09 aprile 2020 12:20

I bambini e i ragazzi sembrano correre meno rischi di contagio degli adulti con il nuovo coronavirus: per ora non è ancora una certezza ma di certo una tendenza statistica con buoni riscontri scientifici, che devono però essere confermati, anche perché le cose cambiano di giorno in giorno. “In tutta Italia non abbiamo avuto decessi in età evolutiva, tra zero e 18 anni, né casi gravi, cioè che hanno richiesto il ricorso alla terapia intensiva. Solo ieri abbiamo avuto notizia della morte di una bambina malata di covid-19 ma anche affetta da una gravissima patologia pregressa”.

A spiegarlo è Alberto Villani, responsabile di pediatria generale e malattie infettive all’ospedale Bambino Gesù di Roma ed esponente del comitato tecnico-scientifico per l’emergenza coronavirus, l’organismo che sta orientando le strategie di risposta alla pandemia decise dal governo.

Negli ultimi giorni, tuttavia, sono morti due adolescenti in Francia e in Belgio, e un bambino di cinque anni nel Regno Unito. “È chiaro”, osserva Villani, “che per notizie come questa bisogna capire se questi soggetti avevano delle comorbilità”. In ogni caso resta il fatto che “in età evolutiva il nuovo coronavirus sembrerebbe essere meno aggressivo e violento di quanto non accada negli adulti, soprattutto negli uomini, e negli anziani”. Certo, più si diffonde il virus più aumenta di conseguenza il rischio per tutti, da qui l’insistenza degli esperti per le misure di distanziamento sociale: “Forse in Italia quello che ha funzionato bene è stato proprio il modello di contenimento”, rileva Villani.

Paure opposte
La lotta per sconfiggere il covid-19 vista dalla parte di chi cura i bambini assume caratteristiche particolari: da una parte la pressione sulle strutture è minore, dall’altra, però, i casi trattati sono spesso estremamente complessi e delicati (per esempio quando si tratta di ragazzi affetti da autismo con gravi problematiche familiari, oppure di neonati), anche per il coinvolgimento delle famiglie.

Il Bambino Gesù è famoso per essere l’ospedale del Vaticano, ma soprattutto è un centro di fama internazionale di pediatria, oggi inserito nel coordinamento delle strutture sanitarie messo a punto dalla regione Lazio per rispondere all’emergenza. La sede storica è sul Gianicolo, a poche centinaia di metri da San Pietro, ma il covid hospital pediatrico è stato allestito nella sede di Palidoro, nel comune di Fiumicino, vicino a Roma. Qui c’è più spazio per gestire i casi di covid-19 in ambienti sicuri. Al Gianicolo continuano ad affluire i pazienti tradizionali. “Oggi per esempio abbiamo realizzato un trapianto di fegato”, racconta Mariella Enoc, presidente dell’ospedale, manager di lungo corso nella sanità e non solo.

Il rischio è che le famiglie di giovani pazienti con malattie serie si rivolgano tardi all’ospedale per timore del virus

Uno dei problemi più seri che sta venendo alla luce è la paura di tante famiglie di portare in ospedale bambini o ragazzi malati anche con gravi patologie per timore di essere contagiati dal virus. “L’epidemia”, spiega il professor Villani, “ha evidenziato alcune situazioni, estremizzandole: che si facesse un uso improprio del pronto soccorso lo si sapeva, e che non ci fosse sempre la necessità di portare il bambino al pronto soccorso pure. In questo senso c’è un prima e un dopo coronavirus. Ora si rischia all’opposto di non portarcelo anche quando è necessario per delle paure immotivate”.

Gli accessi al pronto soccorso sono calati del 70 o 80 per cento, troppo anche rispetto alle esagerazioni precedenti. “Due bambini con patologie non gravi e non affetti da covid-19 sono arrivati tardi in ospedale e sono morti”, racconta Mariella Enoc.”Bisogna avere grande equilibrio”. Per le famiglie non sempre è facile. I problemi così si accavallano: da una parte la gestione dell’emergenza incombe, dall’altra il rischio è che pazienti con malattie serie scelgano di non farsi curare per timore del virus. Per questo al nosocomio pediatrico è stato potenziato un servizio di consulto telefonico con le famiglie. Si cerca così di seguire almeno i casi già noti tra i pazienti tradizionali. Inoltre è stata avviata una forma di consulenza telefonica con pediatri di famiglia e ospedalieri: “Stanno chiamando da tutta Italia”, osserva Enoc.

Il 2 aprile i pazienti affetti da covid-19 ricoverati presso l’ospedale erano nove, più quattro genitori. Ma il problema vero nella gestione della crisi sono i casi sospetti: sono più di 700 quelli trattati e ne arrivano diverse decine ogni giorno. “Mentre i pazienti malati di covid-19 li puoi tenere insieme, due casi sospetti devi affrontarli separatamente. Per questo sono decisivi i percorsi di assistenza che costruisci, che non devono far incrociare i pazienti gli uni con gli altri”, spiegano all’ospedale.

L’importanza della formazione
Puoi avere insomma il medico più bravo del mondo, ma se il percorso di assistenza non funziona non ci saranno risultati positivi. Nel frattempo è scattata anche una sorta di solidarietà tra ospedali: il Bambino Gesù ha accolto nella sede del Gianicolo pazienti gravi ma non affetti da covid-19 provenienti da altre strutture della regione, e anche da Bergamo e da Brescia per alleggerire ospedali già sotto forte pressione per via dell’epidemia.

C’erano casi molto gravi che dovevano arrivare dalla Libia e dal Venezuela, ma ora i voli sono interrotti

Decisivo in ogni caso è avere personale medico e infermieristico che si dedica solo al covid-19. Medici e infermieri del Bambino Gesù, nelle prime settimane di diffusione del virus, si sono formati allo Spallanzani, l’ospedale romano specializzato in malattie infettive. I pazienti all’inizio venivano trasferiti lì. “Serve personale medico e infermieristico che faccia solo questo”, afferma Alberto Villani, “perché altrimenti l’ospedale può diventare veicolo di contagio, come abbiamo già visto. I bambini arrivano accompagnati da genitori che sono potenzialmente infetti anche loro, per questo è opportuno che ci siano medici e infermieri che lavorano solo con questi pazienti”. Saranno più preparati e commetteranno meno errori: “Per esempio sanno vestirsi e svestirsi meglio con i dispositivi di protezione, si relazionano nel modo giusto con i pazienti, è più difficile che contraggano l’infezione. Invece se il personale cambia di continuo, non ha competenze e possono sorgere problemi”.

Di prassi un paziente che arriva in ospedale per un sospetto contagio viene isolato insieme alla famiglia. Se il test dà esito negativo, viene liberato dall’isolamento. Se invece il risultato è positivo, anche se non c’è malattia conclamata, si procede al ricovero fino a quando il tampone non dà esito negativo. I tempi per avere il risultato sono relativamente brevi, tra le 6 e le 8 ore. Il Bambino Gesù si è dotato di un macchinario nuovo in grado di dare una risposta – sempre per un tampone di tipo nasale – in un’ora e mezza (altri due strumenti dello stesso tipo sono stati presi da ospedali lombardi) e controlla per sicurezza anche ogni bambino sottoposto a intervento chirurgico. L’importante è avere un laboratorio certificato dalla regione in grado di analizzare i campioni, e non tutti gli ospedali ne hanno uno. Dal punto di vista economico il costo vero resta però quello del personale: far funzionare un laboratorio a ciclo continuo, 24 ore su 24, non è una cosa banale.

Collaborare a distanza
La pandemia ha avuto un impatto negativo anche sulla cooperazione sanitaria internazionale, un’attività completamente interrotta. “Tutti i voli sono bloccati”, sottolinea Enoc, anche se c’è stata proprio di recente “una collaborazione straordinaria con il governo italiano e con l’aeronautica per trasportare il midollo per un bambino, che altrimenti sarebbe morto”. Un aereo dell’aeronautica militare ha potuto superare, in via eccezionale, le restrizioni dovute al nuovo coronavirus. È stato quindi possibile prelevare le cellule staminali di un donatore turco e trasportarle urgentemente a Roma per un bambino italiano di due anni in attesa di trapianto al Bambino Gesù.

Ma se questo è il caso fortunato, su altri versanti la situazione resta difficile. “Cerchiamo di collaborare a distanza, usando le nostre piattaforme”, spiega Enoc, “però quelli che non possono essere curati non ce la fanno. Alcuni bambini dovevano arrivare dalla Libia e dal Venezuela: casi molto gravi che non riescono più a raggiungere l’Italia”.

Una difficile esperienza da cui tuttavia è possibile trarre insegnamenti utili: “In futuro”, osserva Enoc, “useremo di più la telemedicina e il teleconsulto, certo non in modo superficiale, non deve diventare una banalità. Dovrà essere approvata dai responsabili politici e superare la fase dell’attività volontaria come è ora. Serve una validazione scientifica. Questo cambierà tante cose anche negli afflussi in ambulatorio. L’ospedale si dovrà riorganizzare, daremo un seguito a ciò che stiamo sperimentando in questa emergenza. Le psicologhe, per esempio, stanno contattando a distanza i bambini autistici e in alcuni casi riescono a ottenere dei buoni risultati. Si tratta di un esito davvero insperato” .

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