03 giugno 2021 16:13

Il 24 gennaio 2020 tre nuclei familiari, per un totale di 21 persone, hanno pranzato in un ristorante di Guangzhou alla vigilia del capodanno cinese. Nella sala erano stati aggiunti diversi posti a sedere per accogliere un numero di avventori superiore alla norma. Le tre famiglie erano posizionate in tavoli molto vicini lungo una parete di una sala senza finestre. La famiglia più numerosa – dieci persone arrivate la sera prima da Wuhan – si è accomodata intorno al tavolo centrale. Poche ore dopo, uno dei commensali (in giallo nello schema) si è sentito male, manifestando febbre e tosse. In ospedale gli è stato diagnosticato il covid-19. Nell’arco di due settimane è arrivata la conferma del contagio di dieci persone (nello schema sono segnate con un cerchio rosso) su ventuno.

La sistemazione dei tre tavoli coinvolti

Le famiglie coinvolte non si erano mai incontrate tra loro, e le immagini video mostrano che non sono mai venute a contatto durante il pranzo. Un’analisi iniziale del Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie infettive di Guangzhou ha ipotizzato che il virus si fosse diffuso attraverso i droplet respiratori. Tuttavia la tradizione medica ritiene che i droplet – definiti come particelle con un diametro compreso tra i 5 e i 10 micrometri, cioè millesimi di millimetro, espulse attraverso la respirazione – non possano viaggiare per più di un paio di metri dopo l’esalazione, mentre alcune delle persone contagiate durante il pranzo erano posizionate a distanza indiscutibilmente maggiore rispetto al paziente zero.

La dinamica del contagio sembrava non avere senso. Com’era possibile che una singola persona infetta avesse trasmesso il virus ad altri nove individui nell’arco di appena un’ora e senza un contatto diretto?

Il focolaio del ristorante di Guangzhou è stato il primo evento “superdiffusore” registrato durante il corso della pandemia. Secondo una definizione generica, la superdiffusione si verifica quando una singola persona ne infetta molte altre in un breve lasso di tempo. Fino a oggi sono stati registrati più di duemila casi di questo tipo, in luoghi estremamente vari, dai mattatoi alle megachiese, dai centri benessere ai locali notturni. Molti scienziati sostengono che questi eventi siano il mezzo di diffusione principale del covid-19.

Affrontando l’enigma degli eventi superdiffusori, i ricercatori hanno dovuto rivedere le proprie conoscenze in merito alla trasmissione del sars-cov-2. La maggior parte di questi eventi si è verificata al chiuso, con la presenza di grandi gruppi in spazi scarsamente ventilati. Questo lascia pensare che il sars-cov-2 si sposti agevolmente nell’aria e contraddice la convinzione iniziale secondo cui i rischi principali sarebbero stati rappresentati dagli incontri ravvicinati e dalle superfici contaminate.

Tutto ciò suggerisce quindi che l’attenzione alla buona ventilazione sarà fondamentale nella gestione della prossima fase della pandemia, quando le persone torneranno a incontrarsi nelle case, negli uffici, nelle palestre, nei ristoranti e in altri spazi chiusi.

Consigli sbagliati
È trascorso molto tempo prima che gli esperti di salute pubblica ammettessero che il covid-19 si diffonde principalmente nell’aria. Il distanziamento fisico e l’uso delle mascherine sono stati consigliati con l’obiettivo di ostacolare la trasmissione diretta a corto raggio attraverso i droplet, il muco o la saliva degli individui infetti. La convinzione era che il principale rischio di contagio indiretto non fossero i droplet trasportati per lunghe distanze dalle correnti d’aria ma la loro presenza sulle superfici, su cui il virus può sopravvivere per ore se non giorni. Chiunque toccasse una superficie infetta poteva portare il virus nella bocca, nel naso o negli occhi attraverso le dita. Tutto questo avrebbe senso se il sars-cov-2 si diffondesse come fa l’influenza, ovvero l’ipotesi corrente nel marzo 2020, quando l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) dichiarò l’inizio della pandemia di covid-19. Da questa tesi derivava il consiglio a disinfettare le superfici e lavarsi spesso le mani.

Già all’epoca i medici sapevano che non tutti i droplet respiratori precipitano rapidamente al suolo. Quelli più piccoli di cinque micron possono diventare aerosol, fluttuando per ore e spostandosi per distanze di gran lunga maggiori rispetto ai droplet, o semplicemente accumulandosi nell’aria all’interno di uno spazio chiuso. Chiunque inali questi aerosol rischia di infettarsi. Ma finora tutto questo non era ritenuto importante perché era diffusa la convinzione che gli aerosol fossero rilevanti soltanto negli ambienti ospedalieri dove i pazienti sono collegati a un respiratore all’interno di un’unità di terapia intensiva. L’intubazione crea effettivamente aerosol, perché il tubo è inserito nella trachea del paziente. Tuttavia si pensava che il rischio non superasse le mura degli ospedali. Per questo motivo l’Oms ha sminuito la minaccia rappresentata dagli aerosol, pubblicando alla fine di marzo del 2020 un messaggio su Facebook e Twitter in cui invitava la popolazione a non preoccuparsi. “FATTO: il #COVID19 NON è trasportato dall’aria”, si leggeva nel messaggio, e qualsiasi tesi diversa veniva bollata come “disinformazione”:

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Eppure i ricercatori al di fuori dell’ambito medico, soprattutto quelli che studiano la fisica delle particelle nell’aria, erano convinti che gli indizi puntassero in un’altra direzione. Il focolaio del ristorante di Guangzhou è stato un campanello d’allarme. Più o meno nello stesso periodo, a 1.300 chilometri di distanza, a Ningbo, 23 dei 68 passeggeri di un autobus dotato di un sistema di riciclo dell’aria sono stati infettati durante un tragitto di un’ora e mezza. Il peggior evento superdiffusore nella fase iniziale della pandemia si è verificato negli Stati Uniti, in occasione delle prove di un coro a Skagit Valley, nello stato di Washington, nel marzo del 2020. Delle 61 persone presenti durante una sessione di due ore e mezza, 53 sono state infettate. In tutti i casi citati le ricerche hanno dimostrato che gli infetti non erano necessariamente i più vicini al paziente zero, come ci si aspetterebbe se la trasmissione fosse avvenuta attraverso i droplet o le superfici di contatto.

Niente di tutto questo ha sorpreso Lidia Morawska, fisica della Queensland University of Technology di Brisbane, in Australia. Morawska ha dedicato gran parte della sua carriera allo studio dell’inquinamento causato dai particolati (come lo smog e la polvere) e dell’impatto dell’inquinamento sulla qualità dell’aria. Dopo i primi focolai di sars, nel 2003, Morawska ha avviato alcuni esperimenti per analizzare il modo in cui le particelle respiratorie vengono generate nella gola e poi trasportate nell’aria.

Morawska ha dimostrato che la convinzione corrente della comunità medica è sbagliata. Dato che il respiro esalato è una nube di aria umida, calda e turbolenta, un droplet di cinque micron rilasciato a un metro e cinquanta di altezza (la distanza media tra il terreno e la bocca e il naso di una persona) può facilmente essere trasportato per una decina di metri prima di depositarsi. Inoltre la generazione di particelle respiratorie non è limitata agli ambienti ospedalieri. Le gocce di liquido di ogni dimensione – comprese quelle definite come aerosol – vengono continuamente espulse quando le persone respirano, parlano, starnutiscono o cantano.

Nel luglio del 2020 Morawska voleva portare il suo lavoro all’attenzione delle istituzioni responsabili per la salute pubblica, e così ha riunito un gruppo di 36 esperti di aerosol e qualità dell’aria. Il gruppo ha scritto una lettera aperta in cui ha presentato le prove della possibile trasmissione attraverso gocce di liquido di dimensioni ridotte e ha invitato l’Oms a cambiare orientamento sulla trasmissione aerea. “Chiediamo alla comunità medica e alle organizzazioni nazionali e internazionali di riconoscere il potenziale di una diffusione aerea del covid-19”, si legge nella lettera pubblicata da Clinical Infectious Diseases. “Esiste un potenziale significativo di esposizione al virus attraverso l’inalazione di microscopici droplet respiratori (microdroplet) a distanza breve e media (fino a diversi metri). Caldeggiamo l’adozione di misure preventive per mitigare questa trasmissione aerea”. La lettera è stata firmata da più di duecento altri ricercatori provenienti da 32 paesi. Uno dei firmatari è Jose-Luis Jimenez, chimico atmosferico dell’università di Chicago a Boulder. Jimenez ritiene che la confusione negli ambienti medici sull’importanza della trasmissione aerea del sars-cov-2 possa risalire ai manuali di medicina che contengono ancora descrizioni datate della produzione e del movimento delle particelle respiratorie.

Il distanziamento sociale e l’igiene personale, per quanto importanti, non sono sufficienti a fermare la diffusione aerea di un virus

Resta il fatto che la tesi diffusa (e ostinatamente sostenuta dall’Oms) secondo cui i droplet più grandi di cinque micron non fluttuano nell’aria ma si depositano nei pressi della fonte è una base instabile su cui fondare istruzioni relative alla salute pubblica. Secondo Jimenez, i fisici hanno dimostrato che qualsiasi particella inferiore ai cento micron può fluttuare se si presentano le circostanze adatte. Tutto questo ha una rilevanza consistente, perché il distanziamento sociale e l’igiene personale, per quanto importanti, non sono sufficienti a fermare la diffusione aerea di un virus, specialmente al chiuso. Le mascherine contribuiscono rallentando e filtrando parzialmente le esalazioni di una persona infetta, ma per mantenere sicuri uffici, scuole, ospedali, case di cura e tutti gli altri ambienti è necessario migliorare la ventilazione.

Grazie alla pressione esercitata dai fisici, di recente l’Oms ha riconosciuto che una migliore ventilazione è consigliabile per prevenire la diffusione del covid-19. A marzo l’organizzazione ha pubblicato una roadmap in proposito, ma il documento non ha riconosciuto adeguatamente il pericolo della trasmissione aerea e dunque la necessità di controllarla. Nonostante prove schiaccianti del contrario, l’Oms continua a sostenere che il sars-cov-2 si diffonda “tra le persone principalmente quando un individuo infetto si trova in contatto ravvicinato con un altro individuo”.

Altri stanno agendo in base alle nuove conoscenze sulle modalità di trasmissione. L’ingegnere chimico Martin Bazant e il matematico John Bush, entrambi del Massachusetts Institute of Technology, hanno trovato il modo di calcolare l’arco di tempo in cui è possibile restare in una stanza insieme a un contagiato senza correre troppi rischi. I due ricercatori hanno descritto il loro modello in un articolo pubblicato recentemente sui Proceedings of the National Academy of Sciences.

Applicando il modello a una tipica aula statunitense con 19 alunni e un insegnante, il periodo di permanenza “sicuro” dopo l’ingresso di un individuo infetto in uno spazio ventilato in modo naturale (ovvero il tempo che trascorre prima che il rischio di contagio sia inammissibilmente alto) è di 72 minuti. Questo arco di tempo può essere prolungato in due modi: il primo è quello di effettuare una ventilazione meccanica della stanza, portando il periodo di sicurezza a 7,2 ore; il secondo è l’uso di mascherine da parte di tutti i presenti, che porta il tempo di sicurezza a 80 ore, ovvero quasi 14 giorni se consideriamo una giornata scolastica di sei ore. Se aggiungiamo i fine settimana, ne risulta che una classe in cui tutti portano la mascherina sarebbe al sicuro per un arco di tempo superiore a quello che serve a guarire dal covid-19, ovvero una o due settimane. Di conseguenza la trasmissione all’interno delle scuole, prendendo le dovute precauzioni, diventerebbe estremamente rara.

È necessario precisare che il modello ha ipotizzato una classe con conversazioni, attività fisica e canto ridotti al minimo. Ma è altrettanto vero che le ore di gioco o sport si svolgono solitamente all’esterno e quelle di canto potrebbero essere spostate all’aperto. Per quanto riguarda le conversazioni, infine, gli insegnanti saranno ben felici di avere un motivo incontestabile per dire agli alunni di fare silenzio in classe.

Strumenti utili
I rischi di infezione non sono sempre distribuiti in modo uniforme all’interno di una stanza. Jiarong Hong, ingegnere meccanico dell’università del Minnesota a Minneapolis, ha usato un modello computerizzato per studiare il modo in cui gli aerosol si diffondono in un’aula in base al posizionamento di un individuo infetto e delle prese d’aria. Presumendo che la persona infetta sia l’insegnante, e che dunque emetta aerosol carichi di virus in direzione degli alunni, il modello di Hong indica che posizionando un purificatore dell’aria o un aspiratore tra la cattedra e i banchi si creerebbe un flusso d’aria che impedirebbe il movimento degli aerosol verso gli alunni. Un effetto di “pulizia” degli aerosol ancora migliore è ottenibile quando i ventilatori e i filtri sono posizionati in alto, approfittando dell’innalzamento dei pennacchi d’aria creati dal calore corporeo, motivo per cui gli aerosol tendono a fluttuare verso l’alto. Il modello di Hong mostra che anche i ventilatori più economici, se piazzati in questo modo, sarebbero molto utili per prevenire la concentrazione di aerosol a livelli pericolosi.

Hong ha modellato anche il flusso d’aria nel ristorante di Guangzhou dove è esploso un focolaio a gennaio del 2020, riscontrando che i movimenti degli aerosol carichi di virus tra le tre famiglie combaciavano con la posizione dei commensali poi risultati infetti. Il focolaio è esploso perché non esisteva una fonte di aria fresca esterna, mentre un vicino condizionatore riciclava l’aria redistribuendo gli aerosol dalla persona infetta agli altri tavoli, creando nel corso del pranzo una bolla d’aria contaminata sempre più carica di virus.

Louisville, Kentucky, 17 marzo 2021. (Jon Cherry, Getty Images)

Questo significa che il rischio è reale. Ma come può un occupante di una stanza sapere se è ben ventilata? Il fatto che una stanza appaia spaziosa e sia in funzione un condizionatore non significa che l’aria sia pulita.

Su questo aspetto Morawska ha un suggerimento. In un esperimento (non scientifico) condotto l’anno scorso, la ricercatrice ha usato un misuratore di anidride carbonica in un ristorante situato vicino alla sua abitazione, in una sala di grandi dimensioni, con i soffitti alti e l’aria condizionata in funzione. Le concentrazioni di CO2 possono essere un indicatore utile della qualità dell’aria. L’aria esterna contiene circa 400 parti per milione (ppm) del gas, mentre le esalazioni degli esseri umani contengono circa 40mila ppm. Respirare in una stanza, di conseguenza, aumenta la concentrazione di CO2, a meno che non ci sia un sistema di ventilazione sufficiente per rimuovere l’eccesso. Secondo gli esperti di qualità dell’aria, qualsiasi dato inferiore a 500 ppm all’interno di una stanza è accettabile. A 800 ppm l’1 per cento dell’aria respirata da un individuo è stata già esalata da qualcun altro. A 4.400 ppm la percentuale sale al 10 per cento, un livello definito come pericoloso. Cifre di questo tipo si registrano soltanto in spazi affollati con scarsa circolazione d’aria. Per mantenere basso il rischio di diffusione del sars-cov-2 i livelli di CO2 dovrebbero restare ben al di sotto dei 700 ppm.

Quando Morawska ha condotto il suo esperimento, all’interno del ristorante c’erano dieci persone, molte meno rispetto alla norma. La concentrazione di CO2 era comunque di 1.000 ppm nel momento in cui è entrata nella sala. Nell’arco di un’ora i livelli hanno raggiunto i 2.000 ppm. “Da quel momento siamo rimasti seduti per un’altra ora. Dunque se all’interno del ristorante ci fosse stata una persona infetta avrebbe potuto rappresentare un problema”.

Per quanto aneddotico, questo esperimento rileva un chiaro rischio, che va oltre il covid-19. Alla scarsa ventilazione, infatti, è legata una vasta gamma di sintomi: mal di testa, stanchezza, fiato corto, irritazione cutanea, capogiri, nausea. Inoltre la scarsa qualità dell’aria è stata inserita tra le cause dell’assenza dal lavoro e della scarsa produttività.

Le misure necessarie per migliorare la situazione non sono complesse, ma i regolamenti e gli standard in vigore hanno spesso obiettivi diversi, a cominciare dal mantenimento del calore per ridurre i consumi di energia. Spesso, però, questo significa far ricircolare l’aria anziché cambiarla con aria fresca proveniente dall’esterno (gli aerei passeggeri, con il loro ricambio frequente, rappresentano un’eccezione).

In situazioni in cui non è possibile ridurre i rischi sanitari unicamente attraverso la ventilazione (per esempio in luoghi come i locali notturni, dove gli avventori sono a stratto contatto, o in palestra, dove le persone respirano pesantemente) il filtraggio dell’aria potrebbe facilmente essere incorporato nei sistemi di ventilazione. L’aria potrebbe inoltre essere disinfettata usando lampade germicide a luce ultravioletta all’interno dei sistemi di condizionamento dell’aria o al livello dei soffitti delle stanze.

I governi devono introdurre standard completi per la qualità dell’aria al chiuso, proteggendo la salute delle persone

E poi c’è la sensibilizzazione. “Prima della pandemia era socialmente accettabile presentarsi in ufficio tossendo, starnutendo e diffondendo vari virus in giro”, sottolinea Morawska. “Nessuno avrebbe battuto ciglio, nemmeno le persone consapevoli di come si trasmette un’infezione”.

Secondo la ricercatrice questa noncuranza dev’essere corretta. L’Oms deve riconoscere la necessità di controllare i patogeni aerei, mentre i governi devono introdurre standard completi per la qualità dell’aria al chiuso, proteggendo la salute delle persone. Un modo per garantire il rispetto di queste misure potrebbe essere l’emissione di certificati di ventilazione simili a quelli igienici e alimentari già richiesti ai ristoranti. Morawska aggiunge che le persone che si trovano in uno spazio chiuso dovrebbero ricevere informazioni frequenti sulla qualità dell’aria attraverso monitor e sensori che mostrino i livelli di CO2 e altri dati rilevanti.

Seguire queste indicazioni nella costruzione di nuovi edifici non dovrebbe essere molto costoso, ma lo sarebbe senz’altro sostituire i sistemi di ventilazione esistenti. In ogni caso il prezzo da pagare sarebbe irrisorio rispetto a quello imposto finora dal covid-19. Inoltre se i miglioramenti della qualità dell’aria negli ambienti di lavoro riducessero le assenze e migliorassero la produttività, i costi potrebbero essere bilanciati. “Anche se resta da condurre un’analisi dettagliata dal punto di vista economico”, ha scritto Morawska in un numero recente di Science, “le prove raccolte suggeriscono che controllare le infezioni aeree costerebbe meno che affrontarne le conseguenze”.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è stato pubblicato dall’Economist.

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