18 novembre 2017 10:11

Sullo schermo sospeso al soffitto, i due uomini con i capelli bianchi agitano la mano per salutare e mandano baci. Ahmet e Mehmet Altan sono in videoconferenza dalla loro prigione e rispondono ai segni di saluto mandati da una parte del pubblico in direzione della telecamera, un breve momento di umanità “rubato” ai giudici e alle guardie che fanno regnare l’ordine nella minuscola aula del palazzo di giustizia di Istanbul.

Ahmet e Mehmet Altan, due fratelli molto noti in Turchia – il primo giornalista e scrittore, il secondo autore e professore universitario – rischiano tre condanne all’ergastolo, accusati di aver commesso “un reato” in nome di un’organizzazione terroristica di cui non fanno parte, di aver cercato di rovesciare l’ordine costituzionale, il parlamento e il governo della repubblica turca. Ma l’accusa nei loro confronti riguarda tre articoli e una trasmissione televisiva che conterrebbe dei “messaggi subliminali” lanciati alla vigilia del fallito colpo di stato del luglio 2016.

“Sono in prigione da 429 giorni senza alcuna prova a mio carico”, ha affermato Mehmet Altan, 67 anni, ai suoi giudici lunedì 13 novembre nel corso di un’udienza del suo processo che ho seguito in qualità di presidente di Reporters sans frontières (Rsf) e nel quadro di un’iniziativa di solidarietà organizzata in Francia dalla Société civile des auteurs multimedia (Scam).

Oggi, ci vuole coraggio per alzarsi in un tribunale turco e chiedere di ricusare un giudice

In Turchia, dove dopo il golpe fallito del luglio 2016 sono state imprigionate decine di giornalisti, i processi si succedono e si somigliano. In apparenza la giustizia è al lavoro, come questo lunedì nell’immenso e modernissimo palazzo di giustizia di Istanbul – il più grande d’Europa – davanti alla 26° alta corte penale.

Ma molto presto ci si rende conto che si tratta, appunto, di un’apparenza di giustizia, di un teatro sinistro nel quale il rispetto delle regole cede il passo all’arbitrio. Lunedì mattina i quattro avvocati dei fratelli Altan ne hanno avuto la dimostrazione: avevano previsto di sollevare una ventina di obiezioni procedurali che avrebbero ridotto a ben poca cosa l’accusa contro i loro clienti, e contavano di chiederne la scarcerazione.

Ma il presidente della corte ha deciso altrimenti e ha passato direttamente la parola al pubblico ministero per accelerare la conclusione del processo. Quando Ergin Cinmen, il principale avvocato della difesa, si è alzato facendo osservare che non avrebbe avuto alcun senso presentare le obiezioni procedurali dopo l’intervento del pubblico ministero, è stato espulso dall’aula.

Alla ripresa dell’udienza una seconda avvocata della difesa, Figen Albuga Çalıkuşu del collegio di Antalya, ha preso la parola e ha ricusato il giudice, per poi essere espulsa a sua volta e provocare una nuova sospensione dell’udienza. Oggi, ce ne vuole di coraggio in un tribunale turco per alzarsi e chiedere di ricusare un giudice!

Il ruolo di Strasburgo
Così uno dopo l’altro, tutti i quattro avvocati della difesa sono stati espulsi dall’aula e la mattina è andata persa senza che il presidente cambiasse la sua posizione di una virgola. “È la prima volta in quarant’anni di esercizio della mia professione che affronto una tale situazione”, ha commentato frustrato e arrabbiato Cinmen.

Di fatto, i diritti della difesa sono stati già seriamente limitati dallo stato di emergenza instaurato l’anno scorso dopo il tentativo di colpo di stato. Ormai gli accusati possono vedere il loro avvocato solo un’ora alla settimana in presenza di un pubblico ufficiale e la conversazione è registrata! Difficile preparare una difesa in queste condizioni.

Il pomeriggio, privi di avvocati, Ahmet e Mehmet Altan, che fino a quel momento avevano seguito l’udienza in silenzio da un’aula della prigione di Silivri, hanno potuto prendere la parola. La loro denuncia di questo processo, della debolezza delle accuse e soprattutto della natura politica delle decisioni è stata spietata, a tal punto che il presidente ha chiesto a Mehmet Altan, 64 anni, di non “accalorarsi troppo”.

“Quando guardo il pubblico ministero”, ha ribattuto il professore universitario, “ho l’impressione di vedere un attore che recita male il suo copione, che non conosce bene il suo caso ma che chiede comunque la nostra condanna. Ma che giustizia è questa?”.

Alla fine della giornata le organizzazioni internazionali che avevano degli osservatori presenti a Istanbul, tra cui Rsf, hanno pubblicato un comunicato per denunciare la violazione senza precedenti dei diritti della difesa.

La situazione del giornalismo turco è disperata

La ragione per la quale la corte vuole accelerare la conclusione del processo non va cercata a Istanbul ma a Strasburgo, alla sede della Corte europea dei diritti umani (Cedu), un’istituzione legata al Consiglio d’Europa di cui fa parte la Turchia. Gli accusati infatti hanno presentato ricorso alla Cedu per denunciare le irregolarità della procedura, e le autorità giudiziarie turche vogliono terminare il processo prima della sentenza della Corte europea, per poter respingere eventuali richieste di liberazione affermando che la procedura è già in un’altra fase.

Questi rimandi procedurali possono sembrare banali, ma sono una delle poche armi a disposizione degli uomini e delle donne che si battono in Turchia per far rispettare un minimo di stato di diritto, e sono anche il segno che Ankara, nonostante il suo rifiuto di facciata di qualunque “ingerenza” esterna, in particolare proveniente dall’Europa, non vuole inimicarsi un’istituzione paneuropea, o abbandonarla, per evitare continue condanne.

Protezione e accanimento
L’enorme purga cominciata nel luglio scorso va ben oltre i sostenitori di Fethullah Gülen, il predicatore esiliato negli Stati Uniti accusato di essere dietro il fallito colpo di stato. Da 16 mesi la società civile è assediata, tutti i contropoteri sono sotto attacco, dai mezzi d’informazione alla magistratura, dal mondo accademico alle personalità più o meno famose come il noto filantropo Osman Kavala, e le stesse istituzioni turche.

La situazione del mondo dell’informazione è disperata. Lo si può constatare entrando nell’edificio del quotidiano Cumhuriyet. L’edificio è protetto da un importante dispositivo di polizia con guardie armate e con metal detector all’entrata in seguito alle minacce ricevute dall’unico giornale del mondo musulmano che ha pubblicato le caricature di Maometto dopo l’attentato a Charlie Hebdo.

Ma lo stato, che protegge Cumhuriyet, allo stesso tempo si accanisce contro la testata, la più antica in Turchia e fedele alla tradizione kemalista, dal nome di Kemal Atatürk il fondatore della Turchia moderna e il cui ritratto è presente in molti locali pubblici. Dodici dirigenti di quest’ultimo bastione di indipendenza giornalistica sono attualmente sotto processo, tre di loro sono in prigione da più di un anno accusati, come i fratelli Altan, di essere complici del terrorismo in collegamento con la confraternita di Gülen o con il Pkk curdo, cosa che può sembrare contraddittoria.

Aydın Engin, cronista di Cumhuriyet, è preoccupato per la società civile turca, perché la ritiene troppo fragile e troppo giovane

Aydın Engin, cronista di Cumhuriyet, è tra questi accusati. È stato scarcerato a causa della sua età – con orgoglio lui parla dei suoi “47 anni di giornalismo” – ma questo non ha tolto nulla alla sua combattività. “Sono stato arrestato e imprigionato a ogni colpo di stato nella storia agitata di questo paese”, mi racconta Engin. “Ma non mi sono mai trovato in una situazione del genere. Anche gli stessi giudici militari che in passato facevano finta di rispettare le regole, oggi non lo fanno più”.

Questo veterano della lotta per la libertà della stampa in Turchia si preoccupa per la società civile turca sotto pressione, che ritiene troppo fragile, troppo giovane e che deve fare i conti con un potere a cui “dà fastidio”.

Sotto lo sguardo severo del ritratto di Atatürk, il padre della laicità turca, il giornalista inserisce gli avvenimenti attuali nel contesto di una lotta lunga due secoli con l’islam politico oggi incarnato dal presidente Recep Tayyip Erdoğan. E si è costretti a constatare che nulla, assolutamente nulla, è in grado di opporsi in modo efficiente al rullo compressore dello stato dominato dall’Akp, il partito islamico-conservatore del presidente.

Oggi, in tribunale sono i fratelli Altan a essere nel mirino della giustizia. Questi due uomini, figli di un intellettuale che è stato a sua volta imprigionato sotto regimi diversi, sono in balìa dell’arbitrio più assoluto e rischiano di finire i loro giorni in prigione.

Ma Ahmet Altan, i cui romanzi sono tradotti in vari paesi tra cui l’Italia e di cui sono il “tutore” nel quadro dell’operazione di solidarietà della Scam, non sembra molto impressionato. In un testo uscito in settembre, Ahmet ha scritto una lettera aperta ai suo giudici: “Uno stato, se vuole essere tale, ha bisogno di prove per giudicare le persone, solo i despoti armati imprigionano la gente senza prove. Se continuate a giudicarci e a metterci in prigione senza prove, violerete le basi stesse della giustizia e dello stato. Il vostro sarà un grave crimine”.

In questo modo, aggiunge, la Turchia si trasformerà in una giungla di delinquenti e di dispotismo, dove il colpevole giudica l’innocente.

“Dovete quindi decidere se volete essere dei giudici onesti o dei criminali. Se doveste accettare un atto d’accusa che contiene solo affermazioni assurde e dichiarare che si tratta di ‘prove serie’ quando non ve n’è traccia, scoprirete allora che la vita può essere capricciosa e che voi stessi sarete giudicati pensando di giudicarci. Aspetto la vostra decisione. Da scrittore di una certa età, avendo molta più esperienza di voi, il consiglio che posso darvi è quello di salvare voi stessi, di salvare la vostra professione e di salvare il vostro stato”.

A quanto pare lo spettacolo al quale ho assistito il 13 novembre al palazzo di giustizia di Istanbul dimostra che il giudice non ha voluto seguire il consiglio di Ahmet Altan.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

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