto per fornire cobalto”, si legge nella denuncia. “I centinaia di miliardi di dollari guadagnati dagli accusati ogni anno non sarebbero possibili senza il cobalto estratto nella Repubblica Democratica del Congo”.

Terry Collingsworth, l’avvocato dell’accusa, è convinto che la brutalità delle condizioni di lavoro fosse evidente fin dall’inizio. “Non riesco a immaginare che un’azienda come la Apple arrivi a dipendere da una catena di approvvigionamento senza aver passato del tempo sul campo”. In risposta, la Apple ha dichiarato di aver sempre migliorato gli standard a partire dal 2014 e di “lavorare costantemente per tenere alta la barra”. Ha anche detto di aver introdotto innovazioni nel riciclaggio del cobalto.

Le proteste suscitate dalle condizioni di lavoro nelle miniere hanno spinto i protagonisti del settore a fondare la Fair cobalt alliance, un’organizzazione che, tra l’altro, supporta l’attività mineraria su piccola scala con attrezzature sicure e acqua pulita. La Glencore, la Zhejiang Huayou e la Tesla hanno aderito all’iniziativa, che oggi è presente a Kasulo e in un altro sito.

Ziki, che va a scuola, è felice di studiare e giocare a calcio, e i dirigenti scolastici gli danno generi alimentari e altri prodotti da portare alla sua famiglia. Quando gli chiedo quali sono le sue speranze per il futuro, risponde: “Spero di poter diventare governatore!”.

A Samukinda

Una domenica mattina incontro Kajumba e Trésor Mputu al Temple évangélique de Carmel, un’enorme chiesa in una specie di hangar nel centro di Kolwezi. Una scritta all’esterno dichiara che è “la trentesima comunità pentecostale congolese”. Kajumba e Mputu partecipano alla messa ogni domenica. “Quando qualcuno si trova in difficoltà, può venire in chiesa e pregare”, dice Kajumba.

Dopo la funzione, andiamo insieme in un bar per guardare in tv una partita di calcio tra il Malagasy e il Tp Mazembe, che ha tifosi appassionati in tutto il sud del paese. Quando il Mazembe segna il primo goal, Kajumba sorride. Improvvisamente il televisore emette un suono disturbato e il programma passa a un’altra partita, a Kinshasa, la capitale del paese. “Si dimenticano sempre di noi quaggiù”, commenta qualcuno. Kajumba sospira. È ora di tornare a casa.

Da sapere
Nelle mani di pochi
I primi tre paesi per estrazione e lavorazione di minerali, percentuale della produzione mondiale (Fonte: Iea, The New York Times)

Un giorno parto in macchina da Kolwezi in direzione nord. Lungo la strada mi rendo conto di quanto la religione pervada ogni cosa: la clinica del monte Carmelo, il parrucchiere Salone dell’apocalisse, il gommista Luce di Dio. A un certo punto la strada diventa sterrata. I camion carichi di acido solforico alzano nuvole di fumo mentre si dirigono negli impianti in cui si lavorano i minerali grezzi. Svolto in una strada laterale e attraverso un torrente dove uomini, donne e bambini stanno lavando minerali di cobalto. Sulla riva opposta c’è un gruppetto di case in mattoni di fango. È Samukinda, il villaggio dove sono stati costruiti i nuovi alloggi per gli abitanti cacciati da Kasulo. Il caldo è punitivo, e mi sento riconoscente quando Nama Mavu, la leader della comunità, m’invita a casa sua per una chiacchierata.

“I miei antenati venivano dall’Angola, e hanno fondato il villaggio nel 1941”, dice la donna. Alle pareti del salotto sono appesi un’immagine di Gesù e il poster pubblicitario di una miniera di rame e cobalto. “I miei antenati arrivarono qui per costruire la ferrovia, e alla fine dei lavori decisero di restare”.

Per anni gli abitanti del villaggio hanno tagliato la boscaglia circostante per coltivare la manioca. Una decina di anni fa, però, un impianto di raffinazione del cobalto aperto da stranieri ha inquinato il terreno. Per gli abitanti del villaggio l’unica occupazione rimasta era come lavoratori a giornata sottopagati. Nel 2018 sono arrivati anche gli abitanti di Kasulo costretti a trasferirsi per fare posto alla miniera della Congo Dongfang.

Mentre cammino nel villaggio, i bambini ridono e mi indicano gridando: “Cinese! Cinese!”. Mavu spiega che raramente gli stranieri visitano questo posto, anche se ormai è circondato da fabbriche e miniere. Poi chiede a due ragazzi di accompagnarmi a vedere le case costruite dalla Congo Dongfang. In lontananza si vedono degli edifici bianchi dall’aspetto moderno, ma avvicinandosi è evidente che sono stati costruiti con superficialità. Poche case sono occupate, perché molti ex abitanti di Kasulo hanno preferito prendere i soldi. Quelli che hanno scelto la casa si sono fatti convincere da un opuscolo con splendide foto. Ma poi hanno scoperto che non c’erano i bagni né l’elettricità, i tetti perdevano e il pozzo era asciutto. Molte famiglie se ne sono andate. Il fornaio Muteba, che ha settant’anni ed è in pensione, è uno dei pochi a essere rimasto a Samukinda. Quando lo incontro indossa un camice sporco sul corpo magro e mi accoglie nella sua casa, dove fa un caldo soffocante. Muteba si è scavato una latrina che ha coperto con una tavola di legno. “L’acqua non è buona”, dice. “Da tutte le buche che scaviamo esce odore di acidi e inquinanti”.

Muteba, che soffre di diarrea, ricorda con nostalgia la sua casa a Kasulo: “Era un grosso appezzamento di terra. Aveva almeno quindici alberi. Siamo stati mandati via dalle nostre case come animali, e ora soffriamo come estranei”.

Mavu dice che il villaggio può a malapena sostenere i suoi abitanti, e non riesce a farsi carico dei nuovi arrivati da Kasulo. Non c’è la scuola e i negozi più vicini si trovano a chilometri di distanza.

Al mio colloquio con il governatore Muyej ho ripetuto alcune delle rimostranze sentite a Samukinda. Lui ha insistito che “avevo travisato la questione” e ha promesso di risolvere il problema del pozzo secco e degli edifici fatiscenti. Quando sono tornato al villaggio, cinque mesi dopo, Mavu dice che Papa Solution non ha mandato nessuno.

A Samukinda noto degli scarti minerari sparsi su un viottolo. Li hanno messi lì gli abitanti per controllare l’erosione del terreno durante la stagione delle piogge. Mi chiedo se i resti contengano cobalto, e un ragazzo mi risponde di sì, dopotutto l’intera regione sorge su depositi minerari.

Allora gli chiedo se gli abitanti di Samukinda hanno pensato di scavare sotto il villaggio. Il ragazzo alza le spalle, spiegando che lì nessuno vuole fare la fine degli abitanti di Kasulo. Ma chiude con una previsione: “Vedrai che arriveranno e ci cacceranno pure da qui”. ◆ gc

Nicolas Niarchos è un giornalista statunitense. Collabora con il New Yorker. Sta scrivendo un libro sul cobalto.

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Questo articolo è uscito sul numero 1449 di Internazionale, a pagina 44. Compra questo numero | Abbonati