“Un approccio commerciale alla tutela dell’ambiente” è il motto dell’organizzazione non governativa African Parks, che gestisce diciannove riserve naturali in undici paesi africani, su un’area grande circa quattro volte la Svizzera. Il suo obiettivo è far aumentare la fauna e proteggere la biodiversità, con particolare attenzione a specie emblematiche come elefanti, rinoceronti e leoni, ma anche rendere i parchi più attraenti per il turismo. In questo modo le popolazioni locali dovrebbero capire che i parchi sono più redditizi se ci sono gli animali e che il bracconaggio va contro i loro interessi.

Da più di un anno conduco un’inchiesta su questa organizzazione che ha deciso di non collaborare e mi ha rifiutato l’accesso ai “suoi” parchi. I risultati di quest’inchiesta saranno pubblicati prossimamente. Durante le mie ricerche in Benin a gennaio e febbraio del 2022, ho collaborato con la giornalista Flore Nobime, che ha già scritto sul ruolo dell’African Parks nel suo paese, il Benin.

Non troppo tempo fa, il Benin era considerato una democrazia esemplare: dalla fine del sistema monopartitico nel 1990 i cambiamenti di governo pacifici sono stati la norma e il paese era ai primi posti delle classifiche in termini di libertà individuali e di stampa, e di funzionamento delle istituzioni pubbliche. Ma nel 2016 la vittoria elettorale di Patrice Talon, presentato come “l’uomo più ricco del paese”, ha cambiato le cose. Quest’imprenditore, che ha fatto fortuna principalmente con il cotone, ha messo a tacere la stampa e ha impedito all’opposizione di partecipare alle elezioni legislative del 2019, trasformando l’assemblea nazionale in una macchina a sostegno del suo potere.

I due candidati che hanno sfidato il “re del cotone” alle elezioni presidenziali del 2021, l’accademico Joël Aïvo e l’ex ministra della giustizia Reckya Madougou, sono stati arrestati. Il tribunale per la repressione dei reati economici e del terrorismo del Benin (Criet) li ha condannati rispettivamente a pene di dieci e vent’anni di carcere. Secondo molti osservatori, questo tribunale, creato nel 2018, è uno strumento voluto dal governo per eliminare gli oppositori e le voci critiche. Talon punta sul turismo per stimolare l’economia e lo sviluppo del Benin. Dopo essere salito al potere, ha chiesto alla African Parks di prendere in gestione i due parchi nazionali, prima il Pendjari nel 2017, e poi il W nel 2020. Il governo beninese garantisce un notevole sostegno economico all’ong: sei milioni di dollari in cinque anni. Secondo il sito Africa Intelligence, Talon è coinvolto anche sul piano personale. La sua azienda, la Société de financement et de participation, ha comprato il lussuoso Pendjari safari lodge, che si trova nel cuore del parco, e il figlio Lionel è responsabile del rilancio e della ristrutturazione del residence.

Ispettore in infradito

Da Cotonou, la capitale economica del paese, raggiungiamo in autobus Tanguiéta, una cittadina del nordovest che si trova a una quarantina di chilometri dall’entrata del parco del Pendjari, per intervistare delle persone che conoscono bene la regione e il parco: guide, cacciatori e guardie forestali. È qui che incontriamo Kinto Sylla, quasi settant’anni, ex militare e guardia del corpo di un ministro, che ci invita nel suo villaggio, Sangou, per parlare con gli abitanti.

Prima di partire ci eravamo informati bene sulle condizioni di sicurezza. La regione è colpita dalla violenza dei jihadisti. Nel maggio 2019 una guida beninese è stata uccisa e i due turisti francesi che accompagnava sono stati rapiti. In questi ultimi mesi diversi attacchi non rivendicati hanno preso di mira i militari beninesi. Secondo le nostre fonti, la città di Tanguiéta è sicura, ma per nessuna ragione possiamo andare verso la frontiera a nord con il Burkina Faso, è troppo pericoloso. Invece una breve visita a Sangou, che si trova vicino all’entrata principale del parco del Pendjari, con Sylla come guida e protettore, non dovrebbe comportare troppi rischi. Partiamo su due moto, in una c’è un tacchino vivo legato al manubrio: la nostra cena. Non ci sono posti di blocco militari lungo il percorso, ma siamo stati individuati da alcune macchine dell’African Parks e delle forze armate beninesi. La visita di ventiquattr’ore si svolge senza intoppi.

Una volta tornati al nostro hotel a Tanguiéta, un ispettore in infradito passa da noi e ci spiega che siamo stati visti fuori dalla città, senza avere informato le autorità locali del nostro spostamento. Le sue domande sullo scopo della nostra visita sono comprensibili, vista la minaccia jihadista e le voci ricorrenti sulla presenza di mercenari. La mattina dopo ci interrogano più a lungo sulla terrazza dell’albergo. L’atmosfera è ancora piacevole.

Poi la polizia ci porta in commissariato per un controllo approfondito. Non ci è comunicato che siamo ufficialmente in stato di fermo e che abbiamo diritto a un avvocato e a un medico, cosa che – ce ne renderemo conto solo dopo – segna l’inizio di una serie di violazioni del codice di procedura penale e della costituzione. Un procuratore della repubblica ci scagiona, con un fascicolo (vuoto) dell’Interpol in mano. Un verbale conferma che la nostra custodia è finita e che non c’è nulla contro di noi. Ma non siamo liberi.

La destinazione successiva è la squadra anticrimine di Parakou, la seconda città del paese, che si trova a più di quattro ore di strada da Tanguiéta, per sbrigare “le ultime formalità”, ci assicurano. Partiamo al tramonto per tornare – ci dicono – la notte stessa. Prendiamo posto sui sedili posteriori di un pick-up che ci aspetta, stretti tra due poliziotti armati di kalashnikov. Usciti dalla città, la macchina abbandona la strada principale asfaltata per prenderne un’altra che porta verso la boscaglia. Forse qualcuno deve già fare i suoi bisogni? O ci sono altri programmi per noi? Per fortuna, facciamo subito marcia indietro e vediamo una seconda volante della polizia.

Molto sorpresi, ci rendiamo conto che il nostro trasferimento avviene attraverso una staffetta (“corridoio di accompagnamento”): davanti a ogni distretto di polizia siamo spostati da un pick-up all’altro trovandoci ogni volta seduti in mezzo a nuovi poliziotti armati. La sera non arriviamo a Parakou ma ci fermiamo a Djougou, a metà strada, dove passiamo la notte in un commissariato di polizia. Ci fanno dormire su una panca di legno in una stanza illuminata dalla luce al neon, vicino a una cassa di bottiglie di birra vuote. Un poliziotto guarda Canal plus action, che per tutta la notte trasmette film statunitensi di serie b doppiati in francese. Quando glielo chiediamo, accetta di abbassare il volume.

In una sala d’attesa immacolata, ci rendiamo conto del nostro stato: siamo sporchi e impolverati. Le nostre borse sono coperte d’olio

Fulmine a ciel sereno

La sede della squadra anticrimine di Parakou, dove arriviamo il giorno dopo, si trova su un grande terreno all’ombra di alcuni alberi di mango. Ho ricevuto buone notizie dall’ambasciata dei Paesi Bassi a Cotonou, secondo la quale si tratterebbe di una pratica puramente amministrativa. Siamo fiduciosi che questa notte dormiremo in libertà.

Ma arriva un fulmine a ciel sereno. Dopo un breve interrogatorio, il commissario dichiara che siamo “sospettati di spionaggio”. Cosa? Quali sono le prove contro di noi? E per conto di chi staremmo spiando? Il commissario ci dice che dovremo comparire di fronte al Criet, lo stesso tribunale che ha condannato gli oppositori politici a dure pene detentive. Scortato dalla polizia, sono autorizzato ad andare a prendere da mangiare alla Vieille marmite, un ristorante molto frequentato del centro. È la prima volta che vedo una città sconosciuta da dentro una volante della polizia, e oltretutto come presunta spia.

La sera mi metto in contatto con l’ambasciata dei Paesi Bassi e con il sindacato dei giornalisti olandesi (Nvj), i quali mi comunicano che il ministero degli esteri del mio paese sta prendendo il caso molto seriamente. Un diplomatico con cui parlo non esclude che mercoledì sera – fra tre giorni – io possa essere a bordo del mio aereo per Parigi, come previsto.

Proteggere le fonti

Passiamo la notte in un ufficio abbastanza spazioso della squadra anticrimine, in cui abbiamo un po’ di privacy. È probabile che a Cotonou i nostri telefoni, computer e blocchi per gli appunti saranno controllati. Per precauzione cancelliamo i dati che potrebbero mettere in pericolo le nostre fonti o quelli che le autorità potrebbero considerare sospetti. Dopo aver scattato alcune foto e averle inviate a terze persone, strappiamo le pagine dai taccuini e le bagniamo con l’acqua del bagno. In borsa nascondiamo appunti illeggibili di cui dovremo sbarazzarci durante il viaggio verso Cotonou. Passiamo la notte su una stuoia poggiata su una panca di legno. Flore Nobime dorme quando un poliziotto ci chiede di firmare un documento in cui dichiariamo di sapere di essere accusati di reati gravi e che le indagini hanno permesso di raccogliere informazioni concordanti contro di noi. Bel tentativo. Ma no, non lo firmiamo.

Tra Parakou e Cotonou il tragitto è di quattrocento chilometri e – in condizioni normali – ci vorrebbero circa sei ore. Quel giorno ce ne mettiamo più di ventiquattro. Come i due giorni precedenti, cambiamo auto a ogni stazione di polizia e questa volta ci ammanettano e ci vietano di parlare. Uno degli agenti di guardia ci definisce “pacchi umani”.

Un festival di pesca a Sangou, al confine del parco del Pendjari. Benin, maggio 2019 (Brent Stirton, Getty Images Reportage)

Dopo aver fatto un centinaio di chilometri ammanettati, convinciamo un giovane poliziotto lasciato solo a sorvegliarci che non c’è niente di male a farmi telefonare all’ambasciata. Siamo legati uno all’altra, cosa che mi permette di prendere il telefono con la mano libera. Scopro che l’ambasciatrice ha parlato con il ministro degli esteri del Benin, Aurélien Agbénonci. È ottimista: “Nessuno ha interesse che la cosa degeneri”. Al commissariato di polizia successivo ci tolgono le manette e ci trattano da sospetti di alto livello, permettendoci di accendere l’aria condizionata.

Non ci resta che sbarazzarci dei nostri appunti. L’idea è buttarli nei bagni che ci sono in quasi tutti i commissariati di polizia. Visto che le squadre di agenti cambiano a ogni distretto, nessuno fa caso a quante volte andiamo in bagno. L’unico problema è che non siamo autorizzati ad andarci con le nostre valigie. Nobime riesce comunque a nascondere dei fogli tra i vestiti e a farli sparire. Ora non siamo più scortati dai poliziotti armati. In una delle tappe in cui siamo da soli sui sedili posteriori della macchina, abbasso con noncuranza il finestrino e metto il braccio fuori. I poliziotti non ci fanno caso e mentre attraversiamo una zona di boscaglia poco abitata butto la borsa con i nostri documenti in mezzo alla natura. Nessuno vede niente. Per un attimo, sembra di essere in un film.

Eppure, il lieto fine è tutt’altro che scontato. La notte è lunga e ci fermiamo molte volte, ma non per dormire. All’alba arriviamo nella periferia di Cotonou, dove ci rinchiudono in una stanza con quattro uomini: uno sonnecchia su una panca di legno mentre uccide le zanzare con una paletta, il secondo è seduto per terra sulle sue infradito, il terzo dorme su una sedia alta e il quarto è seduto su una panca, dove rimane ancora spazio per noi. La stanza dà accesso a delle vere celle, in cui sentiamo qualcuno russare. Nella più piccola si vede una donna con tre bambini.

A mezzogiorno, due commissariati più in là, chiamo di nuovo l’ambasciatrice. Di questo passo, ci toccherà trascorrere una quarta notte rinchiusi. Lei contatta il ministro e finalmente le cose sembrano cambiare. Un’ora dopo una macchina più lussuosa di quelle ordinarie della polizia viene a prenderci. La nostra destinazione è cambiata: non è più la sede della squadra anticrimine, ma quella della polizia repubblicana. In una sala d’attesa immacolata, ci rendiamo conto del nostro stato: siamo sporchi e impolverati. Le nostre valigie sono coperte dell’olio proveniente dalle taniche stipate nei vari pick-up su cui abbiamo viaggiato. Da Tanguiéta a qui, contiamo di essere saliti su almeno settanta veicoli diversi.

Ci accoglie il direttore della polizia repubblicana del Benin, Soumaïla Yaya. Comincia con un sermone: non saremmo dovuti andare al nord, o almeno avremmo dovuto chiedere il permesso alle autorità. Ma Yaya ci assicura di essere un uomo ragionevole e un grande difensore della libertà di stampa. Per questo ha chiesto al procuratore speciale del Criet di ritirare le accuse contro di noi. Le pressioni diplomatiche hanno funzionato.

Da sapere
Smantellare la democrazia

◆ Dopo quindici anni di regime marxista-leninista e una serie di colpi di stato, nel 1991 il Benin è stato uno dei primi paesi in Africa a organizzare elezioni multipartitiche. In seguito al voto l’allora presidente Mathieu Kérékou, un socialista arrivato al potere con un golpe nel 1972, fu il primo leader dell’Africa occidentale ad ammettere la sconfitta alle urne. Patrice Talon, un imprenditore che si è arricchito con il cotone, è stato eletto presidente nel 2016 con il 65 per cento delle preferenze, dopo aver incentrato la campagna elettorale sulla lotta al clientelismo e alla corruzione. Da allora ha cominciato a smantellare le fondamenta della democrazia nel paese: ha fatto arrestare giornalisti, oppositori e critici, e ha fatto chiudere giornali ed emittenti tv e radio. Talon, che ha 63 anni, è stato riconfermato alle elezioni dell’aprile 2021, in un voto boicottato dall’opposizione. Negli ultimi anni in Benin è aumentata l’attività dei gruppi jihadisti nelle regioni del nord, che confinano con Burkina Faso, Niger e Nigeria. Ad aprile del 2022 cinque soldati sono stati uccisi da presunti militanti islamisti nel parco nazionale del Pendjari.

◆L’African Parks (Ap) è stata creata nel 2000 da alcuni imprenditori sudafricani riuniti dal finanziere olandese Paul Fentener van Vlissingen, morto nel 2006, che aveva avuto legami con il regime dell’apartheid. Il gruppo propone un modello di tutela ambientale basato sulla privatizzazione quasi totale delle aree protette e su un turismo d’élite. Ha una forza anti-bracconaggio composta da circa mille ranger e ha costruito strutture alberghiere nei parchi dov’è attiva. Questo modello è stato criticato da diversi gruppi di attivisti, secondo i quali recintare i terreni e ricorrere alle armi per proteggere la natura porta alla militarizzazione della tutela ambientale e alla criminalizzazione delle popolazioni locali che tradizionalmente cacciano per procurarsi da mangiare. L’Ap ha moltiplicato gli accordi di collaborazione con i governi africani e oggi gestisce quasi quindici milioni di ettari protetti nel continente. Riceve aiuti finanziari da enti e filantropi in Europa e negli Stati Uniti, oltre che dall’Unione europea e dall’Agenzia per lo sviluppo internazionale statunitense (Usaid).

Bbc, Le Monde, Bloomberg


Giornalisti sotto attacco

La nostra storia dimostra come in poco tempo una democrazia modello si sia trasformata in un paese in cui le persone non osano più criticare il potere e dove le libertà sono state rapidamente limitate, un’evoluzione che si osserva anche in altri paesi dell’Africa occidentale. La paura è convidisa anche dalle stesse autorità ed è senza dubbio la ragione principale del prolungamento della nostra custodia preventiva: solo le sfere più alte del potere si sono prese la responsabilità di liberarci. Se fossimo stati davvero delle spie, gli agenti di grado più basso avrebbero potuto finire loro stessi in tribunale.

Non eravamo sicuri se fosse il caso di rendere pubblica questa storia, soprattutto pensando alle conseguenze che quest’articolo avrebbe potuto avere per Flore Nobime. Ma lei ha insistito perché la raccontassimo. È indignata perché i giornalisti del suo paese fanno sempre più fatica lavorare e le dispiace, pur capendolo, che quasi nessuno ne parli.

In Benin i giornalisti subiscono intimidazioni regolarmente. All’inizio di quest’anno diversi giornalisti sono stati arrestati nel nordovest del paese e portati davanti al procuratore speciale del Criet.Nell’aprile 2018 il giornalista Casimir Kpedjo è stato arrestato per aver pubblicato sulla pagina Facebook del suo giornale delle informazioni giudicate false contro l’economia beninese. È comparso davanti al Criet e il suo processo è stato rimandato diverse volte. Nel 2016 la Haute autorité de l’audiovisuel et de la communication (Haac, l’autorità per l’audiovisivo e le comunicazioni) ha chiuso un canale televisivo e, due anni dopo, un giornale vicino all’opposizione. Nella classifica annuale della libertà di stampa di Reporters sans frontières, nel 2022 il Benin è precipitato al 121° posto. Prima del governo di Talon si trovava alla 78° posizione e dieci anni prima era tra i primi venticinque al mondo, subito dopo la Germania e quattro posti prima del Regno Unito.

La nostra storia non è ancora finita. Flore Nobime è stata rilasciata immediatamente, io no. La sera stessa sono stato espulso dal territorio beninese e fatto salire sul primo aereo diretto in Europa. Le mie ultime otto ore in Benin le ho passate nel commissariato dell’aeroporto. Dopo il nostro “arrivederci”, Nobime è tornata a Godomey dalla famiglia. Nonostante la rabbia, è felice di rivedere suo figlio e sollevata di passare la notte da donna libera.

Mentre i passeggeri cominciano a imbarcarsi, un poliziotto mi fa saltare la fila. Un caso di “espulsione”, spiega all’agente allo sportello. Vuole perfino accompagnarmi al mio posto in aereo, ma le autorità aeroportuali glielo impediscono. Per la prima volta dopo quattro giorni e tre notti, nell’autobus tra il terminal e l’aereo non sono più nelle mani della polizia del Benin. Nel cielo dell’Africa occidentale mi aspetta una sorpresa gradita: nonostante la politica al risparmio del settore aereo degli ultimi tempi, l’Air France serve ancora champagne. ◆ cp

Olivier van Beemen è un giornalista d’inchiesta olandese. In Italia ha pubblicato Heineken in Africa (Add editore 2020).

Flore Nobime è una giornalista indipendente beninese. Collabora con diversi siti in Benin e in Africa occidentale.

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Questo articolo è uscito sul numero 1465 di Internazionale, a pagina 62. Compra questo numero | Abbonati