In politica il detto latino larvatus prodeo, “avanzo mascherato”, è spesso molto azzeccato: una forza rivoluzionaria all’inizio non mostra i suoi veri colori e si limita a dire di voler migliorare il sistema esistente. Ma il detto non diventa forse ancora più appropriato se viene capovolto? Larvatus redeo, “mi ritiro mascherato”: quando sono costretto a ritirarmi, mi metto una maschera ingannevole per coprire la profondità della mia sconfitta e presentarla come un nuovo progresso. E se il mio vero volto fosse già una maschera? In questo modo quando mi ritiro e fingo di far cadere la maschera ne mostro solo una diversa. È l’inganno definitivo. Basta ricordare i politici che, raggiunta una certa età, tradiscono il loro passato radicale e dicono di non avere più false visioni ideologiche.

Questa versione del larvatus redeo si adatta perfettamente al funzionamento feticista dell’ideologia nella sua modalità cinica, che prevede di prendere le distanze da essa o, per ripetere la vecchia formulazione della ragion cinica di Peter Sloterdijk, “so cosa sto facendo, ma lo faccio lo stesso”. Il disconoscimento feticista – “so benissimo cosa sto facendo, ma non ci credo veramente” – è elevato a un livello superiore. Il feticcio non è l’elemento a cui mi aggrappo per poter agire ignorando ciò che so, ma è la conoscenza stessa. Secondo il ragionamento cinico “so benissimo cosa sto facendo, quindi non puoi rimproverarmi di non saperlo”.

È così che oggi nel capitalismo l’ideologia dominante abbraccia il sapere critico, neutralizzandone quindi l’efficacia: la distanza critica nei confronti dell’ordine sociale è il mezzo attraverso cui quest’ordine si riproduce. Basti pensare all’esplosione delle biennali d’arte (Venezia, Kassel e simili): anche se di solito si presentano come una forma di resistenza al capitalismo globale e alla sua mercificazione di tutto, sono la versione definitiva dell’arte come momento di autoriproduzione capitalistica. Un altro caso simile è stata la grande conferenza sul riscaldamento globale che si è tenuta a Glasgow due anni fa: l’urgente necessità di una cooperazione globale e di un’azione ambientalista è stata pubblicamente riconosciuta, ma tutte queste chiacchiere programmatiche non hanno avuto alcun effetto reale. E molto probabilmente succederà la stessa cosa con i discorsi anti­capitalistici: ben poco cambierà davvero e la minaccia al sistema sarà tranquillamente neutralizzata.

La posizione critica predominante nei nostri mezzi d’informazione più influenti continua a evitare il capitalismo. Ecco un caso esemplare. Harry, della famiglia reale britannica, e sua moglie Meghan sono entrati a far parte della Ethic, una società che investe in progetti sostenibili, in qualità di “responsabile dell’impatto ambientale”. Il sito di Ethic dice che “sono profondamente impegnati ad affrontare le questioni fondamentali del nostro tempo – come il clima, l’equità di genere, la salute, la giustizia razziale, i diritti umani e il rafforzamento della democrazia – e capiscono che questi temi sono intrinsecamente connessi tra loro”. Non si può fare a meno di notare che in questo elenco delle “questioni fondamentali del nostro tempo” manca qualcosa. È vero, sono questioni connesse tra loro intrinsecamente, ma non direttamente: gli elementi che le collegano davvero sono il capitalismo globale e i suoi effetti distruttivi.

Contro questa posizione dominante, una forma di anticapitalismo si sta diffondendo anche nei mezzi d’informazione più istituzionali. È cominciato una decina d’anni fa con quello che possiamo chiamare marxismo holly­woodiano, partendo da film come Avatar (in cui la lotta di classe è trasformata in un conflitto tra una cultura organico-patriarcale aliena che vive in armonia con la natura e il brutale capitalismo aziendale che cerca di colonizzarla e sfruttarla) e arrivando ad altri film che mettono in scena l’uccisione dei ricchi (Glass onion – Knives out, The menu, Triangle of sadness).

Allo stesso modo i dibattiti economici si limitano inizialmente a criticare gli straricchi.

Ecco un esempio, raccontato dal Guardian: “Più di duecento componenti dell’élite dei ricchissimi chiedono ai governi di tutto il mondo di ‘tassare noi, gli straricchi’ per aiutare miliardi di persone che lottano contro il critico aumento del costo della vita. Il gruppo di 205 milionari e miliardari – di cui fanno parte l’ereditiera della Disney, Abigail Disney, e l’interprete cinematografico dei personaggio di Hulk, Mark Ruffalo – ha chiesto mercoledì 18 gennaio ai leader mondiali e ai dirigenti d’azienda riuniti a Davos per il Forum economico mondiale d’introdurre urgentemente delle tasse sulla ricchezza per contribuire ad affrontare la ‘disuguaglianza estrema’. Oxfam ha dichiarato che una tassa extra del 5 per cento imposta ai multimilionari e miliardari del mondo potrebbe raccogliere 1,7 miliardi di dollari all’anno, sufficienti a far uscire dalla povertà due miliardi di persone e a finanziare un piano globale per porre fine alla fame”.

Sulla stessa falsariga, abbiamo recentemente appreso che secondo il Programma alimentare mondiale (Pam), l’organizzazione delle Nazioni Unite che si occupa della scarsità alimentare, “il 2 per cento della ricchezza di Elon Musk potrebbe risolvere la fame nel mondo”. Come prevedibile, Musk (che di recente ha perso più della metà della sua ricchezza, circa 160 miliardi di dollari) ha immediatamente offerto il denaro, ma solo se le Nazioni Unite proporranno un piano chiaro per raggiungere l’obiettivo.

“Tassare i ricchi” è quindi una cosa da mettere in pratica, ma dovremmo comunque tenere presente che lascerebbe intatto il funzionamento di base del sistema e sarebbe solo un tentativo di limitarne gli eccessi.

Anche alcuni grandi mezzi d’informazione si stanno rendendo conto che è necessario fare di più: il Financial Times ha dichiarato in un editoriale che il neoliberismo deve uscire dalla scena globale perché il suo tempo è passato: la dinamica capitalista sembra sempre più un criceto che corre nella ruota della sua gabbia.

Una forma di anticapitalismo si sta diffondendo anche nei mezzi d’informazione istituzionali. È cominciato con quello che possiamo chiamare marxismo holly­woodiano

Allora cosa bisogna fare? La prima cosa è imparare a oltrepassare le barriere imposte dall’ideologia neoliberista: il capitalismo di oggi può sopravvivere a interventi molto più radicali di quanto possa sembrare. Come ha fatto notare Mariana Mazzucato, lo stesso sistema che ripete costantemente che non si possono aumentare le tasse per combattere il riscaldamento globale è stato in grado di spendere miliardi per combattere l’epidemia della variante omicron del covid-19.

Dovremmo quindi cominciare a rafforzare con coraggio quella che Sloterdijk ha definito “socialdemocrazia oggettiva”: il vero trionfo della socialdemocrazia è avvenuto quando le sue richieste fondamentali (istruzione gratuita, sanità gratuita e via dicendo) sono diventate parte del programma accettato da tutti i principali partiti e sono state inscritte nell’architettura delle istituzioni statali.

Ma questo non sarà sufficiente. Di fronte a nuove crisi globali, dovremo agire in modo rapido, deciso e globale. Il commento del giornalista Simon Jenkins sulla crisi del sistema sanitario nazionale del Regno Unito va preso assolutamente alla lettera: “Questa è una crisi storica e l’unico modo per affrontarla è un piano di guerra. Dobbiamo fare i conti con l’emergenza. Nulla può sminuire il nostro sostegno e l’affetto per il personale impegnato in prima linea. Come i soldati in tempo di guerra, sono lavoratori a cui la gente si rivolge istintivamente quando tutto sembra perduto”. La situazione è simile nell’intera Europa, dalla Germania alla Slovenia. Quindi per far fronte alle crisi in corso, dalle minacce all’ambiente alle guerre, avremo bisogno di soluzioni con quello che sono tentato di chiamare provocatoriamente “comunismo di guerra”: mobilitazioni che dovranno violare le regole di mercato a cui siamo abituati.

La seconda cosa da fare è prendere coscienza che l’attuale sistema parlamentare multipartitico non è abbastanza efficace per affrontare queste crisi. Non dobbiamo fare della democrazia parlamentare un feticcio. Quello che scrisse Friedrich Engels in una lettera ad August Bebel del 1884 è ancora valido. Engels avvertiva che la “democrazia pura” diventa spesso uno slogan per la reazione controrivoluzionaria: “Al momento della rivoluzione, nel momento decisivo l’intera massa reazionaria si comporterà come se fosse democratica”. Non succede forse proprio questo quando è al potere un movimento di emancipazione troppo radicale? Il colpo di stato contro Evo Morales in Bolivia non è forse stato fatto, come molti altri, in nome della democrazia?

Dal balcone che dominava la sala durante l’ultima seduta dell’assemblea costituente russa, il 5 gennaio 1918 (in seguito l’assemblea fu di fatto sciolta e mai più convocata) Lenin osservò che in Russia la democrazia (almeno nel senso comune del termine) era finita, perché quell’assemblea era l’ultimo organo multipartitico eletto. Ecco la sua reazione, che merita una citazione lunga:

“‘Amici, oggi ho perso un giorno’, recita un antico detto latino. Non si può fare a meno di ricordarlo quando si rievoca come è stato perso il 5 gennaio. Dopo un vero e intenso sforzo sovietico di operai e contadini impegnati in compiti reali, ripulendo la foresta e sradicando i ceppi dello sfruttamento latifondista e capitalista, siamo stati improvvisamente trasportati in un ‘altro mondo’ da persone di un altro mondo, dal campo della borghesia con i suoi campioni volenti o nolenti, consapevoli o inconsapevoli, con i suoi seguaci, servi e sostenitori. Dal mondo in cui i lavoratori e la loro organizzazione sovietica conducevano la lotta contro gli sfruttatori, siamo stati trasportati nel mondo delle frasi stucchevoli, delle dichiarazioni vuote e untuose, delle promesse e ancora di altre promesse basate, come prima, sulla conciliazione con i capitalisti.

È come se la storia avesse accidentalmente, o per errore, riportato indietro l’orologio, e il gennaio 1918 per un solo giorno è diventato il maggio o il giugno 1917!

È stato terribile! Essere trasportati dal mondo dei vivi alla compagnia dei cadaveri, respirare l’odore dei morti, sentire quelle mummie con le loro vuote frasi ‘sociali’ in stile Louis Blanc, è stato semplicemente intollerabile. (…)

Teresa Sdralevich

È stata una giornata dura, noiosa e fastidiosa nelle eleganti sale del palazzo di Tauride, il cui aspetto differisce da quello di palazzo Smolny all’incirca come l’elegante ma moribondo parlamentarismo borghese differisce dal semplice apparato proletario sovietico, per molti versi ancora disordinato e imperfetto, ma vivo e vitale. Lì, nel vecchio mondo del parlamentarismo borghese, si arroccavano i dirigenti di classi e gruppi ostili della borghesia. Qui, nel nuovo mondo dello stato proletario, contadino e socialista, le classi oppresse stanno facendo un lavoro maldestro, inefficiente…”.

Qui il manoscritto s’interrompe. È facile criticare questo brano, vedendoci solo il primo passo verso la dittatura staliniana, e ribattere: e le riunioni e i dibattiti all’interno dello stesso partito bolscevico? Non si sono forse trasformati anche quelli, nel giro di un paio d’anni, nel “mondo delle frasi stucchevoli, delle dichiarazioni vuote e untuose”, un mondo di rituali vuoti in cui anche chi ne faceva parte si comportava come uno zombi e dove si poteva “respirare l’odore dei morti”?

D’altra parte, la descrizione brutalmente gelida di Lenin non si adatta forse perfettamente anche ai grandi incontri sul riscaldamento globale come la conferenza di Glasgow, che ci trasportano “nel mondo delle promesse e ancora di altre promesse basate, come prima, sulla conciliazione con i capitalisti”?

Nella ricerca di una diversa democrazia, si è quasi tentati di rivolgersi alla Cina, come ha fatto il filosofo Roland Boer.

Secondo Boer, anche se la Cina non è un modello che tutto il mondo dovrebbe seguire, fornisce utili lezioni mostrandoci come combinare la crescita economica e il ruolo forte del mercato con il socialismo. Il complesso sviluppo che c’è stato dalle riforme di Deng Xiaoping alla nuova visione di Xi Jinping non può essere ridotto a un conflitto tra (una dose limitata di) capitalismo di mercato e un totalitarismo comunista, come suggerisce la consueta critica “democratica” occidentale. Xi insiste ripetutamente sul fatto che il compito fondamentale è reindirizzare la crescita in modo che la gente comune e povera ne percepisca i benefici, e sottolinea il ruolo del controllo dell’autorità pubblica sui mercati.

In questo risulta necessario il ruolo guida del Partito comunista, perché garantisce che la dinamica del grande capitale sia indirizzata verso il bene comune della maggioranza, i diritti delle donne e delle minoranze, oltre che verso il contenimento delle minacce all’ambiente.

La Cina sta quindi mostrando la strada? Non proprio: i disordini pubblici che hanno portato all’inversione di tendenza nella lotta contro il covid-19 sono solo uno dei segni che l’élite al potere non reagisce efficacemente al malcontento della gente comune. Dietro l’obiettivo proclamato di ascoltare da vicino i malumori e le richieste della maggioranza, si nasconde una società in cui i mezzi d’informazione pubblici sono strettamente controllati e censurati, e il modo in cui è selezionata la dirigenza del partito è tutt’altro che trasparente.

D’altro canto l’ascesa esplosiva dei nuovi mezzi d’informazione (Facebook, Google, Instagram, TikTok e così via) nell’occidente “democratico” ha cambiato radicalmente il rapporto tra spazio pubblico e privato: è emerso un nuovo terzo spazio che viola la divisione tra i primi due. Questo spazio è pubblico e accessibile a livello globale, ma allo stesso tempo funziona come scambio di messaggi privati. È tutt’altro che privo di controlli: ci sono algoritmi che non solo lo censurano, impedendo ad alcuni messaggi di entrarci, ma manipolano il modo in cui i messaggi catturano la nostra attenzione.

Il punto della questione, qui, è andare oltre l’alternativa tra la Cina e Elon Musk, tra un controllo statale non trasparente e la cosiddetta libertà di fare ciò che si vuole, anch’essa manipolata da algoritmi non trasparenti. La Cina e Musk hanno in comune il controllo non trasparente.

Quello di cui abbiamo bisogno è quasi ovvio. Ci servono algoritmi che controllino l’accesso (tenendo fuori i contenuti razzisti o sessisti), ma che siano trasparenti, discussi pubblicamente e completamente accessibili. Alcuni teorici pensano che in questo nuovo spazio la nozione stessa di ideologia non serva più a nulla. Però è facile dimostrare che qui l’ideologia rimane pienamente operativa: la libertà in questo spazio è una modalità esemplare di non-libertà vissuta come libertà, di libertà strettamente regolata, manipolata e controllata.

Terza cosa: dal momento che anche l’attenzione ai problemi economici “reali” non è sufficiente, saremo costretti ad abbracciare pienamente la lezione della psicoanalisi.

Friedrich Engels scrisse che nel socialismo “la soddisfazione di tutti i bisogni ragionevoli sarà garantita a tutti in misura sempre maggiore”. Ma andrebbe sollevata l’inevitabile domanda: quali sono, precisamente, questi bisogni ragionevoli? La grande lezione della psicoanalisi non è forse che, nel nostro universo sociale, i bisogni non sono mai espressi direttamente, ma sono sempre mediati da meccanismi psichici che fanno di loro dei desideri perversi e irrazionali?

Sono pronto a rischiare la vita per qualcosa di cui non ho bisogno, il divieto di ottenere direttamente ciò che desidero può fornire un surplus di piacere, ciò che desidero è mediato da ciò che gli altri desiderano, e il meccanismo dell’invidia è tale da rendere più importante ferire l’altro che soddisfare me stesso. Come si possono spiegare cose come il razzismo e il sessismo senza questi rovesciamenti perversi?

Il teorico politico Fredric Jameson ha fatto notare che, se vogliamo immaginare una qualsiasi forma di comunismo, il suo problema fondamentale sarà l’invidia. Quindi il passaggio al post-capitalismo, qualunque sarà la sua forma, non sarà solo un processo molto complesso a livello economico, ma ci metterà anche di fronte a nuovi problemi di economia libidinale: la lezione finale è “non esiste critica dell’economia politica senza una critica dell’economia libidinale”. Non si tratta solo d’integrare la critica dell’economia politica a quella dell’economia libidinale: una lettura attenta di Marx mostra che una sorta di critica dell’economia libidinale è già presente nel Capitale. Marx non caratterizza forse il capitalismo come un sistema gestito da una pulsione incessante (Trieb) verso l’auto-riproduzione allargata?

La conclusione è quindi che non bisogna liquidare cinicamente le critiche al capitalismo: hanno aperto un nuovo spazio di pensiero critico, e saremo noi a determinare se questo spazio sarà riconquistato dal sistema o meno. ◆ ff

Slavoj Žižek è un filosofo e studioso di psicoanalisi sloveno. Il suo ultimo libro pubblicato in italiano è Il sesso e l’assoluto (Ponte alle Grazie 2022). Il titolo originale di questo articolo è Tax the rich? Not enough!

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Questo articolo è uscito sul numero 1500 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati