03 ottobre 2018 12:57

Il 2 ottobre la corte d’appello di Istanbul ha confermato la condanna all’ergastolo per sei sospettati di terrorismo, tra cui i giornalisti Ahmet e Mehmet Altan, arrestati nel settembre del 2016. L’accusa per tutti è di aver tentato di rovesciare l’ordine costituzionale e di avere legami con l’organizzazione gulenista Fetö, che Ankara ritiene responsabile del fallito golpe del luglio 2016. Dal carcere Ahmet Altan ha scritto alcune memorie raccolte nel libro Non rivedrò più il mondo (Solferino). Eccone un estratto.

“Un oggetto in movimento non si trova né dove è, né dove non è”, sostiene Zenone nel suo famoso paradosso. Fin da ragazzo ho pensato che questo paradosso si addica più alla letteratura o agli scrittori che alla fisica.

Scrivo queste parole da una cella in carcere.

Aggiungete le parole “Scrivo queste parole da una cella in carcere” a qualsiasi racconto e aggiungerete tensione e vitalità, una voce inquietante che arriva da un mondo buio e misterioso, la resistenza coraggiosa di una persona fortemente svantaggiata e una mal dissimulata richiesta di pietà.

È una frase pericolosa, che si può usare per sfruttare i sentimenti delle persone. E gli scrittori non sempre evitano di usare le frasi in modo da asservirle ai loro interessi, quando c’è in gioco la possibilità di toccare i sentimenti delle persone. Capire che questa è la loro intenzione può essere sufficiente perché il lettore provi pietà per l’autore di quella frase.

Ma aspettate. Prima di suonare le trombe della pietà nei miei confronti, ascoltate quello che ho da dirvi.

Sì, sono una persona chiusa in un carcere di massima sicurezza in mezzo al deserto.

Sì, sono chiuso in una cella la cui porta si apre e si chiude con uno sferragliare di metallo.

Sì, mi passano i pasti attraverso un buco in mezzo alla porta.

Sì, perfino la sommità del cortile di pietra in cui cammino su e giù è coperta da una gabbia di acciaio.

Sì, non ho il permesso di vedere altre persone che non siano i miei avvocati e i miei figli.

Sì, mi è vietato spedire anche solo due righe ai miei cari.

Sì, ogni volta che devo andare in ospedale prendono delle manette da un mucchio di ferraglia e me le infilano ai polsi.

Sì, ogni volta che mi tirano fuori dalla cella ordini come “alza le braccia, togliti le scarpe” mi colpiscono come schiaffi.

Tutto questo è vero, ma non è tutta la verità.

Loro avranno anche il potere di mettermi in carcere, ma nessuno ha il potere di tenermi in carcere

Nelle mattine d’estate, quando i primi raggi del sole passano tra le nude sbarre della finestra e colpiscono il mio cuscino come lame di luce, sento i canti gioiosi degli uccelli di passo che hanno fatto il nido sotto le volte del cortile, e gli strani scricchiolii prodotti dai passi dei prigionieri negli altri cortili, come se schiacciassero sotto ai piedi bottiglie d’acqua vuote.

Mi sveglio con l’impressione di vivere ancora nella villa con giardino della mia infanzia o, per chissà quale ragione, e davvero ignoro la ragione di questo fatto, in uno di quegli alberghi affacciati sulle garrule strade francesi nel film Irma la dolce.

Quando mi sveglio con la pioggia d’autunno che cade sulle sbarre della finestra, sopportando la furia dei venti settentrionali, inizio la giornata sulle rive del Danubio, in un albergo con delle torce sulla facciata che vengono accese ogni sera. Quando mi sveglio col sussurro della neve che penetra dalle sbarre della finestra, in inverno, incomincio la giornata nella dacia con la finestra sulla facciata in cui ha trovato rifugio il dottor Živago.

Finora non mi sono mai svegliato in carcere, neanche una volta.

Di notte, le mie avventure sono animate da un’attività ancora maggiore. Vago fra le isole della Thailandia, gli hotel di Londra, le strade di Amsterdam, i segreti labirinti di Parigi, i ristoranti sulla costa di Istanbul, i piccoli parchi nascosti fra le vie di New York, le cittadine dell’Alaska con le loro strade innevate.

Potete incontrarmi lungo i fiumi dell’Amazzonia, sulle spiagge del Messico, nelle savane africane. Parlo tutto il giorno con persone che nessuno vede e sente, persone che non esistono e non esisteranno fino al giorno in cui io ne parlerò. Le ascolto mentre conversano fra loro. Vivo i loro amori, le loro avventure, le loro speranze, preoccupazioni e gioie. A volte rido camminando nel cortile perché origlio le loro conversazioni, che sono piuttosto divertenti. Non voglio fissarle sulla carta in carcere, perciò scrivo tutto questo nelle pieghe del mio cervello, con l’inchiostro della memoria.

So di essere uno schizofrenico, finché queste persone restano nella mia mente. So anche di essere uno scrittore, quando queste persone si trovano infine sulle pagine di un libro. Provo piacere nell’oscillare tra schizofrenia e letteratura. Salgo come fumo e lascio il carcere con queste persone che esistono nella mia mente. Loro avranno anche il potere di mettermi in carcere, ma nessuno ha il potere di tenermi in carcere.

Sono uno scrittore.

Non mi trovo né dove sono, né dove non sono.

Dovunque mi rinchiudiate, io viaggerò per il mondo sulle ali infinite della mia mente.

Inoltre ho amici in tutto il mondo che mi aiutano a viaggiare: la maggior parte non li ho mai incontrati.

Ogni occhio che legge quello che ho scritto, ogni voce che ripete il mio nome, mi tiene la mano come una piccola nuvola e mi fa volare sulle pianure, le sorgenti, le foreste, i mari, le città e le loro strade.

Viaggio per tutto il mondo da una cella in carcere.

Come potete ben capire, io possiedo un’arroganza divina; non lo si ammette spesso, ma è propria degli scrittori ed è passata di generazione in generazione da migliaia di anni. Io possiedo una sicurezza che cresce come una perla fra le robuste valve della letteratura. Io possiedo una immunità garantita dall’armatura di acciaio dei miei libri.

Scrivo queste parole da una cella in carcere.

Ma non sono in carcere.

Sono uno scrittore.

Non mi trovo né dove sono, né dove non sono.

Potete mettermi in carcere, ma non potete tenermi in carcere.

Io faccio una magia. Passo attraverso i muri.

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Questo articolo è un estratto del libro Non rivedrò più il mondo (Solferino)

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