11 agosto 2021 12:59

Le nuvole si stanno ritirando dopo una pioggerella leggera in un umido pomeriggio di maggio a Sabon Tasha, nella Nigeria settentrionale. La porta anteriore del bungalow da tre camere da letto è aperta per far entrare l’aria mentre il quartiere è immerso in uno dei suoi frequenti blackout.

All’interno la dodicenne Aisha (in questo articolo non sono stati usati i nomi veri delle ragazze) si affaccenda qua e là e provvede a servire gli ospiti. È una delle tante minorenni che nelle città di tutta la Nigeria lavorano come domestiche, le cosiddette house girls, o “ragazze di casa”.

Un po’ di luce penetra nel salotto attraverso due finestre sul retro mentre la datrice di lavoro di Aisha, Safiya, se ne sta seduta a parlare con tre visitatori arrivati da Abuja: la figlia maggiore che fa l’insegnante nel Territorio della capitale federale, e altre due persone. Aisha serve loro piattini ricolmi di noccioline e Safiya le strilla si sbrigarsi e andarsene tutte le volte che a suo avviso la ragazzina indugia più del necessario. Le ricorda anche di spazzare in cucina.

Safiya è vedova e lavora come funzionaria pubblica in un ministero del governo. Le rughe attorno ai suoi occhi le fanno dimostrare intorno ai cinquant’anni, ma il modo in cui attraversa guizzando la conversazione scambiando battute con i suoi ospiti la fa sembrare molto più giovane.

Parla un inglese fluente ma passa all’hausa quando si rivolge ad Aisha, e con la lingua cambia anche il tono: acuto e brusco per Aisha, più morbido, amichevole e punteggiato da frequenti risate quando torna a rilassarsi chiacchierando con i suoi ospiti. Alle dita porta diversi anelli d’oro e al polso due bracciali d’oro che tintinnano mentre parla agitando le mani. Ha i capelli coperti da un foulard ma spuntano delle trecce scure spruzzate di grigio.

Un hijab arancione chiaro nasconde gran parte della figura minuta di Aisha. Non rivolge quasi una parola a Safiya, ma annuisce quando riceve istruzioni. Se chiamata riappare subito da una porta nascosta dietro una tenda marrone.

Dal villaggio alla città
Aisha è nata a Buda, un villaggio nello stato di Kano, a 250 chilometri circa di distanza, noto per le sue coltivazioni di granturco e arachidi. Suo padre lavora in una fattoria nella stagione della semina e del raccolto. Con la fine della stagione agricola svolge lavoretti saltuari, quando riesce a trovarli. Sua madre fa la casalinga e si occupa di un piccolo orto di loro proprietà sul retro della casa, una casetta fatta di fango e paglia. Come la maggior parte degli insediamenti rurali, non c’è elettricità né sistema fognario e l’acqua viene attinta da pozzi nella comunità.

Aisha si è trasferita nel Kaduna pochi mesi dopo aver compiuto dieci anni, con l’aiuto di un’intermediatrice, una sorta di agente che le aveva promesso di trovarle un impiego come “ragazza di casa” in città. Le era stato detto che se si fosse comportata bene, dopo un po’ sarebbe stata iscritta a scuola, un’opportunità che non aveva mai avuto. Su indicazioni del padre aveva messo i suoi pochi averi in una saccchetto di plastica nero e aveva seguito la donna. Questo accadeva due anni fa. Ad oggi non ha mai messo piede in una classe.

Safiya, la quarta datrice di lavoro di Aisha, ha due figlie di 12 e 14 anni e una madre anziana che tutti chiamano con affetto “Mama”. Aisha è stata assunta in particolare per accudire Mama, anche se i suoi compiti non si limitano a questo.

La casa di Safiya è una delle tante abitazioni della classe media di Sabon Tasha. C’è la corrente elettrica ma i blackout sono frequenti e di sera il rombo dei generatori riempie l’aria. La casa è attraversata da tubi ma non c’è acqua corrente e uno dei compiti di Aisha è andare avanti e indietro da una vicina pompa dell’acqua per riempire una cisterna di plastica da 150 litri.

Le figlie di Safiya frequentano entrambe una scuola privata in città. Non parlano molto con Aisha e lei si avvicina a loro nello stesso modo in cui si avvicina alla loro madre, ossia per ascoltare le loro istruzioni. Qualsiasi interazione prolungata viene vista con sospetto da Safiya e può costare delle percosse ad Aisha e un rimprovero alle ragazzine.

Le figlie di Safiya non fanno le faccende domestiche a parte lavarsi le uniformi scolastiche e andare di tanto in tanto a comprare qualcosa in un negozio vicino. Spesso, quando non trovano gli articoli desiderati nel negozio o si è fatto troppo tardi per loro per uscire (dopo le sette di sera) viene detto loro di dare i soldi ad Aisha, che farà le commissioni al posto loro. Aisha non ha il permesso di mandare le bambine a sbrigare commissioni né di richiedere il loro aiuto.

Le figlie di Safiya vanno a dormire alle nove di sera, un orario applicato con disciplina rigidissima. Aisha invece va a dormire solo dopo che Safiya non ha più bisogno dei suoi servizi, spesso alle dieci o anche più tardi.

Dopo che la famiglia è andata a dormire, in un angolo del salotto Aisha tira fuori un materasso legato e nascosto dietro una porta e lo srotola. È lì che ogni sera si crea la sua stanzetta.

“Mi alzo prima del fajr (la preghiera musulmana che precede l’alba). Pulisco le mie cose e spazzo il salotto, poi metto l’acqua a bollire per il bagno. Dopo le preghiere pulisco l’esterno, le stanze e la cucina, vado al mercato, lavo i vestiti, porto l’acqua e poi sto con Mama”, spiega Aisha in hausa, con gli occhi fissi sul pavimento. Il fatto che ci si rivolga a lei per così tanto tempo sembra preoccuparla. La sua voce è morbida e quasi impercettibile e mentre parla trascina le parole.

Riceve cibo due volte al giorno dai pasti che Safiya prepara per la famiglia; di mattina alle dieci circa, dopo che ha finito le sue faccende quotidiane, e alle quattro del pomeriggio, dopo che le figlie di Safyia sono tornate da scuola. Quando non sta facendo le faccende domestiche o svolgendo delle commissioni, Aisha trascorre gran parte del tempo seduta con Mama in salotto, a guardare la televisione perennemente sintonizzata su Zeeworld o su Africa magic. Anche se non capisce l’inglese, Aisha è affascinata da quello che vede sullo schermo.

Mama spesso ha dei vuoti di memoria e a volte cerca di uscire di casa. Aisha ha il compito di cercare di riportarla indietro, al sicuro sul divano. A parte fare commissioni e andare a prendere l’acqua, quelle sono le uniche occasioni in cui ad Aisha è permesso di uscire di casa, e anche in quel caso deve sbrigarsi a tornare. Non ha il permesso di avere amici, perché Safiya sostiene che le amicizie possono corromperla.

In cerca di una vita migliore
Aisha non è più tornata a casa da quando è partita e carpisce qualche informazione sulla sua famiglia solo quando la donna passa a trovarli per controllare che Safiya sia soddisfatta dei suoi servizi.

A Buda i suoi genitori non sanno di preciso dove si trovi la figlia e fanno affidamento sull’intermediatrice per avere informazioni su come stia. L’ultima volta che Aisha ha ricevuto notizie da casa la donna le ha detto che la sorella più piccola, Zainab, l’avrebbe presto raggiunta in città non appena si fosse trovato un lavoro anche per lei. Aisha sente la mancanza dei suoi genitori e di sua sorella, ma dice: “Qui si vive meglio… A casa le cose non sono facili”.

Le agenti sono un ponte tra clienti come Safiya e le famiglie di ragazzine come Aisha. Fanno ricorso a diversi metodi di reclutamento, tra cui le visite ai villaggi, il passaparola e l’affissione di manifesti con la scritta “Impiego” e il loro numero di telefono sui muri delle strade di quartieri a basso reddito. La strategia più preziosa è un sistema informale di referenze in cui clienti soddisfatti raccomandano l’agente ad amici e familiari alla ricerca di un aiuto in casa.

Spesso le agenti attirano le ragazze promettendo loro un’istruzione e la possibilità di guadagnare bene. Quando le famiglie firmano, le ragazze vengono trasferite dai villaggi a centri economici come Lagos, Abuja, Port Harcourt e le città vicine. Spesso queste famiglie sono in forti difficoltà economiche e nelle figlie vedono l’opportunità di avere un supporto finanziario. Molti genitori non si riescono quasi a permettere pasti quotidiani e cure mediche di base per i figli, perciò la prospettiva che qualcun altro si assuma la responsabilità della bambina offrendole anche uno stipendio è una tentazione troppo forte.

Una volta che un’agente si è fatta una reputazione nel villaggio, non ha più bisogno di andarci per reclutare nuove ragazze. Grazie alle raccomandazioni provenienti da famiglie con le ragazzine a servizio, l’agente cerca altre famiglie disposte a mandare le figlie a lavorare. In alcuni casi la prospettiva di un’opportunità di lavoro induce anche donne più adulte a firmare (anche se la maggior parte dei potenziali datori di lavoro preferisce assumere ragazze più giovani, ritenendole più accondiscendenti).

Le ragazze non vengono sottoposte a controlli preventivi, e nemmeno i datori di lavoro. La maggior parte dei clienti richiedono che le ragazze facciano le analisi per malattie infettive contagiose come l’hiv, l’epatite b, l’epatite c e la tubercolosi. Questo rappresenta spesso un costo aggiuntivo per il potenziale datore di lavoro, ma è una richiesta talmente diffusa che alcuni laboratori dispongono di “pacchetti di esami per collaboratrici domestiche” disponibili per chi ne fa richiesta. Un risultato positivo a una qualsiasi di queste malattie rende la ragazza non adatta e l’agente provvede a sostituirla.

L’“intermediaria”
Peace è un’agente di Abuja, la capitale del paese. Ha 38 anni e indossa un abito Ankara lungo fino al ginocchio e molto curato e nessun gioiello. Porta i capelli acconciati in trecce semplici, ma c’è una parrucca appesa a un chiodo sulla parete in un angolo del suo monolocale.

Peace vive a Mararaba, alla periferia della città. Nel suo piccolo monolocale c’è un materasso, qualche scatolone, un televisore e le scarpe allineate in un angolo. Sulla porta ci sono alcuni adesivi di appuntamenti religiosi e una Bibbia logora su uno dei cuscini del letto.

Peace racconta di aver cominciato questa attività perché era stufa di lavorare per altri. Al momento ha sei ragazze reclutate e sistemate in altrettante case in città e ne sta aspettando una settima dallo stato di Nasarawa che dovrebbe portare in una casa entro sera. Le ragazze e le donne coinvolte nella sua attività vanno dai 13 ai trent’anni e oltre. “Dipende da quello che vogliono i clienti”, spiega. “Alcuni clienti preferiscono ragazze più giovani, altri donne mature”. Le ragazze provengono da diverse parti del paese.

I clienti pagano a Peace una tariffa di diecimila naira (circa venti euro) prima che le ragazze o le donne vengano loro consegnate. Dopo pagano un salario mensile di trentamila naira – l’attuale minimo salariale nazionale – direttamente a Peace. Non ci sono contratti formali tra Peace e le ragazze e le donne reclutate. Prestano servizio nel posto a cui vengono destinate finché il cliente decide di non volere più i loro servizi. In tal caso Peace cerca di trovare nuove case in cui collocarle. Se una vuole lasciare il servizio deve contattare direttamente Peace e non può limitarsi a smettere di lavorare. Quando ciò avviene, Peace di solito ascolta le lamentele e cerca di convincerle a restare. Se non funziona sono lasciate libere di andare, ma vengono avvertite che non potranno può cercare altri lavori simili in futuro. In alcune rare occasioni è capitato che collaboratrici domestiche fuggissero via dai loro datori di lavoro. In queste situazioni le agenti hanno il compito di rimpiazzarle senza alcun costo per il datore di lavoro.

“Trattengo cinquemila dei trentamila naira”, spiega Peace. È la sua quota. “Mando ciò che resta ai genitori o, se lavorano per se stesse, consegno loro la differenza, 25mila naira”. La maggior parte delle ragazze come Aisha non scoprono mai quanto agenti come Peace ricevano dai loro datori di lavoro per i loro servizi. I clienti di Peace devono firmare un modulo di indennità in cui si impegnano a non trattare direttamente con le ragazze.

“Sono io a portarle, perciò tutte le lamentele e i problemi che hanno a che fare con le ragazze devono essere comunicati a me”, dice Peace.

Da “collaboratrice domestica” a imprenditrice
Peace è convinta di essere avvantaggiata, avendo lei stessa cominciato come “collaboratrice domestica”.

Nel 1996, all’età di 13 anni, è stata prelevata da un tranquillo paesino nei pressi di Ikom, nello stato di Cross river, situato nella parte meridionale della Nigeria, per essere condotta nella vivace città di Lagos, a 14 ore di macchina.

“Un giorno due donne e una delle mie zie sono venute a trovare la mia matrigna. Sono entrate e hanno parlato per un po’. Mentre se ne stavano andando la mia matrigna mi ha chiesto di seguirle. Sarei andata a lavorare per una donna a Lagos. Non c’era bisogno di portare nulla con me”, racconta Peace. “Una delle donne mi ha portata a casa sua e una volta arrivate mi ha dato un vestito per cambiarmi, perché quello che indossavo era lacero. Il giorno dopo alle cinque del mattino siamo andate in una stazione di autobus e siamo partite per Lagos”.

Peace non mostra emozioni mentre ricorda l’esperienza. Quando le chiedo come si fosse sentita, fa una breve pausa e poi risponde che è stata la volontà di dio. “ Se fossi rimasta al villaggio non so se sarei ancora viva oggi”, aggiunge.

A differenza di Aisha, Peace ha avuto il privilegio di ricevere un’istruzione. La sua datrice di lavoro a Lagos l’ha iscritta alla scuola pubblica. Sette mesi dopo però, avendo dovuto lasciare la casa della sua datrice di lavoro, è stata costretta a lasciare la scuola e da allora non ci è più tornata.

Dopo quella sistemazione, Peace è andata di casa in casa facendo le pulizie. Nel 2020 ha deciso di iniziare a fare l’agente. Ritiene la sua un’attività altruistica, un modo per “aiutare le ragazze”.

“Qui la vita è migliore per loro”, spiega. “La città offre loro molte opportunità. Se restano al villaggio non fanno che soffrire e presto qualcuna resta incinta e fine della storia. Qui possono andare a scuola o risparmiare qualcosa per avviare un’attività tutta loro”, ripete con convinzione.

La storia di molte ragazze comincia come quella di Aisha, con tutti i possibili “vantaggi” elencati da Peace a motivare la decisione: si trasferiscono tutte nelle città per avere la possibilità di sostenere le loro famiglie, per risparmiare i soldi necessari ad avviare una loro attività, per frequentare la scuola. Alla fine a essere palpabile è un unico, grande tema: la necessità di sottrarsi a una povertà paralizzante.

L’esodo verso le città è sempre un viaggio tentatore verso la possibilità di un futuro migliore. Per poche il sogno si realizza. Trovano case in cui vengono trattate in modo dignitoso o hanno accesso a un’istruzione. Questi casi però sono rari. Le storie di abusi ai danni di collaboratrici domestiche sono talmente diffuse da essere un tema ricorrente persino nei film di Nollywood.

Abusi fisici, sessuali, emotivi e psicologici sono comuni. A maggio del 2017 un caso di abusi è finito sui quotidiani locali: Miracle Edogwu, otto anni, sarebbe stata picchiata a morte dalla sua datrice di lavoro, una donna d’affari di Lagos di cui si rivelava solo il nome, Oby. I mezzi d’informazione locali sono pieni di molti altri casi di abusi che vanno dalle scottature con l’acqua calda alle percosse quasi letali.

Peace ammette l’esistenza di rischi. “Tutto è un rischio”, dice. “Se succede qualcosa hanno il mio numero. Mi chiamano”. La maggior parte delle ragazze però non possiede un telefono e la comunicazione è spesso possibile solo attraverso le datrici di lavoro o grazie alla benevolenza casuale di altri. È dunque molto più difficile per loro chiedere aiuto nelle situazioni più disperate.

Un sistema non regolamentato
A causa della loro ignoranza, agenti come Peace non riescono a capire le possibili conseguenze delle loro azioni. Nel 2018 la National agency for the prohibition of trafficking in persons (Naptip) ha riferito che in Nigeria ci sono circa 15 milioni di bambine impiegate in lavori domestici.

La legge Naptip del 2015 avverte che “chiunque dia lavoro, richieda, recluti, trasporti, ospiti, riceva o assuma una bambina di età inferiore ai 12 anni in qualità di collaboratrice domestica commette un reato e può essere condannato a una pena detentiva”. La norma fissa a 12 anni il limite di età.

Isaiah, che lavora per la Naptip e parla a condizione di poter restare anonimo per timori di punizioni professionali, spiega che il governo dispone di strutture per prendersi cura di bambine trovate in queste situazioni. Al momento la Naptip gestisce in tutto il paese otto strutture di questo tipo, dove la permanenza è consentita fino a sei settimane. Alle bambine soccorse vengono forniti anche supporto e percorsi di riabilitazione. Le vittime che hanno bisogno di cure per un periodo più lungo vengono trasferite ad altre organizzazioni non governative.

Quando si viene a conoscenza di un minore al di sotto dell’età minima impiegato in lavori domestici, lo si segnala a unità che si occupano di monitorarlo e fare delle indagini. “Un grande ostacolo alle condanne però è rappresentato dalle relazioni familiari, nei casi in cui le persone coinvolte rifiutano di avallare un’azione legale”. Isaiah sottolinea il ricorso a campagne di sensibilizzazione pubblica finalizzate alla corretta informazione sulle leggi concernenti le collaboratrici domestiche. A suo avviso questo potrà contribuire a prevenire queste situazioni.

Nel 2003 la Nigeria ha adottato il Child rights act (Cra), che definisce bambino “chiunque sia minore di 18 anni”. In sintesi la legge stabilisce che “in ogni azione riguardante un bambino, sia essa intrapresa da un individuo o da un ente pubblico o privato, l’interesse del minore dovrà essere considerato prioritario”. Nella sezione 11 si sottolinea: “Un bambino ha il diritto al rispetto della dignità della sua persona e, dunque, nessuno bambino può essere soggetto a violenze fisici, mentali o emotivi, ad abusi, a incuria o a maltrattamenti, compresi gli abusi sessuali; nessun bambino può essere ridotto in schiavitù o servitù fintantoché si trova sotto la custodia di un genitore, un legale rappresentante, un’autorità scolastica o qualsiasi altra persona o autorità che abbia la responsabilità di prendersene cura”.

Il Cra è stato adottato dalla maggioranza degli stati nigeriani, compreso il Kaduna, dove vive Aisha, e Abuja, dove lavora Peace. Tuttavia Richard Ali, un avvocato e scrittore di Abuja che ha avuto delle esperienze con casi di questo tipo afferma: “Pensare a delle leggi che proibiscano il lavoro minorile, soprattutto quello domestico, in base a quanto stabilito dal Cra non risolve il problema. Il vero sforzo da fare è di tipo sociologico. Dobbiamo promuovere un riconoscimento culturale dell’infanzia e offrire un’alternativa al lavoro domestico, come l’istruzione formale o la formazione professionale. La prima non è stata fatta, l’ultima non si è ancora vista”.

L’avvocato e attivista per i diritti umani Ugochukwu Amasike dà la colpa della mancata attuazione di leggi di questo tipo alla carenza di sistemi sicuri per proteggere i bambini. “Queste politiche non possono funzionare senza un sistema in grado di garantire i bisogni primari di un bambino. Possono ricevere un’assistenza sanitaria dignitosa? Quando i bambini vengono prelevati da queste case sono poi rimandati nello stesso ambiente che li ha fatti finire in quel tipo di traffico?”.

Dominic Ega, funzionario pubblico che lavora a stretto contatto con il governo dello stato del Kaduna, non è d’accordo e dà invece la colpa alle norme socioculturali. “Come qualsiasi governo, non possiamo individuare questi casi se le persone benintenzionate non li denunciano allo stato. Se ce ne sono ancora così tanti lì fuori è perché i familiari di questi bambini e l’intera comunità trae benefici o è a favore di questa pratica.

Il futuro
Per le ragazze che, come Aisha, si trasferiscono in città le delusioni arrivano molto presto. È raro che si possano iscrivere a scuola. Guadagnano a mala pena di che far sopravvivere le loro famiglie, figuriamoci se può bastare a farle uscire dalla povertà. Sono intrappolate in un ciclo di mera sopravvivenza. Aisha adesso pensa solo a lavorare bene così da non essere più costretta a fare le valigie.

“Mi piace lavorare per Safiya”, spiega. “Il lavoro non è difficile”. Aggiunge che ringrazia Safiya perché la picchia molto raramente.

Per Maryam Aliko, fondatrice di Mariacutty, un’organizzazione no profit che lavora sull’emancipazione femminile, queste aspettative molto basse sono un meccanismo di adattamento. “Il sistema del servizio domestico non ha alcuna regolamentazione professionale, perciò sarà sempre soggetto ad abusi. Quando queste ragazze vengono lasciate andare, nella maggior parte dei casi non hanno reti di protezione. Andando via le ragazze possono trovare altre case in cui essere sistemate o tornare ai loro villaggi, che però sono posti in cui non si sentono più a loro agio. Dopo essere state in città il villaggio non basta più. Nel giro di poco tempo restano vittime di altri sistemi di sfruttamento come la prostituzione”.

Una popolazione numerosa e alti livelli di povertà sono secondo Maryam i due principali fattori che tengono in piedi il sistema. “Non esiste un’anagrafe delle collaboratrici domestiche, né abbiamo dati sulle agenti. Per quanto sia molto diffuso, questo settore dei servizi è invisibile. Per questo è diventato terreno di caccia per altri servizi, tra cui il traffico di esseri umani per lo sfruttamento sessuale e le fabbriche di neonati”.

L’aumento dell’insicurezza e degli spostamenti a cui le persone sono costrette da gruppi armati come Boko haram e altri banditi nella regione nord-orientale ha di fatto fornito al settore un numero enorme di bambine vulnerabili. Maryam e altri hanno iniziato a chiedere regolamenti e politiche per tenere sotto controllo il sistema. “È necessario creare delle politiche affinché il settore del lavoro domestico sia una parte credibile del mondo del lavoro. Potremo così controllare il reclutamento di lavoratrici al di sotto dei limiti di età. Chi invece ha i requisiti può ricevere una formazione e intraprendere il lavoro domestico con le competenze giuste. Si deve riconoscere il sistema del lavoro domestico come uno strumento di emancipazione per le donne. Sono soprattutto le donne della famiglia a reclutare collaboratrici domestiche che le aiutino a gestire la casa mentre loro perseguono i loro obiettivi”.

Il tono di Safiya tradisce una leggera irritazione quando si lamenta che Aisha non è poi così efficiente. Dice che a volte è lenta a svolgere le sue incombenze e che di tanto in tanto dorme oltre l’orario consentito. Quando le si chiede dell’istruzione di Aisha, appare sorpresa anche solo per il fatto che la cosa venga presa in considerazione. “Non è qui per questo”, risponde.

Facciamo ad Aisha la tipica domanda che si fa ai bambini: “Cosa vuoi fare da grande?”. Le ridacchia e risponde piano, in hausa: “Ban sani ba” (“Non lo so”).

Le ragazzine come Aisha, i cui sogni si sono lentamente dissolti sullo sfondo di una cruda realtà, riescono a pensare al massimo a come superare la giornata. Hanno poche speranze e poche delusioni. E la consapevolezza che se è vero che le cose potrebbero migliorare, è molto più probabile che andranno peggio.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è uscito su Al Jazeera.

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