10 giugno 2020 13:12

Tra le molte polemiche che l’epidemia di covid-19 ha scatenato nel Regno Unito, una notizia di rilevanza storica è passata relativamente inosservata: da due mesi nel paese d’origine della rivoluzione industriale non è stato bruciato neanche un grammo di carbone per produrre energia elettrica.

Le misure d’isolamento imposte dal governo il 23 marzo per limitare la diffusione del virus hanno portato alla chiusura di molte attività, determinando un calo del 20 per cento nella domanda di energia elettrica. Il gestore della rete britannica ha quindi deciso di ridurre la produzione, e tra i primi impianti a essere spenti ci sono state le quattro centrali a carbone rimaste nel paese, l’ultima delle quali è andata offline il 9 aprile.

La graduale riapertura delle attività decisa dal governo sta facendo risalire la domanda di elettricità, ma con l’arrivo dell’estate aumenterà anche la produzione di energia degli impianti fotovoltaici. Per il momento quindi le autorità non hanno in programma di riattivare nessuna delle centrali a carbone. Dato che il governo ha stabilito che dovranno chiudere tutte entro il 2025, alcune potrebbero anche non essere più riaccese.

È un risultato che poteva sembrare impossibile dieci anni fa, quando nel Regno Unito le centrali a carbone producevano ancora il 40 per cento dell’elettricità, mentre l’eolico e il fotovoltaico messi insieme arrivavano al 3 per cento. A partire dal 2010 però il governo ha lanciato un programma di sussidi alle fonti rinnovabili che ha portato a un forte aumento degli investimenti nel settore. Oggi il Regno Unito è il paese con la maggior capacità installata di eolico offshore. Nel 2020 le fonti rinnovabili hanno superato per la prima volta i combustibili fossili, producendo il 37 per cento dell’energia consumata nel paese. I sussidi sono stati riassorbiti da tempo, ma il settore continua a espandersi grazie al crollo dei costi e agli investimenti privati.

Il carbone è la fonte di energia con le più alte emissioni di gas serra, ma per decenni è stato anche la più economica

Il fenomeno non è limitato al Regno Unito. Negli Stati Uniti è stata da poco varcata un’altra soglia simbolica: per la prima volta da almeno 130 anni, nel 2019 le centrali a carbone hanno prodotto meno energia delle fonti rinnovabili, scendendo al livello più basso dal 1964. Dieci anni fa nel paese metà dell’elettricità era prodotta bruciando carbone. Quest’anno la quota potrebbe scendere sotto il 20 per cento.

Il declino del carbone sembrava inevitabile anche prima della pandemia. Nel mondo gli investimenti nelle nuove centrali sono stabilmente in calo dal 2015, e la produzione di energia da questa fonte potrebbe aver toccato il picco nel 2019. Il calo della domanda e la ristrutturazione del settore energetico, però, potrebbero aver impresso un’accelerazione decisiva a questo processo. Secondo le proiezioni dell’Agenzia internazionale dell’energia il carbone dovrebbe essere tra le fonti più colpite: il consumo globale dovrebbe ridursi dell’8 per cento nel 2020, mentre le rinnovabili dovrebbero crescere dell’1 per cento.

Il carbone è la fonte di energia con le più alte emissioni di gas serra, ma per decenni è stato anche la più economica. Ora il suo principale punto di forza è venuto meno, perché in molti paesi il costo dell’energia prodotta dalle rinnovabili è minore. Inoltre le centrali a carbone non sono molto adatte a svolgere il ruolo di fonte di riserva con cui compensare l’intermittenza dell’eolico e del solare, dato che ci vuole tempo per aumentare o diminuire la loro produzione. In questa funzione saranno sostituite dalle centrali a gas, che sono più flessibili, e in futuro dalle batterie e da altri sistemi per conservare l’energia, come l’idrogeno.

Costi sommersi
Se il carbone sopravvive è soprattutto a causa di calcoli politici o inefficienze. In Cina, il paese che ospita il maggior numero di centrali a carbone al mondo, nel 2019 gli impianti attivi sono tornati ad aumentare dopo anni di calo. Come spiega l’Economist, è la conseguenza di una riforma approvata nel 2014, che dava alle amministrazioni locali più autonomia in materia. In seguito la decisione è stata revocata, ma il governo centrale non ha voluto cancellare i progetti già approvati per non toccare gli interessi coinvolti.

Recentemente in Germania ha suscitato molte proteste l’inaugurazione della centrale di Datteln 4, autorizzata dal governo nonostante fosse da poco stata annunciata la decisione di abbandonare il carbone entro il 2038. L’impianto però era stato progettato per entrare in funzione nel 2011, quando il carbone era ancora competitivo, ma aveva subìto ritardi per motivi tecnici. La decisione di andare avanti è dovuta soprattutto alla volontà di non perdere un investimento da 1,5 miliardi di euro.

Questi esempi evidenziano i principali ostacoli al definitivo abbandono del carbone: i costi sommersi e le clientele politiche. Per vincere le resistenze dei paesi dell’Europa orientale, ancora largamente dipendenti dal carbone, la Commissione europea ha dovuto includere nel suo piano per la ripresa verde un fondo per la transizione equa da 40 miliardi di euro con cui compensare le ripercussioni. Se nell’ambito dei negoziati sul clima la comunità internazionale riuscisse a offrire qualcosa di simile ai paesi emergenti, in tutto il mondo la fine del carbone potrebbe arrivare con la stessa sorprendente rapidità con cui è avvenuta nel Regno Unito.

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