Tenendosi in equilibrio sulle scale della sua palafitta, ai margini della foresta di Can Gio, Sang Thi Phung, 39 anni, s’infila degli stivali di gomma. È uno dei rari momenti in cui non è scalza. “Qui basta fare qualche passo e la terra finisce. Metto le ciabatte solo quando torno sulla terraferma”, dice.

La casa di Sang è una stazione della guardia forestale sulle rive di uno dei fiumi che attraversano Can Gio, una grande foresta di mangrovie dichiarata dall’Unesco riserva della biosfera, a una quarantina di chilometri a sudest della città di Ho Chi Minh. I suoi piedi sono sporchi di argilla secca (l’acqua pulita è scarsa e le visite di estranei sono rare). L’acqua piovana che lei e il marito raccolgono in barili di plastica è appena sufficiente per le necessità quotidiane.

Le mangrovie di Can Gio, Vietnam, 2015 (Quang Nguyen Vinh, Getty Images)

Sang si dirige verso il sampan (una barca di legno) ormeggiato di fronte a casa, in attesa di una telefonata. Alla tettoia è appeso un vecchio telefono Nokia. È l’unico punto in cui c’è campo. Di fronte alla barca si estende una moltitudine di fiumi che attraversano trentamila ettari di mangrovie, apparentemente sterminate. In questa giornata senza vento, la natura è calma.

Alle otto del mattino nessuno ha ancora chiamato, il che significa che tutto sta andando liscio. Mentre si avvicina il rumore familiare di una barca a coda lunga, dall’altra parte del corso d’acqua argentato Sang scorge il nón lá (cappello vietnamita di paglia) rosa sgargiante di una sua collega, Lan Thi Truong, 42 anni. Lan, che dirige la cooperativa di guardie forestali di Can Gio, e Sang si ritrovano per dare il benvenuto a una nuova arrivata che si unirà a loro. Anche se tutte e tre sono cresciute vicino al fiume nessuna sa nuotare, quindi indossano i giubbotti di salvataggio. L’acqua si è alzata fino a coprire le radici delle mangrovie, è il momento giusto per cominciare il pattugliamento.

Manovrano la barca lungo il margine della foresta, facendosi strada attraverso ogni piccolo canale, mentre il giorno scivola via. Una volta che la barca è stata legata e le torce sono sopra loro teste, le tre donne cominciano ad addentrarsi nel cuore della foresta.

“Pattugliarla da sole fa abbastanza paura, per questo andiamo sempre in gruppo”, dice Sang. “Gli uomini sono più forti e vanno più veloci. Noi andiamo piano, quindi se non riusciamo a finire in un giorno, continuiamo il successivo, assicurandoci di non trascurare niente”.

Il prezzo dello sviluppo

Estesa su duemila chilometri quadrati, la città di Ho Chi Minh è nota per i cantieri onnipresenti e per la mancanza di spazi verdi. Uno degli ultimi rimasti, la foresta di mangrovie di Can Gio, ha un ruolo fondamentale per la vitalità e la sopravvivenza della città. A volte viene definita “il polmone verde” della città, ma non si limita a fornire aria pulita. Le mangrovie formano uno scudo che protegge quasi nove milioni di abitanti dai tifoni del mar Cinese meridionale, e filtrano le acque reflue delle aree industriali della città e delle zone vicine.

Con la metropoli che sprofonda ogni anno un po’ di più a causa dell’innalzamento del livello del mare, la foresta di Can Gio è oggi più importante che mai. Ma un progetto edilizio da nove miliardi di dollari, sostenuto dal più grande gruppo industriale vietnamita, il Vingroup, e approvato dal governo nel 2020, preoccupa scienziati e ambientalisti. A quanto se ne sa, il progetto di “un’area residenziale e turistica” da 28,7 chilometri quadrati a Can Gio prevede l’edificazione su terreni bonificati. Una petizione inviata al governo da una ventina di ambientalisti, scienziati e organizzazioni ha denunciato il possibile disastro ecologico nella zona. Ma l’amministrazione cittadina ha difeso il progetto, sostenendo che aiuterà lo sviluppo dell’area e porterà opportunità di lavoro.

La foresta è stata ripiantata principalmente da donne

Dopo essersi messa rossetto e fondotinta, Lan s’infila un nón lá a fiori ed è pronta per cominciare il suo giro nella foresta. “Anche se non vedo altro che alberi per tutto il giorno, voglio comunque essere bella”, dice stringendo la presa sul timone mentre la barca accelera.

Una vita isolata

La foresta di mangrovie ha una storia lunga scritta da donne. Lan, come altre guardie di seconda generazione, ha cominciato da bambina a seguire i suoi genitori nella foresta. Le famiglie portavano i figli con sé, preparandoli a una vita lontana dalla città. I suoi fratelli, una volta cresciuti, sono tornati sulla terraferma per vivere in città. Lan invece è rimasta nella foresta, dove oggi vive con il marito e alcuni dei loro figli.

I più grandi, non riuscendo a sopportare le difficoltà della vita nella foresta, sono andati a lavorare in città. Non ne potevano più: dover contare ogni singola goccia di acqua pulita; non poter caricare le batterie nelle giornate nuvolose perché l’elettricità è generata solo dai pannelli solari; di notte vedere in lontananza lo scintillio dei milioni di luci della città, mentre loro dipendono dalla fiamma di un’unica lampada a olio che sfarfalla nell’oscurità.

Lan capisce il desiderio dei suoi figli di andarsene. Quando aveva vent’anni anche lei pensava spesso di lasciare il suo lavoro. Si chiedeva come mai i suoi coetanei sulla terraferma erano più felici di lei, con degli amici con cui andare al bar e l’elettricità per vedere i film mentre lei era lì a trascorrere le giornate da sola. Oggi, però, Lan ha pochi dubbi sul fatto che continuerà a sorvegliare la foresta finché potrà. “È come sposarsi con qualcuno. Anni di vita nella foresta hanno intensificato il mio amore nei suoi confronti. Se le succedesse qualcosa di brutto, mi sentirei ferita anch’io”, spiega.

Mentre parla, Lan continua a remare abilmente, porta il sampan verso la terraferma e s’infila le ciabatte. Passeggia dalle parti del mercato, su strade di cemento piene di moto, rumore di clacson e traffico caotico, e si dirige verso la casa dei suoi genitori. In lontananza si sente un rumore di risate e qualcuno che canta una canzone cai luong (l’opera vietnamita). Poche ore dopo, Lan è già pronta a tornare a casa. “Sono troppo abituata a stare nella foresta. Passare anche solo un po’ di tempo lontano mi dà una strana sensazione”, spiega mentre torna alla barca. La sua speranza è lavorare come guardia forestale fino alla pensione. “Prima i miei genitori, poi io e mio marito, abbiamo sacrificato tutti i nostri anni di gioventù per prenderci cura di questo posto e proteggerlo. La nostra vita l’abbiamo passata tutta qui”.

Un giorno, nel 1978, durante la stagione delle piogge, in una palude così avvizzita che era difficile trovare anche una sola mangrovia, la madre di Lan, Nguyen Thi Don, aveva piantato una piantina di avicennia proveniente dalla punta meridionale del Vietnam. Come in altre foreste del paese, quasi 400 chilometri quadrati di flora a Can Gio erano stati spazzati via dall’agente arancio, l’erbicida sparso dall’esercito statunitense tra il 1961 e il 1971 sul Vietnam del sud per togliere ai combattenti nordvietnamiti la possibilità di nascondersi. La foresta era morta. Senza la protezione delle mangrovie, l’acqua salata si era insinuata dal mare raggiungendo la parte meridionale della città. In altre zone la scomparsa della foresta causò delle
frane.

Nel 1978, tre anni dopo aver preso il controllo della capitale meridionale, il Comitato popolare della città di Ho Chi Minh approvò un decreto per ripristinare l’ecosistema di Can Gio. Persone del posto, giovani e detenuti coinvolti in programmi di reinserimento furono coinvolti per ripiantare la foresta. Cinquecento abitanti di Can Gio, per lo più donne e bambini, si offrirono volontari. Sia i genitori di Sang sia quelli di Lan appartengono a quella generazione di pionieri.

Da sapere
La città del turismo

◆ Nell’agosto 2020 il governo vietnamita ha approvato un progetto residenziale e turistico da 9,3 miliardi di dollari nella riserva della biosfera di Can Gio, nella città di Ho Chi Minh, proposto da un’azienda del principale gruppo industriale privato del paese, la Vingroup. La Città del turismo di Can Gio si svilupperà su 2.870 ettari, in gran parte sottratti al mare, e dovrebbe essere completata nel 2031. Gli abitanti dell’area passeranno dagli attuali 70mila a 230mila, e si attendono nove milioni di turisti all’anno, con un grave impatto ambientale. Anche se nel cuore della foresta non si costruirà, l’ecosistema delle mangrovie è molto delicato e risente dei cambiamenti idrologici e della sedimentazione. Inoltre, i 130 milioni di metri cubi di sabbia necessari alla bonifica potrebbero essere presi dal delta del Mekong, che già soffre di cedimenti del suolo a causa dei prelievi di sabbia e di carenza di sedimenti dovuti alle dighe costruite lungo il suo corso. Nikkei Asia


Come capirono gli amministratori cittadini dell’epoca, ripristinare la foresta di Can Gio era fondamentale per la rinascita della nazione nel dopoguerra. Per le donne di Can Gio ripiantarla era un’opportunità per guadagnare del denaro in più con cui comprare il riso necessario a sfamare i figli. Allora, racconta Don, “eravamo tutti poveri e nessuno aveva abbastanza da mangiare. Prima gli uomini andavano a pescare, mentre le donne rimanevano a casa a occuparsi dei bambini. Ma quando la città ha avviato l’opera di rimboschimento eravamo entusiaste perché potevamo guadagnare dei soldi e portare i nostri figli con noi”.

Coordinarsi con le maree

Decenni dopo, questi 300 chilometri quadrati di foresta rappresentano un miracolo. All’inizio degli anni settanta, alcuni biologi statunitensi stimarono che ci sarebbero voluti “cento anni per ripristinare l’ecosistema della foresta di mangrovie di Can Gio”, racconta Cuong Dinh Nguyen, l’ex capoufficio del servizio forestale della città di Ho Chi Minh. “Sarebbe stato impossibile senza le donne di Can Gio. In una giornata di lavoro tre o quattro uomini non sarebbero efficienti quanto una sola donna”.

Hai Minh Nguyen, membro del consiglio d’amministrazione di Can Gio, ricorda ancora le immagini delle donne curve, con i loro nón lá in testa, che piantano nel fango le mangrovie: “Grazie al loro fisico minuto le donne riuscivano a muoversi nel fango più velocemente degli uomini. La foresta è stata ripiantata principalmente da loro”.

Chi partecipò alla rimboschimento lo fece tenedo conto delle maree, lavorando giorno e notte, con la pioggia o con il sole. Mangiava riso misto a sorgo, camminava immerso nel fango che arrivava alle cosce, e si graffiava le gambe con i rovi. Anche quando gli alberi erano ormai cresciuti, molti decisero di rimanere per proteggerli dai tagliaboschi abusivi. Nel 2000 l’Unesco ha inserito la foresta di Can Gio nella rete mondiale di riserve della biosfera. ◆ ff

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1442 di Internazionale, a pagina 62. Compra questo numero | Abbonati