All’inizio degli anni novanta Bernardine Healy, cardiologa, direttrice dell’Istituto nazionale di sanità negli Stati Uniti, si rese conto che nel diagnosticare un infarto si commettevano più errori se il paziente era una donna, cosa che portava anche a cure sbagliate o non risolutive. Ci scrisse un articolo sul New England Journal of Medicine e lo intitolò “La sindrome di Yentl”, prendendo in prestito il nome della protagonista di un racconto di Isaac B. Singer.

Nella storia, Yentl era la figlia di un rabbino, costretta a travestirsi da uomo per poter accedere allo studio del Talmud, il testo sacro dell’ebraismo. Con questo riferimento, la dottoressa Healy voleva mostrare come anche in medicina le donne subissero delle discriminazioni.

Tradizionalmente gli studi sulle malattie che colpiscono uomini e donne – e sui farmaci per curarle – sono stati condotti quasi esclusivamente sugli uomini e poi sono stati applicati alle donne. In pochi casi è avvenuto il contrario, mentre sono quasi totalmente assenti studi clinici condotti a seconda del genere. Le conseguenze di questa assenza influenzano il diritto alla salute e quello alla cura.

Come aveva notato la dottoressa Healy, per esempio, l’infarto è sempre stato considerato una patologia maschile e in base a questa convinzione sono state studiate diagnosi e cure. Nonostante rappresenti la prima causa di morte per le donne, spesso non è diagnosticato perché può presentare sintomi diversi rispetto a quelli che si manifestano negli uomini: non fitte al petto e al braccio, ma ansia, dispnea, mal di stomaco. Sintomi definiti “atipici”. Le stesse pazienti trascurano questi segnali, e talvolta negli ospedali i medici le mandano in codice verde o ne dispongono il ricovero in medicina interna, perdendo del tempo prezioso per salvargli la vita.

Una nuova visione
Quello dell’infarto è il caso più comune, ma non è l’unico. Per questo negli ultimi anni si sta sviluppando una medicina che tiene conto del genere, chiamata gender-specific medicine (medicina genere-specifica).

“Non è un nuovo settore della medicina, è una visione trasversale che cerca di capire con quali sintomi si manifesta una malattia in una donna e con quali in un uomo, e come impostare la prevenzione e la cura”, spiega la dottoressa Giovannella Baggio, presidente del Centro studi nazionale su salute e medicina di genere. “Ci si è resi conto che sintomi, terapie, prevenzione ed effetti dei farmaci sono molto diversi tra uomo e donna”.

Esistono casi di segno contrario come l’osteoporosi o la depressione, associate di più alle donne e studiate su di loro, sebbene colpiscano anche gli uomini. Ma sono comunque la minoranza, i corpi femminili sono i grandi esclusi dalla ricerca sulle malattie e dalla sperimentazione dei farmaci.

Fino al 1993 le donne sono state escluse dagli studi sulla sperimentazione dei farmaci

Le ragioni sono diverse. “La donna è sempre stata considerata un essere inferiore all’uomo dal punto di vista biologico. Galeno nel secondo secolo dopo Cristo diceva che la donna era caratterizzata da organi genitali malamente sviluppati, introversi. Vesalio, considerato il padre dell’anatomia, nel 1500 sosteneva che bastava studiare il corpo maschile e poi applicare tutto il resto a quello femminile”, afferma Silvia De Francia, ricercatrice in farmacologia all’università di Torino e autrice del libro La medicina delle differenze. Storie di donne, uomini e discriminazioni.

Un’altra questione riguarda la maggiore complessità degli organismi femminili come oggetti di studio. Dalle prime mestruazioni in poi, le donne hanno un sistema molto variabile dal punto di vista ormonale. Questi cambiamenti influenzano anche il livello di risposta o di assorbimento dei farmaci. E dunque risulta più complicato e costoso prevedere un alto coinvolgimento femminile.

“Fino al 1993 le donne e le ratte sono state escluse dagli studi sulla sperimentazione dei farmaci. Significa che alcuni di loro, oggi molto comuni, sono stati testati solo sugli uomini”, sottolinea De Francia. Un esempio è quello dell’aspirina: “È un farmaco usato sia nelle terapie antinfiammatorie sia in quelle cardiovascolari per prevenire infarti o ictus. Condotto a cavallo degli anni ottanta, il test ha coinvolto circa ventimila persone in tutto il mondo. Solo uomini”.

Oggi le cose sono leggermente migliorate, ma le percentuali raccontano ancora una situazione sbilanciata. “Nelle fasi iniziali di uno studio su un farmaco, quelli sulla sua sicurezza, le donne non superano il 20-25 per cento delle persone coinvolte”, spiega la dottoressa Alessandra Carè, responsabile del centro di riferimento per la medicina di genere dell’Istituto superiore di sanità (Iss).

Carè spiega quello che avviene di solito, anche in campo oncologico: “Si prende un farmaco studiato sugli uomini (persone che pesano in media 70 chilogrammi, ndr), e si rimodulano le dosi in base al peso delle donne, anche se i metabolismi sono diversi”, sottolinea Carè.

Non si considera neanche che le donne in media assumono più farmaci degli uomini, e dunque sono più soggette a effetti nocivi.

Il piano nazionale
Nel 2018 in Italia è stata approvata una legge che per la prima volta in Europa impone di tenere conto del genere in medicina, nella sperimentazione clinica dei farmaci, nei percorsi diagnostico-terapeutici, nella ricerca, nella formazione di tutti gli operatori sanitari e nelle comunicazioni ai cittadini. Nel 2019 è stato firmato il decreto attuativo ed è stato elaborato un piano nazionale sulla medicina di genere.

Secondo la dottoressa Carè, l’approvazione del testo è stato “un grandissimo passo in avanti”, perché il piano “definisce gli obiettivi, gli attori e le azioni da compiere”. La normativa prevede che ogni anno il ministro della salute riferisca in parlamento sull’evoluzione della situazione in Italia e che sia creato un osservatorio sulla medicina di genere.

In attesa della sua istituzione, a fine gennaio 2020 si sono incontrati i referenti regionali per l’applicazione del piano nazionale. “Una riunione anche un po’ informale, dove ognuno ha portato le proprie esperienze”, spiega Carè. “Il lavoro da fare è ancora tanto perché la situazione a livello nazionale è molto eterogenea. Ci sono regioni che già hanno organizzato percorsi clinici di genere e strutture con una giusta visione di genere, come per esempio la Toscana, e altre che devono ancora cominciare un lavoro in questo senso. Ma speriamo di riuscire a portare avanti questo aspetto, anche se a piccoli passi”.

Anche per la dottoressa Baggio è un buon momento per l’Italia, “ma c’è bisogno che le università si mettano a lavorare bene, che le regioni prendano in mano la situazione e obblighino le aziende sanitarie locali a fare formazione su questo argomento. E poi tocca alle agenzie che si occupano di stabilire le regole del settore. L’Agenzia italiana del farmaco non accetta più protocolli di ricerca se non c’è la giusta attenzione al genere; stessa cosa l’agenzia europea. Un po’ alla volta si spera che tutto trovi una sua via e una correttezza scientifica e umana”.

La lotta al covid-19
I passi fatti nella direzione di una medicina di genere-specifica sono quanto mai rilevanti in questo momento di studio, sperimentazioni e cure sul nuovo coronavirus.

“La donna ammalata di covid-19 muore molto meno dell’uomo, il rapporto è quasi di 1 a 3 fino agli ottant’anni. Per il momento è statistica, ma è un dato che va studiato”, spiega Baggio. “Ci sono molte ipotesi e sono interessanti, per esempio si deve tenere conto del sistema immunitario delle donne, che è più forte di quello degli uomini. È importante lavorare con l’ottica di genere su tutto quello che stiamo facendo sul covid-19, compresi i vaccini”.

I dati rilevati a fine febbraio in Cina riportano un tasso di letalità del nuovo coronavirus più alto per i maschi (4,7 per cento) che per le donne (2,8 per cento). Differenze simili sono state riscontrate anche in Italia dall’Iss. Secondo l’istituto la percentuale di letalità per gli uomini (17,1 per cento) è circa il doppio rispetto a quella delle donne (9,3 per cento).

Di questo aspetto si è parlato molto anche sui mezzi di informazione, dando nuova visibilità a un approccio di genere alla medicina. Secondo Carè “i cittadini hanno cominciato a farsi delle domande. La crisi sanitaria ha mostrato la necessità di una corretta divulgazione e soprattutto di indagare su queste differenze, per poi sfruttarle da un punto di vista terapeutico”.

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