02 settembre 2016 13:48

Indipendentemente dal fatto che Islom Karimov, l’uomo che ha guidato l’Uzbekistan con incredibile brutalità negli ultimi 27 anni, sia vivo o morto, il suo regno sta praticamente giungendo al termine. Sono due gli interrogativi che ora serpeggiano nel suo sfortunato paese. Chi prenderà il suo posto? La situazione migliorerà? Tra i cinque regimi postsovietici dell’Asia centrale, l’Uzbekistan ha la fama di essere il più duro e il suo leader è considerato il più spietatamente paranoico.

Il 29 agosto la notizia della morte di Karimov si è diffusa in maniera virale tra gli utenti centroasiatici di Twitter, dopo essere stata annunciata, senza citare le sue fonti, da Ferghana News, un’agenzia stampa indipendente con sede a Mosca e che si occupa della regione. Le voci sull’imminente decesso del presidente, che ha 78 anni, circolano da anni a Tashkent, ma stavolta sembravano più fondate.

Nel suo primo annuncio ufficiale sulla salute del presidente, il regime, noto per la sua riservatezza, ha ammesso che Karimov si trovava in ospedale per problemi non meglio precisati. Sua figlia, Lola Karimova-Tillyaeva si è poi fatta viva su Instagram, rivelando che suo padre era stato vittima di un’emorragia cerebrale. Le sue condizioni, ha detto, erano stabili e la prognosi riservata. Il governo non ha ancora reagito alle notizie relative alla morte del presidente.

Manovre nell’ombra
E se dovesse morire, cosa succederà? Karimov non ha mai reso pubblico un progetto di transizione se dovesse finire il suo regime, cominciato nel 1989, quando il Cremlino lo ha nominato capo dell’Uzbekistan. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, è diventato presidente di uno stato indipendente. Karimov si è mantenuto al potere grazie a elezioni truccate – nel 2015 è stato apparentemente rieletto con il 90 per cento dei voti – e reprimendo senza pietà il dissenso. Nel 2005 le sue forze di sicurezza uccisero alcuni manifestanti nella città di Andijan. Il conto ufficiale è stato di 187 vittime, anche se gli osservatori indipendenti citano cifre comprese tra i trecento e i mille morti. La tortura è diffusa

Sono anni che i clan dell’Uzbekistan manovrano nell’ombra in vista della successione, decisi a conservare i privilegi economici accumulati durante il lungo regime di Karimov. A meno che non siano già stati presi accordi segreti, è probabile che le lotte di potere aumenteranno d’intensità e che alcune potenze straniere cercheranno d’intromettersi. La Russia, l’ex potenza coloniale, sarà ansiosa di riaffermare i suoi interessi in quello che il Cremlino considera un suo distretto all’estero. La Cina, con un approccio più commerciale, vorrà garantire le sue importazioni di gas. E gli Stati Uniti continueranno a corteggiare l’Uzbekistan, considerandolo un suo alleato nella lotta al terrorismo, consapevole del confine che il paese condivide con l’Afghanistan.

Il paese è in fallimento, piagato dalla corruzione e gestito con modalità sovietiche

La primogenita del presidente, Gulnara Karimova, è stata educata con l’idea di ereditare la corona paterna, ma qualche anno fa è caduta clamorosamente in disgrazia, lasciando la famiglia segnata dagli scandali. Nel 2014 è stata messa agli arresti domiciliari a Tashkent ed è probabile che ora attenda di conoscere il suo destino in un’eventuale era post-Karimov. Ma la presidenza potrebbe comunque rimanere in famiglia, grazie alla più giovane delle figlie del presidente, Lola, nemica giurata di Gulnara, anche se è convinzione diffusa che la donna e suo marito, l’imprenditore Timur Tillyaev, non facciano parte dell’élite dirigente.

Chi ha maggiori possibilità sono due “insider” di lunga data: il primo ministro Shavkat Mirziyoyev e Rustam Azimov, il suo vice, anche se alcuni dicono che quest’ultimo sia stato arrestato. Altri sostengono che la decisione finale spetterà a Rustam Inoyatov, capo del servizio di sicurezza nazionale, l’istituzione più potente e temuta del paese, che potrebbe anche fare emergere un candidato meno noto.

Chiunque gli succederà, Karimov lascia un’eredità complicata. Anche se l’Uzbekistan è il più popoloso degli stati centroasiatici (ha 31 milioni d’abitanti), anche se possiede molte riserve di minerali e un tempo era considerato il più promettente, ormai è in fallimento, piagato dalla corruzione e gestito con modalità sovietiche. Il mercato nero è fiorente. Gli investitori stranieri sono spaventati da una lunga tradizione di espropriazioni di beni. Il denaro proveniente dalle esportazioni di gas, oro e cotone (raccolto da milioni di lavoratori forzati ogni anno) arricchisce le tasche di poche persone corrotte, mentre gli uzbechi comuni fanno fatica a tirare avanti. Tanti dipendono dalle rimesse di chi è emigrato in Russia, ma anche queste sono in calo a causa della recessione nel paese.

Il dissenso al guinzaglio
Il successore di Karimov erediterà anche una storia di violazioni dei diritti umani tra le più atroci al mondo. L’opposizione politica e i mezzi d’informazione indipendenti sono vietati. Nelle prigioni ci sono circa diecimila prigionieri politici. Anche se gli uzbechi in maggioranza sono laici e praticano una forma d’islam tollerante, l’estremismo sta crescendo a causa della repressione di qualsiasi forma d’opposizione religiosa. Si ritiene che centinaia di uzbechi combattano nelle file del gruppo Stato islamico in Siria e Iraq. Un cittadino uzbeco figura tra i sospetti attentatori che hanno colpito l’aeroporto di Istanbul a giugno.

Per un quarto di secolo Karimov ha tenuto il dissenso al guinzaglio. Chiunque arriverà dopo di lui si troverà di fronte a una scelta poco invidiabile. Potrà usare gli stessi metodi brutali per tamponare il fiume di malcontento che potrebbe esplodere dopo la sua morte. Oppure potrebbe allentare un po’ il controllo, rischiando di essere spazzato via dalla rabbia popolare. Tanti analisti sono pessimisti. “Il sistema costruito da Karimov può sopravvivergli, riproducendosi indipendentemente da chi sarà il prossimo capo”, secondo Daniil Kislov, caporedattore di Ferghana News. “Non ci sarà alcuna distensione”.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sull’Economist.

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