31 maggio 2022 14:05

Una delle prime sparatorie in una scuola statunitense di cui si ha notizia risale al 1840. Joseph Semmes, uno studente di giurisprudenza dell’università della Virginia, sparò a un insegnante, John Anthony Gardner Davis, apparentemente senza motivo, uccidendolo. Da allora sono state registrate decine di sparatorie e stragi in scuole e università, ma è stato a partire dagli anni novanta del novecento che questi eventi hanno smesso di essere fatti isolati e sono diventati una costante nella vita degli studenti americani. L’ultima strage in ordine di tempo, quella del 24 maggio a Uvalde, in Texas, ha sconvolto il paese più di altre perché è avvenuta in una scuola elementare, come era successo nel 2012 a Newtown, in Connecticut: allora furono uccisi venti bambini, a Uvalde ne sono morti 19.

Dopo ogni evento di questo tipo molti statunitensi (e anche noi europei che proviamo a capire quel paese) si chiedono come si possa continuare a non fare niente di fronte alle migliaia di bambini e ragazzi uccisi ogni anno (1.500 minori di 14 anni sono morti in stragi e sparatorie solo nel 2021). Per la verità qualcosa si è provato a fare. Dopo la strage di Newtown è nato un movimento di attivisti ben organizzato e ben finanziato che fa pressione sui politici per approvare norme sul controllo delle armi: dopo la strage del 2018 in un liceo di Parkland, in Florida, sono state approvate almeno cinquanta nuove leggi di questo tipo nei parlamenti statali di tutto il paese. Il problema è che la reazione successiva di chi difende il diritto alle armi è stata sempre più forte dell’indignazione suscitata dalle stragi.

Oggi secondo le stime negli Stati Uniti ci sono in circolazione 400 milioni di armi, in una popolazione di 331 milioni di persone

Quella che gli esperti definiscono “l’era delle stragi a scuola” ha coinciso con il più grande allargamento del diritto a portare armi nella storia degli Stati Uniti. Un momento cruciale è stato nel 2008, quando la corte suprema ha stabilito che il secondo emendamento della costituzione protegge il diritto individuale di possedere un’arma (in precedenza l’emendamento era sempre stato interpretato come un modo per permettere alle milizie organizzate di armarsi contro un nemico esterno). In un contesto politico sempre più polarizzato – con una parte rilevante dell’elettorato mosso soprattutto dalla paura di perdere influenza e potere – quella sentenza ha dato il via libera agli stati repubblicani per allentare le restrizioni e ha innescato una corsa all’acquisto di armi. Oggi secondo le stime negli Stati Uniti ci sono in circolazione 400 milioni di armi, in una popolazione di 331 milioni di persone. La produzione di armi è triplicata tra il 2000 e il 2020.

In questo contesto le stragi nelle scuole sono diventate inevitabili. E se la prevenzione è impossibile, si cerca di ridurre i danni. A partire dalla strage del 1999 al liceo Columbine di Littleton, in Colorado, in tutto il paese le scuole di ogni grado hanno dovuto creare dei protocolli per affrontare eventuali sparatorie. Gli studenti devono sapere cosa fare in caso di allarme (per esempio raggiungere subito i cosiddetti “hard corners”, i punti “sicuri” meno visibili dalle porte e dalle finestre). Le esercitazioni periodiche, spesso condotte con l’assistenza delle forze dell’ordine locali, sono una consuetudine per i bambini di tutte le età in almeno quarantuno stati. A volte le famiglie prendono precauzioni ulteriori, e questo, spiegava il Guardian in un articolo uscito tempo fa, ha dato vita a un mercato in continua crescita di articoli per la sicurezza, come gli zaini antiproiettile (inutili secondo la maggior parte degli esperti).

Generazione armata
Molti studenti sono ormai abituati a frequentare scuole circondate da alte recinzioni e pattugliate da agenti armati in uniforme (la Florida ha reso obbligatoria la presenza di guardie armate dopo la strage del 2018). Dopo ogni strage i politici repubblicani tirano fuori le idee più bizzarre per aumentare la sicurezza: giorni fa il vicegovernatore del Texas ha proposto di chiudere tutte le porte d’ingresso delle scuole tranne una, sostenendo che per un attentatore sarebbe più difficile entrare. Anche gli insegnanti hanno dovuto adeguarsi: spesso devono frequentare corsi in cui imparano a gestire la classe durante una sparatoria, e in alcuni stati (compreso il Texas) possono perfino portare armi negli istituti. Infine sono state stanziate molte risorse per la salute mentale degli studenti, sia per individuare studenti problematici e cercare di prevenire eventuali stragi sia per aiutare i sopravvissuti a superare gli eventi traumatici.

Tutto questo significa che per gli statunitensi nati a partire dalla fine degli anni novanta – e per i loro genitori – l’esperienza scolastica è radicalmente diversa da quella delle generazioni precedenti. Un sondaggio Gallup del 2018 ha rivelato che a livello nazionale uno studente su cinque aveva la sensazione di non essere sicuro a scuola, mentre il 35 per cento dei genitori diceva di essere preoccupato per quello che può succedere ai figli in classe. Questa nuova realtà – a cui si aggiungono i traumi legati ad altre crisi, per esempio quella climatica e quella dei farmaci oppioidi – avrà effetto di lungo periodo su milioni di persone e sarà un fardello sempre più pesante per il paese.

Le parole dei sopravvissuti

Per farsi un’idea del trauma che si portano dietro i sopravvissuti alle stragi scolastiche bisogna leggere le loro testimonianze. Eccone alcune da un articolo pubblicato dal New York magazine nel 2018.

Sean Graves, 15 anni, colpito da due compagni di scuola alla Columbine di Littleton, Colorado, 1999.

Non capivamo cosa stessero facendo quei ragazzi. Caricavano le munizioni nelle pistole e tiravano fuori l’attrezzatura dai borsoni. Pensavamo che si trattasse di uno scherzo. Non ho sentito dolore fino all’ultimo colpo. Nessuno dei primi cinque aveva colpito le ossa. Il sesto è entrato nel lato del mio zaino e ha colpito un quaderno. Se si sfogliano le pagine, si può vedere dove il proiettile ha effettivamente cambiato traiettoria, dove si è girato e ha puntato dritto alla mia spina dorsale. Ho pensato: fa un male cane. C’è qualcosa che non va. Ma ho pensato anche: Dev’essere uno scherzo. Qualcuno mi ha appena sparato un tranquillante.

Non potevo andare da nessuna parte in Colorado senza che qualcuno scoprisse chi fossi, perché ero su una sedia a rotelle. È stato difficile. A volte è difficile ancora oggi. Le persone mi vedono zoppicare e cominciano a mettere insieme i pezzi. Alla fine capiscono chi sono.

Sarah Salazar, 16 anni, colpita nel 2018 in un liceo di Santa Fe, Texas, da un compagno di classe che aveva un fucile e una pistola.

Il primo giorno in ospedale mi hanno operata tre volte. Mi hanno lasciato dentro le pallottole che non c’era bisogno di togliere. Sono rimasta incosciente per alcuni giorni. Giorni dopo mi hanno chiuso la mascella con un filo. L’ho tenuto per circa quattro settimane. Poi l’hanno allentato quando dovevano operarmi alla spalla. Deve essere stato il quinto intervento. L’ultimo è stato quando mi hanno finalmente tolto il filo. Quei giorni sono un po’ confusi, ma so che sono stata in ospedale per più di un mese. Volevo diventare anestesista, anche prima della sparatoria. Sono tornata a scuola. Alcune cose sembravano normali, altre no. C’erano i metal detector. La vecchia sala da ballo era diventata un centro per la salute mentale. La sparatoria avrà sicuramente un impatto sulla mia vita, perché potrei non essere più in grado di sollevare il braccio. Dovrò fare le cose in modo diverso.

Rome Schubert, 16 anni, colpito in un liceo di Santa Fe, Texas, nel 2018.

Siamo entrati in modalità sopravvivenza. C’erano due ragazze sedute vicino alla porta sul retro dell’aula e mi hanno detto: “Andiamocene subito”. Non sapevo che mi avevano già sparato. Una volta fuori ho cominciato a correre. C’era un muro di mattoni, alto circa due metri. L’ho scavalcato. Qualcuno mi stava correndo accanto e gli ho chiesto: “Di chi è questo sangue?”. Mi ha risposto: “È tuo. Hai un foro di proiettile nel collo”. Non potevo crederci: come faccio a correre? Come faccio a parlare? Dopo qualche settimana tutto è tornato alla normalità. Mi ha stupito. Ero di nuovo sul campo da baseball e pensavo che stavo giocando una partita due settimane dopo che mi avevano sparato alla testa.

Ashley Baez, 15 anni, colpita nella strage al liceo di Parkland, in Florida, nel 2018.

Sono stata una delle prime a essere colpita, nella parte superiore della gamba destra. Il proiettile è esploso ed è uscito dalla gamba sinistra. Quando potrò camminare completamente, mi opereranno per sostituire il grasso. Ci vorranno circa due anni per guarire completamente. In spiaggia non posso indossare la fascia che di solito uso per coprire le gambe. La gente mi guarda. Mi viene da dirgli: “Puoi fissarmi quanto vuoi, ma non si può fare niente per cambiare le cose”.

Isabel Chequer, 16 anni, colpita nella strage al liceo di Parkland, in Florida, nel 2018.

Stavamo usando un software sul computer chiamato Eyewitness. È un programma con testimonianze di sopravvissuti all’Olocausto. C’entra qualcosa Steven Spielberg. Ancora mi sorprendo di non essere stata ferita più gravemente o di non essere morta, perché ero molto esposta. Non ha nessun senso. C’era una ragazza che pregava in spagnolo e ho pensato che forse avrei dovuto pregare anch’io. È uno di quei momenti in cui si prega. Così l’ho fatto. Poi ho visto una delle mie compagne di classe con la testa bassa. A quel punto ho realizzato che non era più viva. È strano da dire, ma quando guardi qualcuno che è morto, in un certo senso lo sai.

Anthony Borges, 15 anni. Durante la strage al liceo di Parkland ha sbarrato la porta di un’aula per proteggere gli altri studenti, salvando venti persone:

Sono stato in ospedale per due mesi. Non mi annoiavo: il dolore non mi permetteva di distrarmi. Mi faceva male tutto il corpo, non solo nel punto in cui mi avevano sparato. Immaginate se qualcuno vi pugnala con un coltello e lascia dentro la lama.

La fisioterapia mi sta aiutando molto. Ma non riesco a sentire il piede sinistro. Sono diventato più magro e quando sono in piedi faccio fatica a respirare. L’obiettivo è riuscire a muovere normalmente tutto il corpo. Non posso correre e voglio farlo. Ora studio a casa. Non so quando tornerò a scuola. Non voglio, non mi sento sicuro.

Altre storie di sopravvissuti sono raccontate in un lungo articolo del Washington Post. Qui invece le testimonianze dei bambini e insegnanti sopravvissuti alla strage di Uvalde. Qui tutte le notizie sulla strage e sulle vittime.

Questo articolo è tratto dalla newsletter settimanale di Internazionale che racconta cosa succede negli Stati Uniti. Ci si iscrive qui.

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