12 giugno 2023 17:21

Durante il consiglio dei ministri dell’interno europei, che si è svolto a Lussemburgo l’8 giugno, i 27 paesi dell’Unione hanno trovato un accordo per riformare le procedure di frontiera e la gestione dell’asilo. L’accordo, che ha riscritto la proposta fatta dalla Commissione, ora dovrà essere discusso dal parlamento europeo, che dovrà approvarlo. Le nuove regole, che prenderanno il posto del regolamento di Dublino III, introducono delle quote per il ricollocamento dei migranti, ma non intaccano il principio del paese di primo ingresso che attribuisce ai paesi di frontiera la responsabilità di gestire l’accoglienza. Ecco i punti principali del patto:

  • tutti gli stati dovranno partecipare alle redistribuzione dei migranti con una quota minima di 30mila ricollocamenti all’anno. In alternativa potranno versare un contributo di 20mila euro a migrante al fondo comune per la gestione delle frontiere esterne;
  • l’esame delle domande di asilo dovrà avvenire con una “procedura di frontiera”, cioè una procedura accelerata e sommaria che si dovrà concludere entro 12 settimane dalla presentazione della domanda. Questa procedura si applicherà a tutti quelli che attraversano illegalmente la frontiera o quando il richiedente asilo proviene da “un paese terzo ritenuto sicuro”;
  • il paese responsabile della domanda di asilo resta il paese di primo ingresso in Europa, e il periodo durante il quale uno stato ha la responsabilità dei migranti arrivati sul suo territorio si allunga da dodici a ventiquattro mesi. Questo implica che i paesi di frontiera continueranno ad avere più oneri;
  • in materia di respingimenti e rimpatri, gli stati avranno autonomia nel definire un paese di partenza o di transito come “sicuro” e quindi potranno attuare respingimenti anche verso un paese di transito per i migranti (e non solo verso quello di origine).

Nella trattativa è emersa la contrapposizione tra Italia e Germania, con Roma che spingeva per potere effettuare respingimenti e rimpatri anche verso i paesi di transito, mentre Berlino richiedeva standard più elevati nel definire la sicurezza dei paesi terzi in cui si vorrebbero compiere questi respingimenti.

Alla fine ha vinto l’approccio italiano, che ricorda quello adottato dagli Stati Uniti, e che di fatto permetterà di respingere in paesi terzi anche persone che avrebbero diritto alla protezione internazionale sulla base di una valutazione sommaria durante la procedura di frontiera.

Nel voto finale Polonia e Ungheria hanno votato contro le nuove regole perché si oppongono ai ricollocamenti, mentre Malta, Lituania, Slovacchia e Bulgaria si sono astenute. Tuttavia non è stato toccato il principio cardine del regolamento di Dublino: quello del paese di primo ingresso.

La fine del diritto di asilo
Il nuovo patto è stato duramente contestato dalle organizzazioni che si occupano di diritti umani. Secondo Gianfranco Schiavone dell’Ics–Consorzio di solidarietà di Trieste, le nuove regole sanciscono “la fine del diritto di asilo” in Europa e sono un attacco allo stato di diritto.

Rimangono in piedi gli squilibri tra i diversi paesi europei: “Un paese può decidere di non prendere neppure un richiedente asilo in cambio del pagamento di una somma di denaro”. Quindi, al di là della retorica, “è una battaglia persa da Roma: aumentano i richiedenti asilo di competenza dell’Italia”, conclude Schiavone.

Inoltre per l’esperto è preoccupante che tutto diventi una procedura di frontiera, una procedura sommaria di esame delle domande di asilo. Si stravolge il concetto di paese terzo sicuro: “La persona di solito può tornare in un paese terzo sicuro solo se ha un legame con quel paese, qui invece si vorrebbe mandare le persone indietro in paesi terzi di transito, in virtù di accordi bilaterali. Ma qui vedo problemi giuridici insormontabili. Vogliamo pagare, per respingere. Ma ci si chiede: è un sistema di diritto o un mercato degli schiavi?”.

Infine, per l’esperto, è preoccupante la procedura che è stata adottata per approvare questo patto: “È stato il consiglio, quindi i ministri dei 27 paesi, a scrivere il nuovo accordo, senza nessun riguardo per la proposta fatta dalla Commissione e senza rispetto per il voto del parlamento”, spiega il giurista.

“È stato proprio un modo di affermare che i governi dei diversi paesi sono quelli che decidono, svuotando le altre istituzioni europee. Il messaggio è quello che il parlamento non conta niente, perché hanno proposto un testo estremista e provocatorio, senza nessun tentativo di compromesso. A questo punto c’è da chiedersi cos’è l’Europa: l’Unione europea non esiste, se basta fare una riunione dei ministri. Non dovrebbe essere qualcosa di diverso?”, chiede Schiavone.

Per il giurista Fulvio Vassallo Paleologo l’intesa è “una scatola vuota” se si pensa alla mole delle normative (dal regolamento frontiere Schengen alla direttiva 2008/115/ CE sui rimpatri) che dovrebbero essere modificate per approvare definitivamente quanto si è deciso a Lussemburgo e al poco tempo che manca alle prossime elezioni europee. “Inoltre la spaccatura tra i paesi di Visegrád e i conservatori, a cui appartiene anche Giorgia Meloni, non lasciano presagire risultati definitivi nel breve periodo”, afferma Vassallo Paleologo.

Secondo Filippo Miraglia, responsabile immigrazione dell’Arci, con le nuove norme si erode il principio di non respingimento, uno dei princìpi fondamentali della Convenzione di Ginevra sui rifugiati: “Se possiamo respingere verso paesi che ciascun governo europeo può decidere essere sicuri chiunque arrivi alle nostre frontiere, abbiamo di fatto cancellato con un colpo di spugna ogni possibilità di chiedere asilo in Europa”.

“Il principio è quello applicato con la Turchia: paghiamo qualsiasi dittatore per fare il lavoro sporco che noi non possiamo fare, perché in Europa vigono leggi che tutelano le persone e ci sono giudici che le fanno applicare”, afferma Miraglia. “Finora ci siamo limitati a pagare Erdoğan per impedire alle persone di arrivare in Europa. Se passa il principio contenuto in questo terribile accordo, potremo anche rimandare in Turchia gli afgani e i siriani”.

Il caso tunisino
Dopo pochi giorni dall’approvazione del patto, l’11 giugno la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, la presidente del consiglio italiana Giorgia Meloni e il primo ministro olandese Mark Rutte sono stati a Tunisi per incontrare il presidente Kais Saied e discutere di un accordo che dovrebbe essere concluso entro la fine del mese. L’Unione europea potrebbe versare immediatamente nelle casse di Tunisi 150 milioni di euro per sostenere le riforme necessarie richieste dal Fondo monetario internazionale (Fmi) per elargire un prestito da due miliardi di dollari e salvare il paese dal default, previsto ad agosto.

Se l’accordo con il Fondo monetario internazionale sarà concluso, l’Unione europea darebbe a Tunisi altri 900 milioni di euro. Tuttavia il nodo delle riforme richieste dall’Fmi non sembra essere stato sciolto, anzi il presidente Saied ha ribadito che non accetta le richieste, che considera dei “diktat”.

Nel pacchetto di aiuti da 900 milioni promesso dall’Unione europea, 105 milioni di euro saranno destinati a un nuovo accordo sul controllo della migrazione che prevede azioni congiunte per combattere il traffico di esseri umani, estendere le attività di ricerca e soccorso e aumentare i rimpatri. Una delle principali richieste dell’Europa a Saied sarebbe quella di aprire campi profughi in cui poter respingere tutti i migranti che arrivano alle frontiere esterne dell’Unione, secondo quanto previsto dal nuovo patto sull’immigrazione. La Tunisia dovrebbe essere considerata paese terzo sicuro e, in base alle nuove norme, permettere che nel paese siano riportati anche i non tunisini.

Ma per il momento Saied non sembra disposto ad accettare questa prospettiva: ha ribadito di non volere aprire dei centri in cui siano rimandati anche i non tunisini. “L’idea, che alcuni sostengono segretamente, che il paese ospiti centri per i migranti in cambio di somme di denaro è disumana e inaccettabile”, ha detto Saied alla stampa locale. Il presidente tunisino aveva già detto, prima della visita degli europei, che Tunisi non sarà la “guardia di frontiera di altri stati”.

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