Negli anni settanta, quando Moshe Ben Avraham era un bambino, Port Harcourt, nel sud della Nigeria, era ancora una piccola città circondata da villaggi sparsi nella boscaglia. Di ebrei neanche l’ombra. Lo stesso Ben Avraham non era ancora ebreo, e non si chiamava neppure così. I suoi genitori, protestanti anglicani, l’avevano chiamato Moses Walison, come risulta ancora oggi dai suoi documenti. Lo avevano cresciuto mandandolo in chiesa la domenica, come i milioni di cristiani che vivono in questa parte della Nigeria. Qui i pulmini malandati che percorrono le strade ad alto scorrimento esibiscono sul lunotto posteriore slogan come “Gesù è indispensabile”e passano davanti a cartelloni di predicatori che pubblicizzano le loro chiese. I raduni liturgici non sono mai semplici preghiere: sono dei “megaterremoti globali” o “raccolti di miracoli”. Islam e cristianesimo sono diffusi da secoli in Nigeria, l’ebraismo non ha la stessa storia o tradizione. Da bambino Ben Avraham non conosceva questa religione, per lui Israele era solo un nome dell’Antico Testamento.

Nel 1986 suo padre morì e qualche anno dopo, mentre sentiva sempre più disaffezione per la chiesa, Ben Avraham si ammalò: un taglio sulla lingua gli aveva provocato una grave infezione. Fu allora che s’imbatté nella congregazione cristiana White garment sabbath (sabbath in veste bianca): un sacerdote scalzo vestito con un camice bianco riuscì a curarlo e lui si unì a quella comunità. “Mi dissero che il giorno della preghiera è il sabato, shabbat, non la domenica”, ricorda Ben Avraham. Era la prima volta che sentiva dire una cosa del genere. Convinto dalle citazioni prese dai libri della Genesi e dell’Esodo, cominciò a chiedersi cos’altro facesse di sbagliato e cosa dovesse ancora imparare. “In privato”, dice, “mi misi a studiare”.

Citazioni convincenti

Dieci anni dopo Ben Avraham fece un altro passo: diventò un ebreo messianico, aderendo a un gruppo che si diceva ebraico ma venerava Gesù come messia. Non era molto diverso dall’essere un sabatista. Entrambi i gruppi s’incontravano il sabato, pregavano a piedi nudi Dio e Gesù, e uccidevano montoni per la Pasqua ebraica, come indicato nelle antiche scritture ebraiche. Ben Avraham aprì una sala di preghiera e la chiamò Arca di Yahweh. All’inizio del nuovo millennio Port Harcourt era molto cambiata: si era affermata come importante polo industriale e presto sarebbe diventata il principale centro di raffinazione del petrolio in Nigeria. C’erano piattaforme offshore, cieli inquinati e un viavai di stranieri. Nel 2001 un dirigente della compagnia petrolifera Shell, uno statunitense di religione ebraica, entrò incuriosito nell’Arca di Yahweh. “Mi disse che avrebbe dovuto chiamarsi ‘Arca di Hashem’ perché gli ebrei non usano ‘Yahweh’ per nominare Dio”, ricorda Ben Avraham. I due rimasero in contatto. “Fu lui a insegnarmi le basi dell’ebraismo, a mandarmi libri e a farmi conoscere dei rabbini in Terra santa”. Un sabato del 2003 Ben Avraham vide un gruppo di uomini vestiti in modo inequivocabilmente ebraico che entravano in un palazzo di Port Harcourt. Gli spiegarono che era una sinagoga e che loro veneravano il Dio creatore, non la trinità. Lui era pronto: “Lì sono diventato del tutto ebreo”.

Ben Avraham è stato uno dei primi fedeli di una delle più giovani, più sorprendenti comunità ebraiche al mondo. La Nigeria non aveva mai fatto parte dell’universo ebraico, neppure come una remota appendice. Non ci sono testi che provano ad attestare la discendenza dei nigeriani dagli ebrei. Nessun ebreo sefardita è emigrato lì dopo la cacciata dalla Spagna e dal Portogallo, come nel Nordafrica alla fine del quattrocento. Nessuna comunità ebraica si trasferì insieme ai colonizzatori, come in Sudafrica.

In ogni caso, dagli anni novanta gruppi di persone nel sud e nell’est della Nigeria sono diventati ebrei praticanti, importando i riti e la lingua di una religione fino ad allora sconosciuta. All’apparenza sono state iniziative spontanee: non sono arrivati rabbini a spingere nuovi fedeli ad abbracciare la loro religione, e non era coinvolto Israele, che oggi non riconosce questa popolazione come ebraica. Oggi non abbiamo dati affidabili sul numero di ebrei nigeriani. L’organizzazione locale Jewish fellowship initiative ha una lista di almeno ottanta sinagoghe, ma i dati sui frequentatori sono variabili e imprecisi. Edith Bruder, un’etnologa francese che studia l’ebraismo in Africa, stima che siano trentamila. Howard Gorin, un rabbino statunitense che ha fatto tre volte il giro delle sinagoghe nigeriane – ed è tanto amato da essere descritto come il rabbino capo della Nigeria – pensa che non superino i tremila (la sua ultima visita, però, risale al 2008). Sarebbero comunque più numerosi rispetto all’altro gruppo dell’Africa subsahariana che ha adottato l’ebraismo nell’ultimo secolo: gli abayudaya dell’Uganda orientale. Nell’agosto 2021, nella capitale Abuja, un gruppo di rabbini arrivati dagli Stati Uniti e dall’Uganda ha ufficialmente convertito 96 persone all’ebraismo, nella prima cerimonia del genere nel paese. Ben Avraham non era tra loro, ma si dice pronto a seguirne i passi.

Moshe Ben Avraham (al centro in seconda fila) con altri fedeli della sinagoga, Port Harcourt, Nigeria, aprile 2022 (Emeke Obanor, Guardian/Eyevine/Contrasto)

Nella primavera del 2022 sono stato in Nigeria per indagare su come, quasi dal nulla, l’ebraismo abbia cominciato a spuntare e a diffondersi. La mia ricerca è partita da Lagos, a sudovest, è continuata verso est, lungo la costa ricca di petrolio che porta a Port Harcourt, per poi tornare a nord attraversando le città di Aba e Owerri. Infine mi ha portato nella spartana e rocciosa Abuja, nel centro del paese. In tutti questi posti c’erano sinagoghe – piccole, ma a volte ne ho viste tre o più in una sola città – con comunità di pochi fedeli, ma anche altre con decine di seguaci.

Discendenti di Gad

Il viaggio si è svolto prevalentemente nel territorio degli igbo, il terzo gruppo etnico in Nigeria. Su dieci ebrei nigeriani, nove sono igbo. Quando gli si chiede il perché di questa sovrapposizione, la spiegazione è sempre, più o meno, la stessa. Secondo la tradizione, gli igbo sono discendenti di Gad, uno dei figli del patriarca biblico Giacobbe e il capo di una delle dieci tribù perdute di Israele. A conferma, citano alcune usanze igbo che ricordano quelle prescritte nella Torah: la circoncisione dei maschi otto giorni dopo la nascita o le regole su quando una donna con le mestruazioni debba essere considerata pura o impura. Un uomo di Abuja ha compilato una lista con centinaia di parole igbo che suonano come l’equivalente ebraico. Un altro mi ha mostrato il video di una danza tradizionale igbo in cui un uomo indossa un drappo blu e bianco, gli stessi colori del tallit, lo scialle da preghiera ebraico.

Ben Avraham, con una barba che ricorda la lana d’acciaio, si è fatto crescere le basette per formare dei riccioli che arrivano sotto il mento. Anche lui è igbo. Per questo ha pensato che l’ebraismo potesse fare per lui. Ha avuto un tempismo perfetto: negli anni novanta e nei primi duemila, internet ha aiutato gli ebrei igbo, che hanno potuto apprendere da autodidatti la fede che si erano scelti. Man mano che Ben Avraham imparava – studiando online, mandando email a rabbini stranieri, facendo amicizia con i visitatori ebrei a Port Harcourt e strappandogli informazioni – si sentiva sempre più a casa. Per gli igbo diventare ebrei “non è una scoperta, ma un ritorno”, ha detto.

Il giorno del mio arrivo a Port Harcourt non c’era un raggio di sole, il cielo era coperto dai fumi di scarico e dall’harmattan, il vento invernale che raccoglie la sabbia del Sahara e la porta in tutta l’Africa occidentale. Quando Ben Avraham è venuto a prendermi per portarmi alla sinagoga, la sua Toyota era piena di sabbia, come se Mosè l’avesse guidata attraverso il Sinai. Vicino al bocchettone dell’aria condizionata c’era un’edizione dello Zohar, il testo mistico del giudaismo della cabala. Dall’impianto stereo si sentivano le prediche di un rabbino statunitense. Sul cruscotto sventolavano una bandierina nigeriana e due israeliane.

Circa quindici anni fa Ben Avraham ha comprato dei terreni alla periferia di Port Harcourt e ha costruito la sinagoga Aaron Hakodesh. “Ero l’unico laggiù, non c’era nessun altro in quella zona”, mi ha detto. Sembra quasi incredibile a giudicare dai fiumi di auto e dalle file di officine meccaniche sulla strada principale. Quando ho visitato la sinagoga gli edifici erano ancora incompleti, con cumuli di materiali da costruzione, ma la sala di preghiera, con il soffitto con le travi a vista, gli archi azzurri e i muri piastrellati, era ariosa e ben rifinita. Il Sefer Torah – i rotoli su cui sono trascritti a mano i primi cinque libri della Bibbia ebraica – era riposto dietro una tendina a motivi floreali. In cima a una rampa di scale c’erano scaffali con testi religiosi, molti dei quali in ebraico, anche se Ben Avraham lo legge a fatica. Sulla finestra c’erano adesivi con l’immagine di una menorah, una stella di David e, per chi non avesse bisogno di ulteriori conferme, la scritta “Io sono un ebreo” in caratteri maiuscoli.

La parabola religiosa di Ben Avraham è abbastanza comune tra gli ebrei nigeriani. Spesso l’avvicinamento alla fede ebraica è spiegato con un graduale sentimento di frustrazione nei confronti delle contraddizioni del cristianesimo. Ancora più spesso, gli ebrei igbo descrivono la religione cristiana come un’imposizione europea – un credo alieno che ha cancellato le loro tradizioni – al punto che il loro rifiuto somiglia più che altro a un rifiuto del colonialismo. Tra gli igbo, chi volesse recuperare i culti religiosi dell’epoca precoloniale troverebbe ben poco su cui lavorare.

L’idea di provenire da una delle dieci tribù perdute di Israele offre il romanticismo e la solidità di un legame con il passato. Nella sua riluttanza ad accettare nuovi convertiti, il giudaismo è una religione che, come ha scritto una volta l’accademico e pastore Robert L. Montgomery, aiuta “società minacciate o instabili ad affermare le loro specifiche identità”. Piccole comunità in Giappone, Kashmir e Afghanistan hanno sposato le teorie secondo cui discenderebbero dalle tribù perdute di Israele, e lo stesso hanno fatto altri gruppi di maori e di nativi americani. Alcuni sono stati riconosciuti come ebrei dai rabbini e sono stati ammessi in Israele: è il caso degli ebrei etiopi, o di quelli dell’India orientale e birmani.

Centinaia di parole della lingua igbo suonano come il loro equivalente ebraico

Ma, affermando la loro vicinanza all’ebraismo, gli igbo cercano anche di distinguersi dalle altre etnie. Dopo che la Nigeria ottenne l’indipendenza nel 1960, gli igbo subirono forme di discriminazione. Dal 1967 al 1970 i secessionisti igbo combatterono – e persero – una guerra per creare la repubblica indipendente del Biafra, nel sudest. Durante l’accerchiamento dei loro territori da parte delle truppe governative, due milioni di persone, e forse più, morirono di fame. Oggi il sogno di un Biafra indipendente è alimentato dall’attivista anglonigeriano Nnamdi Kanu, che manifesta pubblicamente la sua fede ebraica. Il movimento di Kanu è osteggiato dal governo, e per questo oggi essere ebrei in Nigeria è ancora più insidioso. Molte persone che ho incontrato si sono dette preoccupate per l’aumento dell’antisemitismo. La maggior parte degli ebrei igbo si trova in una strana posizione: da una parte, pensa che appartenenza etnica e credo religioso si coniughino in una simbiosi ideale; dall’altra, vuole tenere separata la fede dalla politica.

I primi ebrei di internet

Da Port Harcourt ci siamo diretti a nordest, penetrando nella regione igbo, per conoscere Eben Cohen, uno dei primi nigeriani a parlare l’ebraico correntemente. Cohen è un uomo minuto ma dalla grande reputazione. Avevo già sentito parlare molto di lui, soprattutto da cantori a cui aveva insegnato l’ebraico. A tre ore di viaggio da Port Harcourt, sotto un cavalcavia nella città di Aba, è salito sulla nostra macchina e ci ha accompagnato per un paio di giorni nel cuore delle terre igbo. Cohen ha 58 anni, l’aria ammiccante, e indossa sempre un basco e un gilet elegante. Passa le giornate tra una sinagoga e l’altra, a volte si ferma settimane o mesi a insegnare l’ebraico.

È cresciuto a Ezza, nel sudest della Nigeria. Negli anni ottanta si trasferì a ovest, nella città di Warri sul delta del fiume Niger. Lavorando in un negozio di artigianato locale fece amicizia con una famiglia di israeliani di passaggio. Colpiti dal suo nome, gli diedero un foglio con i caratteri ebraici e Cohen, convinto come molti altri che gli igbo siano israeliti, ne fu affascinato. “Sembrava stenografia ma non lo era”, ci ha detto. “Decisi di imparare l’ebraico: mi piacciono le sfide”. Insieme ad altri amici, cominciò una corrispondenza con un istituto di Gerusalemme che aiuta chi vuole apprendere l’ebraico inviando libri e opuscoli. All’inizio era difficile, ma lui si divertiva a trovare le piccole somiglianze con la lingua igbo. Dopo quattro anni sapeva leggere fluentemente.

Nel suo libro del 2013 Jews of Nigeria William Miles, un politologo della North­eastern university di Boston, descrive i nigeriani come “i primi ebrei di internet”. In realtà, ancora prima dell’avvento del web, persone come Cohen si erano affidate a incontri casuali e corrispondenze per posta per imparare l’ebraico e i dettami religiosi. Solo alla fine degli anni novanta gli ebrei nigeriani cominciarono a visitare siti come Chabad.com e JewFAQ.org, a scrivere email a rabbini all’estero e a guardare i video online. Ben Avraham spendeva tutti i suoi risparmi negli internet café, stampando preghiere traslitterate in inglese e spiegazioni della Torah. Erano anni di errori e imperfezioni. Nessun testo, per quanto dettagliato, poteva insegnare tutta la complessità della lingua e della religione. Un amico di Cohen ascoltava ogni sabato un programma della Bbc che trasmetteva le letture del rabbino britannico Jonathan Sachs, finché non scoprì che l’ebraismo ortodosso proibisce di accendere la radio durante lo shabbat. Quando il rabbino Gorin andò per la prima volta in Nigeria, nel 2004, notò che in una sinagoga tenevano delle colombe in gabbia. “Gli chiesi perché, e mi dissero: ‘Nel Levitico si dice che bisogna sacrificare due colombe ogni volta che una donna dà vita a un bambino’. Gli spiegai che abbiamo smesso di fare sacrifici rituali duemila anni fa”.

Ragazze che cantano davanti alla sinagoga Aaron Hakodesh, Port Harcourt, aprile 2022 (Emeke Obanor, Guardian/Eyevine/Contrasto)

I testi e i materiali di preghiera non erano mai abbastanza. I Siddur, o libri di culto, erano fotocopiati nelle sezioni rilevanti e distribuiti. Si cucivano imitazioni dei tallit. Il vino kosher nei negozi costava cinquanta dollari a bottiglia. In una sinagoga di Abuja, Miles ha visto una menorah fatta di bottiglie di Coca-Cola sistemate in una cornice metallica.

Molti dubbi e imprecisioni sono scomparsi con il tempo. I rabbini dall’estero offrivano indicazioni, suggerimenti e materiali. Per due volte Gorin ha raccolto fondi per inviare container pieni di libri, computer, scialli e altre donazioni per le sinagoghe in tutta la Nigeria. Oggi il vino kosher è più economico e diffuso. Ben Avraham ha trovato un importatore di pane azzimo da Israele. Le sinagoghe comprano i libri online. Altri problemi però rimangono. Molte sinagoghe non hanno il Sefer Torah. E in Nigeria meridionale non è facile trovare un macellaio kosher. Molti hanno risolto smettendo di mangiare la carne.

A Basilea, in Svizzera, una sera del 2005, Daniel Lis conobbe un giovane igbo di nome Levi in un locale. Lis, un ebreo svizzero-israeliano, che studiava all’università, gli fece notare che il suo nome sembrava ebraico. Ma gli igbo sono ebrei, gli rispose l’altro. Lis, che oggi è un antropologo sociale dell’Università di scienze applicate di Berna, si appassionò all’argomento. Le ricerche per la tesi lo portarono in Nigeria e negli archivi in Israele per scoprire l’origine della credenza secondo cui gli igbo avrebbero radici ebraiche. Come molte altre cose in Nigeria, spiega Lis, questa convinzione si è sviluppata a partire dall’incontro con l’occidente.

Nel settecento gli igbo vivevano in territori vasti, ed erano uniti dalla lingua e da alcune credenze comuni. “Ma se avessi chiesto a qualcuno se era un ‘igbo’, nessuno avrebbe capito la domanda”, dice. Igbo non era un’identità. La distinzione si è affermata verso la fine del settecento e nell’ottocento: prima, tra la diaspora creata brutalmente dalla tratta degli schiavi; in seguito, nelle città nigeriane, dove le persone andavano in cerca di lavoro dopo che i britannici avevano preso il controllo del paese nella seconda metà dell’ottocento.

Un tocco di musica in più

Le memorie, le lettere e i testi del periodo coloniale consultati da Lis sono i primi scritti a tracciare il parallelo tra igbo ed ebrei. A volte gli autori erano loro stessi igbo, nota Lis. Tra le prime dissertazioni del genere c’è l’autobiografia, scritta nel 1789, di Olaudah Equiano, uno schiavo liberato che viveva a Londra. Descrivendo “la forte analogia che … sembra prevalere nelle maniere e nelle abitudini dei miei compatrioti e degli ebrei”, Equiano concluse che “un popolo era nato dall’altro”.

Coloni e missionari cristiani incentivavano questo paragone. Il loro obiettivo era attirare verso la chiesa le persone che si riconoscevano nella vasta tradizione ebraico-cristiana. Tutto questo alimentava le insensate teorie razziste degli europei. Spesso i colonizzatori attribuivano origini ebraiche a quelli che reputavano appartenenti a razze superiori. Queste credenze antiquate sono difficili da estirpare. Tra gli igbo c’è ancora qualcuno che si considera più bianco, più intelligente e più laborioso degli yoruba, degli hausa e di altri gruppi etnici nigeriani.

Quando le tensioni sfociarono nella guerra civile, la causa del Biafra riecheggiava quella sionista. Alla radio i leader del movimento indipendentista paragonavano le loro sofferenze alle persecuzioni subite degli ebrei ai tempi dell’inquisizione. Julius Nyerere, il presidente della Tanzania, tracciò un parallelo fra la lotta secessionista e “gli ebrei che andavano in cerca di un focolaio nazionale dopo l’olocausto”. Da parte sua, Israele vendeva armi a entrambe le parti in conflitto e offriva aiuti umanitari al Biafra. Di recente il desiderio dei militanti biafrani di ripercorrere la storia del sionismo è diventato più esplicito. Una fazione nata nel 2010, ma dalla vita breve, si chiamava Movimento sionista del Biafra. Nnamdi Kanu, leader del gruppo Indigenous people of Biafra (Ipob), esponeva la bandiera israeliana sulla sua casa e si mostrava in pubblico con lo scialle da preghiera ebraico. In un’intervista del 2018 Kanu ha fatto appello a Israele perché “difendesse il giudaismo in tutto il mondo”. Ma Israele non ha mai risposto.

Un ebraismo dalle porte aperte sarebbe più sincretico, avrebbe sapori locali

La questione se Kanu e altri igbo siano a tutti gli effetti degli ebrei è spinosa. Gli igbo potrebbero aver ragione quando dicono di discendere da qualche antico gruppo israelita finito in Nigeria. Nell’antichità queste peregrinazioni avvenivano più spesso di quanto immaginiamo. Ma per la religione ebraica provare la propria genealogia è una cosa seria. Un test del dna eseguito nel 2017 su 124 uomini per cercare “radici ebraiche” non ne ha trovato traccia. Se il campione fosse stato più ampio, avrebbe potuto rivelare dei marcatori genetici che legavano quelle persone ad altre popolazioni ebraiche, ma sarebbe stata una semplice correlazione statistica, non una prova decisiva del fatto che i loro antenati praticavano l’ebraismo.

La maggior parte degli ebrei nigeriani sono ortodossi e credono che le leggi della Torah vadano interpretate alla lettera. Nelle loro sinagoghe le donne non leggono la Torah e sono separate dagli uomini. Israele continua a non riconoscere l’ebraismo degli igbo, e di conseguenza gli nega il diritto al ritorno, cioè a emigrare nello stato ebraico e a ottenerne la cittadinanza. Anche le conversioni ufficiali non sono servite a granché. I 96 igbo convertiti dal tribunale rabbinico nell’estate del 2021 sono stati inseriti nella branca del giudaismo conservatore (che, per quanto possa sembrare poco intuitivo, è più liberale di quello ortodosso). Ma, mentre gli ebrei conservatori statunitensi hanno il diritto al ritorno, i neoconvertiti no. “Secondo la legge religiosa, devi convertirti in un posto dove ci sia una comunità ebraica riconosciuta”, spiega Gorin. “Ma come si fa a creare una comunità se non ci sono prima un po’ di conversioni? È un vicolo cieco”.

Nonostante tutti i suoi elementi di modernità, la storia dell’ebraismo in Nigeria ricalca uno dei modi in cui da sempre le religioni si diffondono. Una religione può arrivare all’improvviso ed essere imposta dai conquistatori con moschetti e spade. O può arrivare un po’ alla volta, come il buddismo nell’Asia orientale, trovando un terreno politico fertile e piccole armonie con le credenze locali. Le leggi rigide dell’ebraismo, e le società molto compatte che lo hanno praticato, storicamente non hanno permesso che si diffondesse facilmente, ma nell’era di internet le cose potrebbero essere diverse. “Per varie ragioni le porte dell’ebraismo sono state chiuse a chi veniva da fuori”, dice Bonita Sussman, vicepresidente di Kulanu, un’organizzazione non profit di New York che vuole integrare le comunità ebraiche isolate. “Le cose dovrebbero cambiare”.

L’interno della sinagoga, Port Harcourt, aprile 2022 (Emeke Obanor, Guardian/Eyevine/Contrasto)

Un ebraismo dalle porte aperte sarebbe più sincretico, avrebbe sapori locali, come quello nigeriano. Andando a Port Harcourt, ho passato qualche giorno nello stato di Akwa Ibom. Un sabato sono andato alla Beth Ha’arachman Haknesset, una sinagoga immersa tra coltivazioni di igname e banani. Un qualsiasi ospite britannico o statunitense avrebbe trovato tutto molto familiare: il vino dolce di una marca kosher statunitense e il pane challah; la tenuta degli officianti, con le kippah ben fissate sul capo e le estremità degli scialli che spuntavano da sotto le magliette; le preghiere (anche se molto più numerose del solito). Le melodie, invece, sarebbero state una sorpresa: il capo dei cantori le aveva inventate ricalcando ritmi come quello di Jingle bells. Altrettanto estraneo era l’accompagnamento ritmico dei cantori più giovani – abbastanza contagioso – e le danze sulle sedie delle donne della congregazione.

La mattina dopo ho incontrato alcune di loro. Volevo sapere se ora che seguivano l’ebraismo ortodosso erano costrette in ruoli più tradizionali, a cui avrebbero potuto sottrarsi. “Ci sono tante regole da seguire”, ha ammesso Aduja Batisrael, una donna dai capelli tinti color bronzo. Regole su come vestirsi, su quali doveri religiosi possono o non possono assolvere. Bisogna farci l’abitudine, ha ammesso Batisrael. Il problema, ha aggiunto l’amica Rebekah Baruk, è l’accoglienza tagliente che i convertiti ricevono dai cristiani. Alcune famiglie respingono i parenti. “Sono spaventati o confusi”, mi ha raccontato Batisrael. “Molti non hanno mai sentito parlare degli ebrei e, se sanno qualcosa, dicono che abbiamo ucciso Gesù”. Alcuni clienti di Baruk, che gestisce un negozio di abbigliamento nella città di Uyo, l’hanno rimproverata per aver lasciato la chiesa. Non succede tutti i giorni, dice, ma con una certa frequenza: è convinta che l’ebraismo sia considerato una religione scomoda nella società nigeriana.

Fase di transizione

La sinagoga più antica del paese, la Gihon hebrews synagogue, è arroccata su una ripida collina della capitale Abuja. Risale al 1990, anche se in quell’anno ci fu semplicemente un primo raduno di tre famiglie di ebrei messianici in un appartamento. Nel 1997 scoprirono l’ebraismo tradizionale e nel 2005 costruirono i due edifici che oggi formano la sinagoga. Mi sono unito a loro per uno shabbat. Dopo la funzione mattutina, ho passato il resto della giornata in compagnia di una trentina di fedeli in una sala quadrata con sedie blu e bianche e riproduzioni dell’alfabeto ebraico alle pareti. Un cantore dal viso allungato ha pronunciato una benedizione (kiddush) concisa: solo una canzone, con il ritornello ripetuto all’unisono dall’assemblea. Quando ho detto all’uomo alla mia destra che avevo partecipato a un kiddush di due ore nell’Akwa Ibom, con tanto di canti e balli, lui ha sbuffato in segno di disapprovazione: “Là fanno così. Infilano la musica dappertutto”.

Dopo la benedizione si è bevuto il vino e uno degli uomini, che indossava un cappello e un cappotto nero nel caldo di Abuja, si è alzato per declamare l’ordine del giorno della sinagoga. Ha ricordato a tutti che la festa di Purim era alle porte e che la Pasqua ebraica sarebbe arrivata poco dopo, esortando i membri a fare donazioni generose. “La pandemia non è ancora alle nostre spalle. Continuate a indossare le mascherine. Siate responsabili, siate gli ebrei che dovete essere”, ha detto. L’aria era immobile, la luce intensa. In un angolo, una donna coccolava un bambino che aveva già in testa una kippah.

Più tardi, nel pomeriggio, ci sono state discussioni sulla Torah e su altri testi canonici: domande e risposte animate su come debba essere la sinagoga ideale e sugli anni precisi della creazione e della nascita di Gesù. Durante il pasto a base di stufato di pesce e riso, ho avuto una conversazione interessante con il mio vicino di posto. Ariel, un agente immobiliare di Abuja, mi ha detto che una volta era un “tradizionalista igbo”, cioè seguiva una serie di vecchie usanze, pur senza considerarle parte di una fede coerente. Una religione richiede una comunità, e Ariel riteneva che agli igbo questa mancasse. “Non avevamo un posto dove incontrarci, nessun tempio, niente di simile”, mi ha detto. Poi, diciott’anni fa, ha deciso di diventare ebreo. “Così ho trovato persone con cui passare il tempo”, mi ha spiegato.

Ariel non era sicuro che lui e i suoi compagni ebrei si rendessero del tutto conto della portata della storia e della pratica della nuova fede. Sicuramente lui e altri soffrono per la mancanza di sostegno di Israele. Ma Ariel pensava a lungo termine: “Quando Mosè portò gli ebrei fuori dall’Egitto, non avevano sinagoghe. Solo dopo hanno costruito i luoghi di culto. Anche noi siamo così. Siamo in fase di transizione. Stiamo diventando ebrei. Ci stiamo arrivando”. ◆ dl

Samanth Subramanian è un giornalista. Vive a Londra. Il suo ultimo libro è
A dominant character (Simon and Schuster 2019).

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Questo articolo è uscito sul numero 1469 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati