07 marzo 2024 09:59

“Cara Federica, non va molto bene. La vita nella scuola è impossibile. Si muore di fame e di sete. E di freddo. Nessuno ha vestiti pesanti. Ieri non riuscivo a dormire dal freddo e mio padre mi ha dato una delle sue coperte. Che dire, Federica? Abbiamo perso tutto. Abbiamo perso la cosa più importante che avevamo, abbiamo perso la nostra dignità”. Mona Ameen ha 32 anni, è una studiosa e ricercatrice della Striscia di Gaza, con una specializzazione in letteratura inglese all’Islamic university. Ma da quando è cominciata l’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza, in seguito all’attacco di Hamas contro Israele il 7 ottobre, Mona Ameen è diventata una tra le quasi due milioni di persone costrette a lasciare le loro case in cerca di un rifugio dai bombardamenti israeliani.

Dopo essere scappata da Beit Hanun, la città in cui viveva nel nord della Striscia, e aver trascorso circa un mese a Gaza, Ameen ha intrapreso la pericolosa strada verso sud insieme ai genitori e ai fratelli. Da metà novembre ha trovato rifugio in una scuola a Rafah, la città in cui centinaia di migliaia di sfollati vivono ammassati alla frontiera chiusa con l’Egitto, sotto la minaccia di un imminente attacco di terra dell’esercito israeliano.

Nonostante le condizioni di vita catastrofiche e le difficoltà tecniche, Mona Ameen è riuscita a tenersi in contatto con un gruppo di ricercatori e ricercatrici dell’università di Milano-Bicocca, con cui da circa dieci anni collabora attraverso il laboratorio Health, psychology and conflict, coordinato dal professor Guido Veronese. Federica Cavazzoni, ricercatrice al dipartimento di scienze umane dell’università e destinataria dei messaggi telefonici inviati da Mona Ameen, racconta che dal 2015 al 2020 il lavoro del gruppo si è concentrato sulla vita dei bambini palestinesi e “sulla loro quotidianità all’interno di contesti connotati da oppressione, violenza politica e coloniale”.

Negli ultimi quattro anni le indagini si sono spostate sulle strategie di sopravvivenza e resistenza delle donne in Palestina. “Quanto poco sappiamo, diceva Mona, del femminismo palestinese indigeno, delle sue pratiche, della sua vitalità”, spiega Cavazzoni. Il 14 novembre 2023 era previsto un incontro online per discutere i dati raccolti da Ameen e dalla sua collega Rozyan Abu Hawila, ma “rispettare l’appuntamento non è stato possibile perché a quel punto Mona e la sua famiglia erano già sfollate”, prosegue Cavazzoni.

Nei racconti del suo quotidiano che ha condiviso con i colleghi (qui si può leggere la versione integrale), Mona Ameen racconta la lotta per la sopravvivenza e riflette sulle conseguenze del conflitto su chi lo subisce. “Ci si espone a tutti, si perde la propria privacy e se stessi. Per andare in bagno bisogna aspettare almeno un’ora, non è facile fare la doccia, né lavarsi i denti o i capelli. Quando mi guardo allo specchio vedo quanto è cambiato il mio aspetto, quanto sono dimagrita. Non ti riconosci, ti senti come un’altra persona in un altro mondo. La guerra ha cambiato i nostri corpi e i nostri volti. Cara Federica, non so se puoi capire come la guerra può lasciarti senza niente. Finisce che non riesci più a riconoscere e ritrovare nemmeno te stesso”.

Senza precedenti

“A volte un disastro è così grande che oscura i dettagli”, ha scritto sul Guardian la giornalista Nesrine Malik. E nella Striscia di Gaza il dettaglio sta nel fatto che le donne e le ragazze pagano un prezzo enorme. Con una doccia ogni duemila persone e un bagno ogni cinquecento è impossibile curare la propria igiene. A causa della mancanza di prodotti chi ha le mestruazioni usa pezzi di tessuti di tende, vestiti o lenzuola al posto degli assorbenti, aumentando il rischio di infezioni.

Circa cinquantamila donne sono incinte e il 40 per cento delle gravidanze è classificato come ad alto rischio. Secondo le Nazioni Unite ogni giorno 180 donne partoriscono senza medici, infermiere e ostetriche; senza farmaci, anestesia e antidolorifici. I bambini nascono per terra, i cordoni ombelicali sono tagliati con qualunque oggetto affilato a portata di mano. È impossibile sterilizzare gli oggetti, le tinozze sono riempite di acqua bollente per tenere i neonati al caldo. Le madri non mangiano abbastanza per allattare i loro figli e quando il latte in polvere è disponibile non c’è acqua potabile con cui mescolarlo. L’Organizzazione mondiale della sanità ha denunciato che i bambini hanno cominciato a morire di fame nel nord della Striscia di Gaza.

L’agenzia delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere Un Women ha stimato che dall’inizio dell’offensiva militare le forze israeliane hanno ucciso novemila donne, anche se il numero potrebbe essere superiore perché molti cadaveri sono ancora sepolti sotto le macerie dei bombardamenti. In media continuano a morire 63 donne al giorno. E ogni giorno sono uccise 37 madri, che lasciano famiglie devastate e bambini senza protezione. In un comunicato pubblicato il 1 marzo si legge: “Anche se questa guerra non risparmia nessuno, i dati di Un Women mostrano che uccide e ferisce le donne in modi senza precedenti”.

Attraverso le parole di Mona Ameen in questi racconti, diventiamo consapevoli delle quotidiane azioni di sopravvivenza e di resistenza delle donne all’interno della Striscia di Gaza, e di come poter pensare e ripensare alle pratiche femministe. Scrive Ameen: “Essere femminista durante un genocidio vuol dire, per me, amplificare la voce degli oppressi e il loro sguardo. Far luce su come noi donne lottiamo per avere giustizia in mezzo a queste indicibili atrocità”. Secondo Un Women, nonostante l’aumento delle ostilità, l’83 per cento delle organizzazioni femminili attive nella Striscia di Gaza è operativa, almeno in parte.

Per le femministe palestinesi in Medio Oriente e per quelle della diaspora il legame tra dominazione maschile e oppressione coloniale è evidente. Il Palestinian feminist collective, con sede negli Stati Uniti, si descrive per esempio come “un’organizzazione di femministe palestinesi e arabe impegnate nella liberazione palestinese, anche dalla sistemica violenza di genere, sessuale e coloniale, dall’oppressione e dall’espropriazione”. In modo simile, il Women’s centre for legal aid and counselling, un’organizzazione non governativa con sede a Gerusalemme, risponde alla “necessità di affrontare la discriminazione e la violenza contro le donne all’interno della società palestinese e al bisogno di sostenere la battaglia nazionale per la libertà e l’indipendenza dall’occupazione israeliana”.

Federica Cavazzoni cita la studiosa Nadera Shalhoub-Kevorkian, secondo cui la liberazione palestinese è una bussola cruciale per l’etica femminista. E aggiunge: “Ci sono molti stereotipi orientalisti sulle donne in Palestina, ritratte il più delle volte come vittime indifese da salvare benevolmente dalla loro stessa cultura o religione. Si nega loro un’identità e una soggettività complessa, in modo da nascondere e normalizzare la violenza e la dominazione coloniale”.

In un articolo su Al Jazeera Maryam Aldossari, ricercatrice esperta di disuguaglianze di genere in Medio Oriente, si chiede perché la maggioranza delle femministe occidentali ignora le sofferenze delle palestinesi. La sua spiegazione conferma l’analisi di Cavazzoni: “Il loro tipo di femminismo percepisce le donne palestinesi come oppresse innanzitutto non da Israele o da un’altra forza esterna, ma dagli uomini palestinesi. Per loro le donne palestinesi hanno poca o nessuna capacità di azione e sono vittime di una società che ha la violenza di genere radicata nel profondo”. Questo approccio, continua Aldossari, fa parte di “uno sconcertante modello storico, una forma di femminismo permeato di pregiudizi e preconcetti coloniali e imperiali”. In questo moderno “femminismo coloniale” la retorica di “liberare le donne nasconde atti di violenza più profondi”, giustifica invasioni e occupazioni, e nega alle palestinesi il loro diritto alla resistenza. Essenzialmente, conclude Aldossari, “l’empatia selettiva delle femministe occidentali serve a rafforzare le strutture di potere che perpetuano il ciclo della violenza”.

Cavazzoni e le sue colleghe si sono interrogate su come portare avanti nelle società occidentali pratiche femministe che tengano conto della devastazione in corso nella Striscia di Gaza. Sarah Ihmoud, antropologa e attivista chicana-palestinese, docente al College of the holy cross di Worcester, negli Stati Uniti, e tra le fondatrici del Palestinian feminist collective, ha partecipato al progetto di ricerca sul femminismo palestinese con Mona Ameen. In una riflessione condivisa con Cavazzoni ha scritto: “Dire la verità come forma di femminismo durante un genocidio vuol dire rifiutare le narrazioni coloniali e affermare il potere e la creatività della forza vitale che abbiamo sempre posseduto e coltivato come donne indigene, e che abbiamo esercitato per smantellare il colonialismo, mettendo in crisi la sua prepotenza”. Il femminismo è anche un modo per “interrompere con coraggio la compiacenza e denunciare a gran voce la violenza”. Allo stesso tempo vuol dire “continuare ad amarci e affermare la nostra lotta comune per la vita, che espone le debolezze e le vulnerabilità del progetto coloniale. Il nostro amore è una forma di femminismo decoloniale perché è l’amore rivoluzionario che ci dà il coraggio di continuare la lotta per affermare la vita e il futuro dei palestinesi”.

In questo contesto il femminismo può essere un modo per creare legami e superare le distanze e il senso d’impotenza, dice Cavazzoni. “Praticare femminismo è stato anche ritrovarsi in comunità di persone sconosciute ma di famiglia, stringerci insieme nello spazio del lutto, per permetterci una guarigione collettiva”, spiega la ricercatrice. “In questi mesi i palestinesi e le palestinesi ci hanno ancora una volta mostrato come fare femminismo, esortandoci a riconoscere e rifiutare la brutalità coloniale che ci condanna a un mondo mostruoso e violento, per lavorare insieme a favore di un futuro senza colonialismo, in una lotta di liberazione vitale di tutti i popoli”.

Nel suo diario dalla Striscia di Gaza Mona Ameen scrive che essere femministe in questo momento “significa dire la verità”. In uno dei suoi ultimi aggiornamenti ha chiarito: “Per come lo vedo io, il femminismo è un movimento che agisce per mettere fine alla violenza e all’oppressione. Il mio messaggio a tutte le donne e le femministe libere del mondo è di continuare a parlare dei palestinesi, dite che non siamo numeri, usate i vostri spazi per diffondere le nostre parole, mostrate solidarietà con la Palestina. La partecipazione delle femministe deve tradursi in azioni, anche molto piccole, che fanno una grande differenza per noi”.

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