13 luglio 2017 16:43

Scrittore dissidente, già presidente del Pen club cinese, Liu Xiaobo era stato arrestato nel dicembre del 2008 in quanto firmatario e promotore di un manifesto politico, Charta 08, a cui avevano aderito 350 intellettuali cinesi e che chiedeva sostanzialmente la fine del sistema a partito unico. Nel 2009 gli era stata formalizzata l’accusa di “incitamento alla sovversione del potere dello stato”. Nel dicembre del 2009 si svolse il processo che lo condannò a 11 anni di reclusione. Nel 2010 aveva ricevuto il premio Nobel per la pace in absentia con la motivazione ufficiale che recitava: “Per la sua lunga e non violenta lotta a favore dei fondamentali diritti umani in Cina”.

La solidarietà e l’empatia per l’uomo Liu Xiaobo prescindono totalmente da valutazioni di merito sull’intellettuale Liu Xiaobo. Se avessi avuto la fortuna di incontrarlo ai tempi di Charta 08, probabilmente avrei cercato di stanare il neoliberismo insito nel suo pensiero politico. Se non fosse stato sbattuto in galera e avessimo concordato un’intervista, gli avrei chiesto dei suoi legami con il National endowment for democracy, longa manus del governo di Washington in tutto il mondo. Purtroppo non ho mai avuto la fortuna di farlo. E non per colpa di Liu Xiaobo.

Libertà e liberismo
Charta 08 aveva il pregio di indicare una grande contraddizione del sistema cinese: quella di presentarsi in teoria come governo “del popolo” ma di essere in realtà regime “del partito”. Contraddizione insita in tutti i regimi socialisti, che infatti erano già crollati quasi ovunque, ma ancora più stridente in un paese che in quel dicembre 2008 aveva appena finito di celebrare i successi della modernizzazione con le storiche Olimpiadi di Pechino e che da anni cresceva a ritmi vertiginosi.

Da questa contraddizione ne derivavano a cascata altre, che il documento non mancava di rimarcare, in forma di proposta politica alternativa: libere elezioni, stato di diritto, separazione dei poteri, pluralità dell’informazione, libertà di espressione. Mescolati a questi “princìpi universali” – non a caso il 10 dicembre 2008 scelto per la diffusione del documento era il 60º anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani – se ne trovavano altri più tipicamente liberisti: privatizzazione del settore statale, difesa della proprietà privata, libera impresa.

Nell’impianto generale, la libertà era dichiaratamente anteposta all’uguaglianza come principio guida, e la seconda non appariva altro che una parità di diritti di fronte alla legge che lascia però intatta la disuguaglianza originaria.

Charta 08 voleva sostituire lo stato di diritto borghese al governo dell’uomo confuciano

C’era poi il riferimento a un sistema federale che avrebbe dovuto essere sancito dalla costituzione e che rompeva lo schema millenario del potere cinese, in cui centro e periferia avrebbero assunto più o meno peso a seconda delle circostanze, in una circolarità continua, ma su uno sfondo ideologico condiviso. Era una rottura forte.

Charta 08 voleva insomma sostituire il governo dell’uomo confuciano con lo stato di diritto borghese. Proponeva una liberaldemocrazia di stampo occidentale e scommetteva su almeno due fattori: primo, che fosse un modello universale adatto anche alla Cina; secondo, che i tempi fossero maturi per avere abbastanza consenso e forzare quindi uno strappo rispetto al sistema cinese.

Orgoglio nazionale olimpico
Oggi di quel documento non restano che brandelli. La Cina segue una sua evoluzione e si impone al mondo con caratteristiche autoctone e “sovrane”; i successi già misurabili in quel 2008 non l’hanno omologata all’occidente, ma le hanno permesso di affermarsi così com’è. Liu Xiaobo, invece, muore da “criminale” – come lo definiscono i mezzi d’informazione di stato – celebrato dall’occidente ma ignorato dalla maggior parte dei cinesi.

I segnali di questo esito erano già tutti presenti nel 2008, in occasione dell’evento mondano-sportivo dell’anno. La Cina si sentì in qualche modo tradita nei mesi precedenti alle Olimpiadi, quando parte della società civile occidentale e anche figure istituzionali di spicco usarono la cassa di risonanza offerta dai giochi per fare pressioni sul tema dei diritti umani. Da quel momento Pechino sentì di aver “perso la faccia”, sembrò prendere atto che la sua “offensiva dello charme” era fallita e le Olimpiadi si trasformarono quindi più in un’affermazione dell’orgoglio nazionale che dell’apertura al mondo.

Lì, con il senno di poi, già si intravedeva la Cina di oggi. Che però è anche la Cina di ieri, la Cina eterna: un paese che è prima di tutto una civiltà dove non si può impunemente prendere in prestito modelli stranieri ma bisogna innanzitutto contaminarli con quelli autoctoni, perché questo non si discute ed è ai guo, amor di patria, espressione di un universo che nel profondo si concepisce ancora autosufficiente.

Anche nell’epoca della Cina globale questo principio sembra valere. Comunque sia, ha contribuito a isolare Liu Xiaobo e a renderlo vulnerabile.

Stanze chiuse
A proposito delle reazioni dell’opinione pubblica cinese in merito alla vicenda di Liu Xiaobo James Palmer, Asia editor di Foreign Policy, ha scritto un articolo su cui ragionare.

Secondo Palmer, i cinesi si dividono tra quelli che non sanno nulla di Liu Xiaobo e quelli, in genere appartenenti alla classe media emergente, che lo criticano perché “sapeva a cosa andava incontro”; e poi, dopotutto, “è stato curato meglio lui di tanti altri”. È vero, questo modo di pensare è ben presente nella società cinese. Per esempio, all’epoca delle proteste organizzate a Hong Kong nell’autunno del 2014, sui social network cinesi e nei discorsi per la strada il tenore dei commenti era: “Che cosa vogliono gli hongkongesi? Hanno già tutto, possono protestare, hanno la libertà di stampa, cosa pretendono ancora?”.

Per non parlare poi di quando emerge qualche problema con gli uiguri dello Xinjiang: “Hanno diritto ad avere più di un figlio (adesso anche i cinesi, ndr), possono celebrare le festività musulmane e perfino interrompere il lavoro per pregare; cosa vogliono di più?”.

Tuttavia la Cina è una società più sfaccettata.

Ci sono per esempio tantissimi gruppi su Weixin (o WeChat) in cui si discute il caso di Liu Xiaobo. Weixin è il social network più usato dopo la caduta in disgrazia di Weibo (a metà tra Twitter e Facebook). Funziona per stanze chiuse, gruppi di discussione privati in cui si affrontano tra amici anche argomenti sensibili. L’importante è che la discussione rimanga nascosta al resto della rete.

Tra il 2011 e il 2012 alcuni eventi determinarono il ridimensionamento di Weibo. Le “rivoluzioni dei gelsomini” nel mondo arabo; l’incidente ferroviario di Wenzhou il 23 luglio del 2011, quando i passeggeri, attraverso il social network, sventarono il tentativo delle autorità di occultare la gravità in termini di vittime; infine, il caso dell’ex leader di Chongqing caduto in disgrazia, Bo Xilai. Weibo fece da cassa di risonanza a tutte queste vicende ed è stato sempre più preso di mira dalla censura.

Oggi, quindi, nelle stanze chiuse di Weixin, come in una virtuale baojian (un privé al ristorante), si parla anche di Liu Xiaobo. La censura non interviene perché, spiega un utente che partecipa a un gruppo di discussione su Liu, siamo pesci piccoli. E siamo troppi. Ma insomma, se consideriamo quelli che non sanno nemmeno chi sia Liu Xiaobo, quelli che lo conoscono ma dicono “ben gli sta” e quelli che invece solidarizzano con il premio Nobel in fin di vita, chi predomina?

Sicuramente quelli che non ne sanno nulla, spiega l’utente anonimo, ma tra gli istruiti prevalgono quelli che sanno: sanno che un uomo è morto da “criminale” per colpe che non ha mai avuto. Nella primavera del 1989, durante le proteste di piazza Tiananmen, l’utente in questione aveva otto anni e sua madre lo portò nella grande piazza. “Si sa che il governo è così”, dice. Come scrive Palmer, è quasi un fatto naturale. Però, non sottovalutiamo il fatto che la discussione continua. Lascia intendere che un dissenso, comunque, c’è. Non necessariamente come lo vorremmo noi.

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