21 marzo 2017 14:19

“Qualche anno fa, a Urumqi, hanno messo una statua che raffigurava un uiguro povero che trasportava un ricco han su un risciò. Le proteste sono state tante e tali che sono stati costretti a toglierla”.

Qaysar (il nome è inventato) da studente è emigrato negli Stati Uniti e oggi vive ancora lì. Siamo amici da diversi anni e si fa vivo su Skype proprio mentre sto scrivendo un pezzo sullo Xinjiang, la sua terra, la regione dell’estremo occidente cinese teatro di un conflitto a bassa intensità tra la popolazione uigura – turcofona, musulmana e originaria di lì – e le autorità di Pechino. È un caso che lui salti fuori così all’improvviso, ma capita a pennello. Per me è l’occasione di avere qualche notizia “dal fronte”: cosa succede, cosa sono queste nuove misure antiterrorismo? Non sa nulla o non mi dice nulla, nonostante gli garantisca l’anonimato. Spesso gli uiguri che hanno scelto di rifarsi una vita all’estero preferiscono eludere il problema, concentrarsi sul proprio particulare.

Però, proprio lui che fino a qualche anno fa si definiva “cinese” e che teorizzava la possibilità di essere sia musulmano sia comunista è scosso, indignato, e tira fuori quella vecchia storia della statua. “Vogliono farci vedere ancora una volta che sono migliori di noi, capisci?”.

“Loro” e “noi”. I cinesi han e gli uiguri.

L’episodio al quale si riferisce Qaysar sono le enormi parate militari che le autorità dello Xinjiang hanno organizzato a Hotan, Kashgar e Urumqi, le principali città della regione.

Una prova di forza senza precedenti
Servono a dire che Pechino s’impegna a combattere fino all’ultimo sangue “il terrorismo”, il separatismo e – più recentemente – il radicalismo islamico. Una prova di forza senza precedenti dopo alcuni episodi violenti piuttosto circoscritti, anche se sanguinosi, avvenuti tra dicembre e febbraio: aggressioni all’arma bianca, di cui poco si riesce a sapere. L’ultimo, il 15 febbraio: nella prefettura di Hotan, tre uiguri assaltano i passanti con dei coltelli, ne ammazzano cinque; arriva la polizia e li fredda lì, sul posto. Radio Free Asia riporta che il giorno prima uno degli assalitori era stato sanzionato per “attività religiosa illegale”. A chi credere?

Da anni si disquisisce sull’uovo e la gallina: è la repressione che provoca gli incidenti o sono gli incidenti che provocano la repressione? Fatto sta che nello Xinjiang non tira per niente una bella aria, soprattutto ultimamente.

Il nuovo leader locale del Partito comunista, Chen Quanguo, avrebbe importato le nuove misure dal Tibet, dove ha ricoperto lo stesso incarico

La più recente ondata di misure antiterrorismo implica, tra le altre cose, la requisizione dei passaporti dell’intera popolazione – sia uiguri sia han, in questo caso – l’obbligo, in alcune aree, di partecipare a speciali sedute collettive organizzate dai quadri locali, la presenza sempre più capillare delle forze di sicurezza sul territorio. E, come forse è successo nell’episodio di Hotan, il divieto di preghiere collettive al di fuori dei luoghi di culto “ufficiali”. Neanche a casa propria.

Ho chiesto a un esperto di Tibet – Robbie Barnett, direttore di studi tibetani alla Columbia university di New York – di spiegarmi cosa sta succedendo. Perché a un esperto di Tibet, se parliamo di Xinjiang? Perché pare che le nuove misure siano state importate nella regione dal nuovo leader locale del Partito comunista, Chen Quanguo, che prima ricopriva la stessa carica proprio in Tibet. Insomma, sull’altopiano le ha sperimentate, nello Xinjiang le sta applicando su ampia scala.

Fare carriera
Senza negare che la Cina abbia effettivamente un problema di terrorismo, Barnett mi ha spiegato che in una regione così importante come lo Xinjiang, che deve diventare la stazione di partenza della nuova “via della seta” cinese, “mettere le cose a posto” serve a fare carriera.

“I ‘ragazzi’, cioè gli alti funzionari, in Tibet e nello Xinjiang sono i rottweiler del partito e si giocano la carriera con politiche molto aggressive. Se va male, sono rovinati; se va bene, salgono in alto”. In questo caso, se fa bene il suo lavoro, il signor Chen avrà un’ottima chance di entrare il prossimo autunno nella stanza dei bottoni, la commissione permanente del comitato centrale, in parole povere, il gruppo di sette persone che di fatto governano la Cina.

Ma sul lungo periodo, il lavoro del signor Chen sarà davvero un “buon lavoro”? Non lo so. Penso alla rabbia del mio pacifico amico uiguro a migliaia di chilometri di distanza da casa sua e provo a immaginarmi cosa può provare chi si sente sotto pressione ogni santo giorno.

Manco dallo Xinjiang dal 2013, credo che sia ora di tornarci, se mi sarà consentito. Una delle ultime immagini che ricordo è quella di un checkpoint sull’autostrada tra Turfan e Urumqi, dove un poliziotto mi restituì il passaporto sorridendo e dicendomi: “Benvenuto nello Xinjiang”. Di fianco a me, un contadino uiguro veniva perquisito da cima a fondo senza troppi complimenti e il suo bagaglio, un grande sacco di iuta, veniva svuotato sul pavimento.

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