Lo psichiatra statunitense Ned Hallowell, seduto sul divano in maniche di camicia e i capelli alla Bill Clinton, appollaiato sul divano, si gira verso la telecamera con la sicurezza rilassata di un veterano di Hollywood. “Una delle cose più strane di questo disturbo chiamato in modo fuorviante ‘deficit di attenzione’ è che possiamo cadere in una sorta di torpore”, dice. “Per esempio, possiamo uscire dalla doccia e sederci sul letto con un asciugamano intorno alla vita e guardare fuori dalla finestra, pensando a … niente!”. Le persone che soffrono di questo disturbo di solito sentono di avere un cervello che lavora senza tregua, osserva Hallowell, ma ogni tanto provano la gioia del vuoto totale. A 72 anni, Hallowell è seguitissimo su TikTok. Perfino questo video apparentemente banale è stato visto 1,1 milioni di volte. È autore di più di dieci libri, la maggior parte dei quali sul disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività (adhd), tra cui il best seller del 1992 Driven to distraction, scritto insieme allo psichiatra John Ratey, che ha cambiato il dibattito pubblico sul tema.

Anche Hallowell soffre di questa sindrome e l’ha descritta come “la diagnosi della buona notizia”. I bambini affetti da adhd, spesso liquidati come “problematici”, hanno “qualcosa di speciale”, sostiene. Hallowell dice sempre che le persone con l’adhd hanno un cervello paragonabile al motore di una Ferrari, ma con i freni di una bicicletta, e sostiene che Einstein, Mozart e Dalí molto probabilmente ne soffrivano.

Chi stabilisce qual è un livello accettabile di organizzazione personale? E quale soglia minima di attenzione può considerarsi normale?

Negli anni novanta, le sue ricerche hanno contribuito a eliminare lo stigma associato a questo disturbo. Ma Hallowell faceva anche parte di una piccola cerchia di professionisti, aziende farmaceutiche e gruppi di pressione impegnati nel promuovere un alleggerimento nei criteri diagnostici che avevano alimentato un rapido aumento dell’incidenza dell’adhd negli Stati Uniti. Nel 2013 si pensava che un ragazzo delle scuole superiori su cinque ne soffrisse e la maggior parte veniva curata con i farmaci.

Oggi Hallowell è uno dei tanti influencer – il cosiddetto “complesso industriale dell’adhd”, come li ha definiti il giornalista James Bloodworth, in un articolo del New Statesman – che stanno alimentando una nuova ondata di diagnosi, ma questa volta negli adulti: tra il 2006 e il 2016, negli Stati Uniti, sono più che raddoppiate. In quel periodo, gli adulti hanno sostituito i bambini come destinatari principali dei farmaci specifici e la pandemia ha contribuito a un’ulteriore impennata. Negli ultimi due anni negli Stati Uniti la farmacia online SingleCare ha registrato un aumento del 16 per cento di prescrizioni del farmaco per l’adhd Adderall.

Il Regno Unito, che storicamente ha avuto tassi di diagnosi molto più bassi rispetto agli Stati Uniti, non pubblica dati, ma il numero di persone che pensano di soffrire di questo disturbo è di gran lunga superiore alle previsioni della sanità pubblica. In alcune parti del paese, bisogna aspettare anni per ottenere un appuntamento con uno specialista. Psychiatry Uk, il servizio online che fornisce valutazioni e suggerisce trattamenti sia al servizio sanitario nazionale sia ai privati, afferma di aver registrato un “aumento notevole” delle persone in cerca di cure: riceve circa 150 richieste di visite specialistiche al giorno e nel 2022 ha ampliato la sua squadra di consulenti da dieci a sessanta. A questo si aggiungono anche molte prove aneddotiche: più le persone dichiarano sui social network di avere l’adhd, più i loro amici e colleghi chiedono una diagnosi. Matthew Broome, che dirige l’Istituto per la salute mentale dell’università di Birmingham, ha detto che stava notando un aumento delle diagnosi di adhd tra i suoi colleghi, spesso dopo che era stato diagnosticato ai loro figli.

Prima, gli adulti che avevano una maggiore probabilità di soffrirne rientravano nel sistema di giustizia penale: ex detenuti o persone che combattevano una dipendenza. Ora, sono sempre più spesso adulti apparentemente ad alto funzionamento. Perché sta succedendo? La risposta più semplice è che si tratta di una correzione dopo decenni di diagnosi mancate: adulti che ne hanno sofferto senza essere stati aiutati o a cui sono stati erroneamente diagnosticati depressione o disturbi della personalità possono finalmente ricevere un aiuto. È una conclusione valida, ma c’è anche un aspetto più complesso, che riguarda le dinamiche sociali e culturali che influiscono su questa epidemia.

Non è una coincidenza se le diagnosi di adhd sono aumentate quando internet ha creato l’economia dell’attenzione, una vasta infrastruttura progettata per catturare e monetizzare l’interesse delle persone. E non è un caso se sono aumentate durante un’era di capitalismo spietato, in cui le persone sono relegate a lavori da scrivania che richiedono molto tempo senza garantire una posizione economica sicura. Stiamo ancora affrontando le conseguenze di una pandemia che ha ucciso milioni di persone in tutto il mondo: forse non c’è da sorprendersi se in tanti si sentono disorientati e incapaci di concentrarsi.

La ricerca di un’etichetta

Il modo in cui concepiamo il disagio emotivo cambia nel tempo. Se l’ansia era uno dei disturbi che definivano gli anni duemila, ora stiamo entrando nell’epoca dell’adhd?

Arrivare a una diagnosi dovrebbe essere un percorso “lungo e ponderato”, sostiene Matthew Broome. Uno psichiatra deve prima determinare se una persona presenta almeno cinque dei sintomi da disattenzione, iperattività e impulsività. Deve accertare se sono emersi nell’infanzia e non sono causati da un altro disturbo. Deve sapere se stanno influenzando più di un’area della vita di una persona e se la stanno compromettendo in modo significativo. Come per la maggior parte dei problemi psichiatrici, non esiste un momento esatto in cui i sintomi diventano un disturbo. Più rigorosi sono i criteri per la diagnosi, più aumentano le persone escluse dal supporto specialistico. Ma se si fissa l’asticella troppo in basso, l’etichetta del disturbo si diffonde a tal punto che chi soffre di sintomi più estremi non vi si riconosce più. Diverse persone affette da adhd con cui ho parlato erano preoccupate per il fatto che l’etichetta fosse diventata “di moda”, e che i discorsi online a volte riducessero tutto a una serie di meme in cui chiunque può riconoscersi, come distrarsi quando qualcuno ci parla o dimenticare le password.

Tra gli adolescenti e gli adulti più giovani, Broome sostiene di aver notato una maggiore impazienza, il desiderio di una diagnosi che potrebbe essere collegata alla generale situazione di disagio dei giovani e a una disperata ricerca di risposte: “Una sorta di visione TikTok del disturbo può diffondersi molto facilmente. Anche gli studenti di psichiatria vogliono un sistema che renda il disturbo rapidamente diagnosticabile. Il che è davvero interessante, perché in passato le persone erano molto scettiche nei confronti di questa scienza ed erano più propense ad affermare: ‘Non metteteci etichette’. Ora invece dicono: ‘Dateci un’etichetta, e datecela rapidamente’”. L’ultima edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (Dsm-5) è diventata a sorpresa un best seller, a causa dell’aumento delle persone che si fanno diagnosi da sé.

Quando cercano una diagnosi di adhd, gli adulti sono spesso in un periodo di crisi o di transizione: stanno per lasciare l’università, hanno subìto una battuta d’arresto nella carriera o una separazione. Le persone con cui ho parlato che avevano ricevuto di recente una diagnosi di questo disturbo l’hanno definita una svolta. C’era chi aveva trascorso tre anni in attesa di un aiuto dal sistema sanitario nazionale e chi aveva speso montagne di soldi in cure private. Ho parlato con un’imprenditrice a cui la diagnosi era arrivata a cinquant’anni. Ha chiesto di non fare il suo nome, ma mi ha detto che ha cercato aiuto dopo che i cambiamenti ormonali causati dalla menopausa hanno aggravato i problemi che l’affliggevano da anni: estrema mancanza di memoria e disorganizzazione, periodi di intensa depressione. Per lei i farmaci sono serviti: non aveva più bisogno di provarci tre volte per uscire di casa. Ma soprattutto, la diagnosi l’ha aiutata a comprendere meglio molti aspetti di sé e della sua vita: il suo isolamento sociale quando andava a scuola, il rendimento irregolare all’università – a volte veniva bocciata e altre risultava tra le migliori – o perché aveva cominciato a curarsi da sola con le anfetamine. Avrebbe potuto perdere del tutto il controllo, racconta, se a 25 anni non fosse nata la sua prima figlia.

Prendere coscienza del disturbo le ha anche permesso di parlare con i suoi genitori delle cose che aveva fatto e che li avevano feriti. È stato un sollievo sapere che avevano capito che non era semplicemente una figlia “sbandata” o che “frequentava le compagnie sbagliate”.

Joseph Geyer

Origini ignote

Lo psichiatra londinese James Kustow mi ha descritto l’adhd come “uno dei disturbi più gratificanti con cui lavorare”, perché la terapia è molto efficace. “Per un disturbo da abusi di sostanze, d’ansia, da stress post-traumatico o della personalità si può rimanere in cura anche vent’anni senza sapere che alla base c’è l’adhd. Se non curi questo, non stai spegnendo il fuoco sotto la pentola”, spiega. Una volta affrontato, la differenza è notevole: “All’improvviso cominciano una relazione, trovano un lavoro, la loro depressione sparisce, riescono a mangiare e a fare esercizio fisico”.

A Kustow, che ha 47 anni, la testa rasata e gli occhiali, è stato diagnosticato un disturbo dell’attenzione intorno ai trent’anni quando studiava medicina. La maggior parte degli esperti di adhd sembra soffrirne, osservo. “Penso che sia così per quasi tutti i problemi di salute fisica e mentale. In questo caso, forse, le persone ne parlano di più, perché sono più impulsive”, risponde con una risata. A suo avviso, “disturbo da deficit d’attenzione” è un “nome stupido”: “Dovrebbe chiamarsi ‘sindrome da disregolazione’ perché di questo si tratta: l’attenzione, l’attività, le emozioni e il controllo degli impulsi non sono regolati, si passa dall’iperattività all’apatia”. L’adhd lo ha reso più bravo nel suo lavoro, dice. Ha una comprensione più profonda delle esperienze dei suoi pazienti, l’intensa concentrazione e la creatività gli consentono di riconoscere certi schemi ricorrenti che altri non vedono.

Ora fa ricerca sull’inaspettato legame tra l’adhd e disturbi come l’ipermobilità o vari problemi infiammatori e autoimmuni: secondo uno studio svedese su larga scala, chi è asmatico avrebbe il 45 per cento di probabilità in più di soffrire anche di adhd. Mentre una recente metanalisi fa pensare che la febbre da fieno aumenti la probabilità del 50 per cento. Il disturbo si riscontra anche in un numero sproporzionato di persone che soffrono di eczema, psoriasi, colite ulcerosa e malattie della tiroide. E se si dovesse scoprire che è legato ad alcune forme di infiammazione neurologica, è probabile che il long covid possa essere un fattore di rischio.

Kustow spera che questa ricerca faccia fare passi avanti nella comprensione delle cause dell’adhd, ancora difficili da identificare. Gli studi sui gemelli suggeriscono che esiste una significativa componente genetica, anche se non è stato individuato un singolo marcatore nel dna. Una ricerca svolta sugli orfani romeni fa pensare che influiscano anche le privazioni nei primi anni di vita e i traumi. Le scansioni cerebrali indicano che ci sono alcune caratteristiche strutturali che possono essere associate all’adhd, ma non così marcate da poter essere usate per una diagnosi.

Avevo sempre temuto di passare del tempo da solo con la mia mente. La sfamavo in continuazione, come se fosse una bestia feroce e malevola

L’adhd ha molte cause biologiche ma non è un fenomeno puramente fisico. Quando gli psichiatri valutano la severità del disturbo, misurano i suoi effetti rispetto alle aspettative del paziente e all’ambiente in cui vive. Un contabile può essere più danneggiato da una scarsa capacità di organizzazione e concentrazione di un artista. Quindi non si può parlare in modo esaustivo dell’aumento dei casi di adhd senza considerare altre grandi questioni sociali e culturali: chi stabilisce il livello accettabile di organizzazione personale? E l’atteggiamento medio nei confronti del rischio? Quale soglia minima di attenzione è considerata “normale”, insomma?

Di nuovo adorabili

Negli anni sessanta, lo psichiatra statunitense Keith Conners fece la scoperta controintuitiva che la somministrazione di anfetamine ad adolescenti ribelli e scontrosi poteva migliorare radicalmente il loro comportamento, e il loro rendimento scolastico. Conners concepì un questionario per aiutare gli specialisti del settore a identificare i ragazzi che avrebbero beneficiato dall’assunzione di farmaci stimolanti. Gli psichiatri non sapevano bene come classificare questi ragazzi, che non mostravano alcun segno di disagio se non una tendenza a essere iperattivi e impulsivi. Inventarono diversi termini, come “danno cerebrale minimo”, “disturbo dell’impulso ipercinetico”, “disfunzione cerebrale minima”, “disturbo da deficit di attenzione” e infine, nel 1987, decisero per quest’ultimo.

Una delle prime pubblicità del Ritalin, uno degli stimolanti usati da Conners, dava già un’idea di come le aziende farmaceutiche avrebbero sfruttato le sue scoperte. “Il Ritalin aiuta ‘il bambino problematico’ a diventare di nuovo adorabile”, dichiarava. Nel 1994 l’azienda farmaceutica Richwood Pharmaceuticals sviluppò un nuovo tipo di anfetamina chiamato Obetrol. Lo rilanciò come Adderall e commercializzò il marchio rivolgendosi a genitori ansiosi e competitivi: la medicina avrebbe eliminato i comportamenti ribelli, migliorato il rendimento scolastico e aiutato i bambini a realizzare le loro potenzialità, e chi non lo avrebbe voluto? “Finalmente risultati scolastici che corrispondono alla sua intelligenza”, diceva una pubblicità dell’Adderall, in cui compariva una madre bionda e fotogenica che abbracciava il figlio biondo e fotogenico.

Le campagne pubblicitarie “confermavano che il disturbo era un fenomeno legato alla cultura dei consumi”, ha scritto l’ex giornalista del New York Times Alan Schwarz nel suo libro del 2016, Adhd nation, in cui racconta la creazione dell’epidemia statunitense. All’inizio del decennio scorso, il disturbo era diagnosticato quasi a un bambino su dieci. Conners era inorridito: aveva stimato che solo nel 2 o 3 per cento dei casi erano rispettati i criteri stabiliti per accertare la malattia, e pensava che l’etichetta fosse stata usata in modo improprio. Le conseguenze erano una medicalizzazione eccessiva e la creazione di un fiorente mercato nero di “farmaci stimolanti per studenti”, spesso usati con disinvoltura per aumentare la concentrazione di ragazzi semplicemente stanchi. Prima di morire, nel 2017, Conners definì la sovradiagnosi di adhd una “catastrofe nazionale di proporzioni pericolose”.

Uno dei suoi colleghi alla Duke university della North Carolina era Allen Frances, lo psichiatra che coordinò la quarta edizione del Dsm. Nel 2013 Frances ha pubblicato un libro intitolato Primo, non curare chi è normale, una “rivolta interna” che contestava il dilagante eccesso di diagnosi di adhd, per lo più spinte dalle aziende farmaceutiche. Come tutti quelli con cui ho parlato, Frances riteneva essenziale che le persone con i sintomi più gravi del disturbo fossero aiutate, anche con i farmaci, ma pensava che a troppi bambini fosse diagnosticato semplicemente perché è più facile dare medicinali che affrontare le vere cause di un problema: classi troppo affollate, un sistema educativo finalizzato agli esami e la pressione dei genitori.

Quanto dovremmo aspettarci che si concentri il bambino medio? Che cosa significa “iperattività” quando gli stili di vita dei bambini sono più sedentari che mai? Una serie di studi condotti negli Stati Uniti, in Danimarca e a Taiwan dimostra che in una classe è molto più probabile che l’adhd sia diagnosticato ai più piccoli rispetto ai compagni più grandi. “Stiamo trasformando l’immaturità in un disturbo medico”, sostiene Allen. Ha la sensazione che si scambi un problema educativo, cioè come si sostengono gli alunni nelle diverse fasi dello sviluppo, per una malattia psichiatrica individuale.

Secondo Frances, l’adhd condivide molti sintomi con altri disturbi comuni, come l’insonnia, la depressione e il disturbo bipolare. “Le diagnosi psichiatriche vanno di moda”, dice. “La natura umana è molto stabile, ma il modo in cui le persone interpretano l’angoscia è sfumato”. Pensa che l’adhd degli adulti sia diventato “l’ultima moda”, in parte perché i suoi tratti distintivi sono molto vari.

Joseph Geyer

La sindrome di un’era

È anche vero che è una condizione in cui la maggior parte delle persone può riconoscersi. Più ne leggevo, più avevo dubbi: sono disordinata, disorganizzata e mi distraggo facilmente. Quando ero a scuola sognavo a occhi aperti, e ho scritto questo pezzo a sprazzi, sentendomi in colpa, con almeno trenta pagine internet aperte sul mio computer. Sono malata? Ho completato un questionario online sull’adhd approvato dall’Oms, e il mio punteggio era abbastanza alto da giustificare una consulenza professionale.

Un’amica medica di base, molto scettica sul numero dei pazienti che di recente ha chiesto una diagnosi – tutte donne bianche, della classe media, apparentemente di successo – ha completato lo stesso questionario. Lo ha fatto una mattina prima di andare a lavorare, dopo che il porridge si era bruciato e il cavo del bollitore aveva preso fuoco. Aveva cominciato a chiedersi se questo livello di disattenzione fosse normale. Il questionario l’ha rassicurata sul fatto che era improbabile che avesse l’adhd.

Durante le ricerche per scrivere questo articolo, mi è stato ricordato un saggio virale della giornalista statunitense Anne Helen Petersen pubblicato su BuzzFeed nel 2019, poi diventato un libro intitolato Can’t even. How millennials became the burn­out generation. La sua descrizione della “paralisi del quotidiano” suona familiare a tutti i millennial (me compresa) che non riescono a gestire la loro vita: lasciano mail non spedite per mesi e bollette non pagate. Accumulano vestiti della taglia sbagliata comprati su internet perché non chiedono il reso in tempo. Petersen sostiene che questa paralisi del quotidiano è un sintomo del burnout (esaurimento) cronico che affligge le persone della sua generazione, molte delle quali non riescono a sfuggire alla precarietà finanziaria nonostante siano impegnate tutto il tempo, spesso in lavori monotoni e da scrivania.

Molto di ciò che Petersen attribuisce al burnout potrebbe anche essere interpretato come un sintomo dell’adhd. Forse qualcuno cerca una diagnosi a causa di aspettative culturali irrealistiche da realizzare? È più facile attribuire le proprie carenze organizzative a una condizione personale piuttosto che ammettere quanto è difficile vivere in questa società?

Da sapere
La diffusione dell’adhd in Italia

◆ L’adhd è un disturbo del neurosviluppo che può persistere anche in età adulta. È caratterizzato da disattenzione, impulsività e iperattività motoria e diagnosticarlo è un processo complesso, che può richiedere molto tempo. Secondo il Dsm-5, l’ultima versione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, per certificare un caso di adhd occorre riscontrare la compresenza di almeno sei sintomi della disattenzione e dell’iperattività nelle persone di età uguale o minore di sedici anni, mentre ne bastano solo cinque per chi ne ha compiuti diciassette. Anche se è considerato uno dei disturbi dell’età evolutiva più diffusi, ed è sempre più comune anche tra gli adulti, quantificare la sua reale prevalenza nella popolazione non è semplice. In Italia non esiste un database nazionale che permetta di stimare questi numeri, e i dati disponibili più recenti sono stati estrapolati grazie a dei sondaggi. Secondo un articolo pubblicato sull’Italian Journal of Pediatrics, che ha preso in considerazione quindici studi condotti su un totale di 67.838 persone in nove regioni del paese, la prevalenza dell’adhd nei giovani di età compresa tra i cinque e i diciassette anni è del 2,9 per cento, e il disturbo sembra molto più diffuso tra i ragazzi rispetto alle ragazze.


Nel libro del 2021 The sleeping beauties and other stories of mystery illness, la neurologa Suzanne O’Sullivan indaga sul ruolo della cultura e della società nelle malattie funzionali, attingendo a esempi come la “sindrome da rassegnazione”, lo stato simile a un coma che ha colpito dei figli di famiglie richiedenti asilo in Svezia minacciate di rimpatrio. Per loro l’unica cura è l’asilo permanente e, anche in quel caso, il processo di recupero è dolorosamente lento. O’Sullivan sostiene che ciò che è considerato un disturbo dell’attenzione è determinato culturalmente. Osserva, per esempio, che alcuni ricercatori hanno attribuito gli alti tassi di adhd a Hong Kong alla tendenza culturale a patologizzare la rabbia e le emozioni estreme. Condizionato dalla cultura è anche l’impulso a cercare una giustificazione medica, spesso l’unico modo per essere compresi in una società che promuove la resilienza, l’indipendenza e, sopra ogni cosa, il successo. “A volte la malattia indica che la vita che abbiamo scelto non è quella giusta, ma la cultura occidentale rende difficile riconoscerlo”, scrive O’Sullivan. “C’è una crescente tendenza a cercare un motivo patologico per spiegare perché le cose non funzionano”.

Si chiede se per chi mostra sintomi più lievi una diagnosi sia utile: un bambino in difficoltà ha bisogno di un’etichetta medica per ottenere comprensione, soprattutto se quell’etichetta condiziona la sua percezione della vita?

Dopo aver completato il questionario sull’adhd, mi sono chiesta se qualcuno dei miei tratti potesse essere considerato menomante e ho concluso che non lo era. Forse la mia vita sarebbe meno stressante se fossi più organizzata, ma il mio approccio caotico al quotidiano non mi impedisce di esercitare la mia professione né di avere una vita sociale. In seguito mi sono chiesta se una domanda migliore non fosse: cosa mi darebbe in più una diagnosi? Senza eccezioni, gli specialisti e le persone affette da adhd con cui ho parlato hanno respinto l’idea che si tratti di una malattia legata alla cultura o, per usare le parole di Frances, una “moda passeggera”. Ma non hanno negato che la cultura influisce, perché molti aspetti della vita moderna sono difficili da affrontare se si hanno i tratti dell’adhd.

Le foto
Sorry for the mess

Sorry for the mess è un progetto personale sulla salute mentale del fotografo statunitense Joseph Geyer, che per più di dieci anni ha documentato, attraverso l’autoritratto, la sua convivenza con l’adhd, l’ocd, l’ansia e la depressione. La serie pubblicata in queste pagine è nata dalla frustrazione di non riuscire a spiegare la propria condizione al marito, dal quale poi ha divorziato, ed esplora l’impatto dei disturbi mentali sulle relazioni interpersonali e sul rapporto con se stessi. Con le immagini, Geyer afferma di voler mostrare un problema reale che dall’esterno non si vede, come “un paio di calzini bagnati dentro un paio di scarpe asciutte”.


Una teoria popolare, presa da un libro del 1993 dello psicoterapeuta statunitense Thom Hartmann, è che le persone affette da questo disturbo sono cacciatori che vivono in un mondo di agricoltori. Sarebbero stati più a loro agio in una società di cacciatori-raccoglitori, dove si corrono più rischi e si è costretti a scrutare costantemente l’orizzonte alla ricerca di cibo o potenziali pericoli. Ma sono meno adatti alle società che valorizzano la pianificazione dettagliata e il lavoro metodico. Se sei più felice quando sei attivo, e sei facilmente distratto ma anche a volte ossessivamente concentrato, cosa c’è di più noioso che dover stare seduto davanti a uno schermo tutto il giorno? Rispondere alle email o inserire dati quando potresti inseguire le scariche di dopamina prodotte dai social network o scoprire ogni dettaglio di una notizia che stimola il tuo interesse?

Nel 2015 la Microsoft ha condotto un sondaggio sull’uso dei mezzi di comunicazione in Canada. È emerso che la durata media dell’attenzione era scesa dai dodici secondi del 2000 a otto, meno di quella di un pesce rosso. Ne hanno parlato quasi tutti i giornali, ma a un esame più attento la teoria non regge. Il campione di Microsoft era piccolo ed è difficile stimare la capacità di concentrarsi sulle attività del mondo reale in un laboratorio. Dopotutto, i nostri tempi di attenzione sono elastici e fluttuano in base all’interesse, all’umore e agli stati d’animo.

Eppure lo studio sui pesci rossi è stato accolto con interesse perché parlava di un’ansia culturale più ampia. Lo percepiamo ogni volta che passiamo sui social network tanto tempo usandoli come via di fuga dalla realtà: stiamo rinunciando alla nostra attenzione gratuitamente. Quando smetteremo di incolpare internet per tutti i nostri progetti incompiuti, e riconosceremo le nostre responsabilità?

Terapia
Un farmaco per giovani adulti
Prescrizioni di Adderall negli Stati Uniti per fasce d’età, migliaia (fonte: trilliant health)

Ambiente e cultura

Gli adulti affetti da adhd con cui ho parlato volevano smentire l’idea diffusa secondo cui erano tutti “ragazzacci irrequieti”, ma erano anche diffidenti nei miei confronti: avevo intenzione di usare questo articolo per sostenere che l’adhd non è reale? C’è sempre stata una forte corrente di scetticismo sulla diagnosi. Secondo alcuni non solo il disturbo è sovradiagnosticato, ma addirittura non esiste. Sarebbe un alibi per gli errori dei genitori, una scusa per avere tempo in più per sostenere gli esami o l’indennità di invalidità. Un pretesto per giustificare la pigrizia o solo una cattiva abitudine. Nel 2014, il neurologo statunitense Richard Saul ha pubblicato un libro dal titolo provocatorio: Adhd does not exist. Sostiene che i sintomi del disturbo possono avere decine di altre cause, dai problemi di vista al disturbo bipolare.

I negazionisti sottolineano la mancanza di marcatori biologici, problema che l’adhd condivide con la maggior parte dei disturbi studiati dalla psichiatria. Tendono a sminuire l’importanza di ciò che una diagnosi significa per una persona o le ragioni per cui è accolta con sollievo da chi ritiene che fotografi esattamente le proprie debolezze e i punti di forza. Alcuni pazienti che rifiutano tutte le altre etichette psichiatriche, come la schizofrenia o la depressione, hanno comunque accettato l’adhd come parte della teoria della neurodiversità, che incoraggia ad apprezzare le differenze cognitive e a chiedere alla società di essere più inclusiva.

Ma per essere reale o significativo ­l’adhd non ha bisogno di essere definito una condizione medica. Lo psicologo ungherese-canadese Gabor Maté è stato una delle prime e più importanti voci a sostenere che è piuttosto un problema sociale. È “una conseguenza fisiologica della vita in un particolare ambiente, in una particolare cultura”, sostiene nel libro del 1999 Scattered minds. Maté, che ora ha 78 anni, soffre di adhd come i suoi tre figli. La diagnosi lo ha aiutato a dare un senso alla sua disorganizzazione, alla maniacalità nel lavoro e al brutto carattere, problemi che ritiene derivino dalla paura di lasciare che la sua testa rimanga vuota. “Terrorizzato dalla mia mente, avevo sempre temuto di passare un momento da solo con lei. Doveva sempre esserci un libro in tasca come kit di emergenza nel caso in cui fossi stato costretto ad aspettare, anche solo un minuto, che si trattasse di una fila in banca o alla cassa del supermercato. Avevo sempre qualcosa per sfamare la mia mente, come se fosse una bestia feroce e malevola”, scrive.

Secondo Maté, qualcuno potrebbe anche essere geneticamente predisposto all’adhd, ma i fattori scatenanti sono lo stress del periodo infantile e l’insicurezza emotiva. Questa spiegazione oggi sembra troppo limitata, se si considera tutto quello che abbiamo imparato su altre potenziali cause. Ma ciò che rende affascinante la sua opera è l’interesse per il modo in cui la nostra vita emotiva condiziona la nostra capacità di prestare attenzione.

Quando scriveva non c’erano ancora i telefoni cellulari, ma la sua irrequietezza davanti a una fila è sicuramente familiare a chiunque pensi di avere l’adhd, o vorrebbe capire perché non può più guardare la tv senza scorrere Twitter, perché non può aspettare cinque minuti alla fermata dell’autobus senza armeggiare con il telefono, perché molla tutto nel momento in cui sente il suono di una notifica.

Da cosa ci nascondiamo quando rifiutiamo di concentrarci o di stare fermi? In un mondo progettato per distrarci, a che cosa vogliamo prestare davvero attenzione? ◆ bt

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Questo articolo è uscito sul numero 1496 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati