E ra solo questione di tempo. Le trattative per la liberazione degli ostaggi condotte tra Israele e Hamas con la mediazione del Qatar e degli Stati Uniti si sono intensificate per giorni, e nella notte tra il 21 e il 22 novembre il governo israeliano ha finalmente approvato l’accordo. Dovrebbe svilupparsi in due fasi, per il momento è stata adottata la prima, a grandi linee. Questa parte dovrebbe durare quattro giorni, e prevede una tregua nei combattimenti e la liberazione di cinquanta donne e bambini israeliani tenuti in ostaggio nella Striscia di Gaza in cambio del rilascio di 150 prigionieri palestinesi detenuti in Israele, per lo più donne e minori. Lo stato ebraico si impegna anche ad autorizzare l’ingresso nell’enclave di centinaia di camion di aiuti umanitari dall’Egitto. Secondo la Mezzaluna rossa palestinese, da quando il valico di frontiera di Rafah è stato riaperto il 21 ottobre entrano nella Striscia 42 camion al giorno.

Anche se le parti non hanno divulgato il contenuto della seconda fase, alcune fonti al corrente delle trattative dicono che lo stato ebraico dovrebbe concedere un giorno di tregua supplementare ogni dieci ostaggi israeliani liberati da Hamas (donne, bambini e anziani), rilasciando tre detenuti palestinesi per ciascun ostaggio consegnato.

Lo stesso obiettivo

L’accordo segna il più importante successo diplomatico dall’inizio della guerra tra Israele e Hamas il 7 ottobre. Ma ci sono molti dubbi sul rispetto degli impegni da parte delle due fazioni, e le domande si moltiplicano. Cosa succederà dopo? Israele tornerà aggressiva, finita la tregua? Hamas potrebbe uscirne rafforzata?

Da più di un mese l’opinione pubblica israeliana pressa il primo ministro Benjamin Netanyahu perché ottenga la liberazione di tutti gli ostaggi nelle mani di Hamas e della Jihad islamica nella Striscia di Gaza, contro il parere dei suoi alleati di coalizione e dei coloni che giocano al rialzo. Il 20 novembre Netanyahu ha incontrato a Tel Aviv le famiglie degli ostaggi, ma non è bastato a calmare gli animi. Mentre il capo del governo sta mettendo in gioco il suo futuro politico, molte famiglie lo accusano di anteporre gli obiettivi militari alla sorte dei loro cari. L’accordo è una mano tesa nella loro direzione, anche se non risolve la situazione degli altri ostaggi che restano in mano ad Hamas, per lo più soldati, e di chi è stato rapito dalla Jihad islamica.

Per Israele le sfide restano molte. Dall’inizio delle operazioni compiute a Gaza in risposta all’incursione di Hamas sul suo territorio, l’obiettivo non è cambiato: annientare il movimento islamista. Se non può distruggere la sua ideologia, anche colpire le sue infrastrutture si sta rivelando complicato e potrebbe richiedere mesi. “Evidentemente Israele non mette un cessate il fuoco permanente all’ordine del giorno”, afferma Andreas Krieg, professore al King’s college di Londra. “Non ha ancora raggiunto l’obiettivo di erodere le capacità militari di Hamas a Gaza, e quindi continuerà a combattere”.

Bassa intensità

Forte della sua conoscenza del terreno e dei tunnel che usa per muoversi e lanciare attacchi, il movimento islamista scommette inoltre sull’esaurimento delle risorse del nemico. “Gli eserciti organizzati, costosi e brutali venuti dall’esterno sono concepiti per funzionare solo per un tempo limitato”, sottolinea Sultan Barakat, direttore del Global institute for strategic research (Gisr) e docente di politiche pubbliche all’Università Hamad bin Khalifa di Doha, in Qatar. “Non possono sostenere una guerra prolungata senza perdere la loro reputazione e far aumentare le pressioni esterne”.

Da sapere
Pressioni su Netanyahu

◆ In un articolo sul quotidiano israeliano Haaretz il giornalista Yossi Verter sottolinea che sono state le pressioni dei familiari degli ostaggi e della società civile israeliana a spingere il primo ministro Benjamin Netanyahu a superare l’opposizione dei suoi alleati di estrema destra e accettare l’accordo con Hamas. Nelle ultime settimane i familiari delle vittime hanno organizzato una grande campagna per la loro liberazione e il 20 novembre hanno incontrato Netanyahu. “Per quanto ne sappiamo, l’accordo era sul tavolo del premier già una settimana fa, con differenze trascurabili. Lui aveva esitato e alla fine l’aveva respinto. Ora ha cambiato idea. I cambi di posizione di Netanyahu sono normali. A convincerlo sono stati l’opinione pubblica, l’incontro con le famiglie dei sequestrati e le posizioni assunte dall’esercito e dai servizi di sicurezza”. Non è la prima volta che Netanyahu cambia idea, continua Verter. All’inizio “non metteva la liberazione degli ostaggi in cima agli obiettivi della guerra ma, visto che le richieste diventavano più insistenti, si è spostato su una posizione più umanitaria”. Ora, conclude, “possiamo solo sperare che l’assistenza fornita alle madri e ai bambini rilasciati sia più umana, professionale e compassionevole rispetto al trattamento ricevuto dalle loro famiglie nelle ultime sei settimane”.


Sul piano militare la situazione attuale dovrebbe dar luogo a una guerra di minore intensità, con meno vittime civili. Dopo l’approvazione israeliana dell’accordo infatti Hamas ha sottolineato che una clausola prevede la sospensione del controllo aereo israeliano sulla Striscia (per quattro giorni nel sud dell’enclave e per sei ore al giorno nel nord). Israele ha dovuto accettarla per mantenere l’appoggio del suo prezioso alleato statunitense e dei suoi partner occidentali. “Gli israeliani sono consapevoli che la crisi umanitaria non può continuare. Non tanto per empatia, ma perché comprendono che se non fanno nulla per rimediare alla catastrofe delle vittime civili i combattimenti non potranno continuare”, osserva Andreas Krieg. “Devono trovare il modo di permettere alle operazioni di continuare, a bassa intensità e con poche vittime, prima di entrare in una sorta di conflitto prolungato e di attaccare in modo più mirato certe infrastrutture”.

Il 21 novembre John Kirby, un funzionario della Casa Bianca che fa parte del consiglio di sicurezza nazionale, ha dichiarato che gli Stati Uniti non sosterranno la continuazione delle operazioni israeliane nel sud della Striscia a meno che non ci sia “un piano che garantisca la protezione dei civili”. Quindi, ha aggiunto, “sono obbligati a tenerne conto nella loro pianificazione”.

Se lo stato ebraico parla di tregua, d’altra parte teme che i combattimenti a bassa intensità diano ad Hamas la possibilità di riorganizzare le sue truppe. Il movimento islamista vuole mantenere intatta parte della sua infrastruttura militare alla fine della guerra, scommettendo sul fatto che il tempo gioca contro gli israeliani. “Hamas crede che i combattimenti a bassa intensità e le tregue prolungate gli permetteranno di riposizionarsi”, continua Andreas Krieg. “E che l’amministrazione Biden non lascerà che questa guerra continui all’infinito, soprattutto perché nel 2024 comincerà la campagna elettorale e Washington non vuole avere questa guerra e le sue immagini sulle prime pagine”. Negli ultimi giorni Joe Biden ha pubblicamente fatto pressioni su Israele, il suo alleato regionale più stretto. Il 18 novembre ha dichiarato che gli Stati Uniti sono pronti a imporre sanzioni ai coloni israeliani coinvolti negli attacchi contro i palestinesi in Cisgiordania.

Ci sono altre ragioni per cui Hamas scommette su questo accordo: negli ultimi giorni si capiva che il movimento islamista aveva fretta di raggiungerlo. “Abbiamo inviato una risposta ai mediatori del Qatar e dell’Egitto sull’ultima proposta di accordo, la palla è nel campo di Israele”, ha detto il 21 novembre Khalil al-Hayya, vicecapo del movimento islamista a Gaza.

Dato che tra gli obiettivi dichiarati da Hamas all’inizio dell’operazione “Diluvio di al Aqsa” c’era la liberazione di tutti i palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, il movimento può vantarsi di fare progressi in questa direzione. “Hamas punta da tempo a liberare i palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane, comprese alcune donne e bambini, che considera ostaggi perché incarcerati senza alcun procedimento giudiziario”, commenta Sultan Barakat. Approvando questo accordo, tenta anche di mostrare alla popolazione che si sta attivando per alleviare le sue sofferenze e per permetterle di accedere agli aiuti umanitari.

Resta da capire quale futuro Hamas immagina e potrebbe negoziare, dato che lo stato ebraico ha promesso di uccidere tutti i suoi leader, anche all’estero, e che i paesi occidentali e quelli arabi concordano su un trasferimento del controllo della Striscia di Gaza all’Autorità nazionale palestinese dopo la guerra. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1539 di Internazionale, a pagina 28. Compra questo numero | Abbonati