25 settembre 2020 13:31

L’immensa sala del Museo delle civiltà dell’Europa e del Mediterraneo (Mucem), il centro d’arte sul porto industriale di Marsiglia, ha delle alte finestre aperte sul mare, che invogliano, appena entrati, a salire sulla prossima nave in partenza. Con la mostra L’orient sonore (aperta fino al 4 gennaio 2021), la stessa sala invita invece i visitatori a rimanere fermi, a sedersi sui grandi tappeti stesi per terra davanti a enormi schermi e ad ascoltare voci e musiche dall’altra sponda del Mediterraneo.

Suoni che ricordano un oriente sparito o che sta per sparire: filmati in Egitto per la prima volta, si possono ascoltare gli ultimi conoscitori delle migliaia di strofe del poema epico Al sirah al hilaliyyah, le canzoni composte dalle donne yazide per le figlie catturate e rese schiave dal gruppo Stato islamico (Is) o i canti dei pescatori del Kuwait.

Per un’esperienza più intima ci sono anche sessanta 45 giri su cui è stampato un codice Qr, che permette di ascoltare brani da tutto il mondo arabo direttamente sul telefono. Una bella sfida per i curatori, che sono riusciti a “esporre” la musica e a dare conto di tutta la ricchezza del patrimonio musicale orientale, poco conosciuto in Europa e che rischia di andare perso.

Un lavoro colossale
Questo è lo scopo del lavoro d’archivio compiuto della fondazione libanese Amar, impegnata da quindici anni nell’uso delle nuove tecnologie per conservare il patrimonio sonoro della regione che sta rapidamente sparendo a causa di questioni geopolitiche, delle guerre o della persecuzione di molte minoranze, ma anche per la velocità con cui la globalizzazione cancella le tradizioni orali. Basti pensare che la maggiore parte dei generi musicali orientali si suona unicamente dal vivo.

“Quando parliamo di musica araba, di solito partiamo dalla musica dei tempi del profeta, nell’Hijaz, in Arabia Saudita”, spiega Fadi el Abdallah, poeta e curatore del catalogo della mostra. “È un peccato, però, perché si trascurano le musiche dell’antico Egitto, dell’epoca ellenistica, dello Yemen e della Mesopotamia, che non sono sparite dopo l’arrivo dell’islam”.

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Il rischio è di sottovalutare culture millenarie, ignorando l’incredibile diversità dei popoli che fanno la ricchezza del Medio Oriente. Per presentare le culture che hanno convissuto con quella araba e islamica, la mostra si concentra su quelle che chiama “musiche dimenticate, musiche vive”, e le presenta svelando gli intrecci e gli scambi tra regioni musicalmente molto diverse tra loro: per esempio, lo Yemen è stato influenzato dalle tradizioni dell’Africa e dell’India, l’Egitto da quelle copte e bizantine, mentre il Marocco dagli scambi con l’Africa subsahariana.

La fondazione Amar ha realizzato un lavoro sul campo colossale. Tra il 2016 e il 2019 ha inviato delle squadre in tutta la regione per salvaguardare canti e musiche a rischio di sparizione. Molti dei musicisti nubiani di Assuan, nel sud dell’Egitto, che conoscono il canto lamentoso dell’anîn sono partiti per andare a lavorare nel settore petrolifero del golfo Persico, e la fondazione ha registrato gli ultimi quattro cantanti rimasti a praticare questo genere basato sull’improvvisazione musicale.

Gli inviati di Amar hanno anche filmato per la prima volta i canti dei cristiani siriaci iracheni nella chiesa di Mosul, quasi distrutta dopo la lunga battaglia contro l’Is. Su un altro schermo, la mostra rende omaggio ai kawliyah, nomadi di origine indiana immigrati in Iraq all’inizio del decimo secolo, da sempre una minoranza emarginata e oggi vittima di persecuzioni, anche perché formata da artisti, cosa che alcuni iracheni associano a una morale discutibile.

La stessa lingua
Ma l’oriente sonoro, spiega il curatore della mostra Kamal Kassar, fondatore di Amar, parla anche una stessa lingua musicale, che spesso le orecchie occidentali faticano a carpire. È tutta colpa del maqam (gamma, cioè il sistema di modalità melodiche arabo), spiega il musicologo Frédéric Lagrange: “La musica araba classica non si sviluppa con un susseguirsi di melodie come quella occidentale, ma con un discorso melodico unico”. Che sembra, a chi non è abituato, terribilmente monotono: essendo anche principalmente vocale, la musica araba inserisce in una sillaba di canto un’infinità di note.

Il piacere musicale, il mitico tarab (estasi), deriva precisamente da queste piccole variazioni e dal fatto che in uno stato di concentrazione estrema l’ascoltatore avverte i minimi cambiamenti. Questo stato di trance indotto dalla musica è percepibile anche nelle registrazioni delle prime case discografiche dell’inizio del novecento. Dopo il successo del tenore italiano Enrico Caruso, le compagnie discografiche occidentali partirono alla conquista di nuovi mercati e il loro arrivo in Medio Oriente trasformò la vita musicale della regione. Gramophone Uk registrò le celebrità del primo dopoguerra, che fu l’epoca d’oro della musica araba. Durante i concerti di cantanti adorati ancora oggi come Umm Kulthum, Mohamed Abdel Wahab o Abdel Halim Hafez si sentono le urla del pubblico, impegnato in un ascolto partecipe, estatico.

Il pubblico arabo odierno, e in particolare i giovani, spiega Kamal Kassar, sono affascinati e si sentono enormemente legati a questo patrimonio. Molte musiche tradizionali sono remixate dai dj e attualizzate, com’è successo in Italia con la tarantella e la pizzica.

Per chi non può visitare la mostra, i podcast e le registrazioni raccolti dalla fondazione Amar si possono facilmente ascoltare online, attraverso l’app gratuita collegata alla mostra, che propone degli estratti di una collezione formata da novemila dischi e seimila ore di registrazioni su nastri magnetici. Abbiamo così la possibilità di scoprire le voci del mondo arabo – dal 1903 agli anni settanta – attraverso grammofoni digitali.

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