15 dicembre 2023 14:25

La domanda che ci ponevamo la settimana scorsa ha trovato una risposta chiara: la 28esima conferenza delle Nazioni Unite (Cop28) sul clima sarà ricordata come un successo spettacolare. Alcuni mezzi d’informazione l’hanno definita la Cop più importante da quella di Parigi nel 2015, il segretario esecutivo delle Nazioni Unite per il cambiamento climatico Simon Stiel ha dichiarato che segna “l’inizio della fine” dell’era dei combustibili fossili, e il sito ufficiale della conferenza ha addirittura parafrasato Giulio Cesare, scrivendo a caratteri cubitali: “Ci siamo uniti. Abbiamo agito. Abbiamo ottenuto”.

Questo entusiasmo si basa in gran parte su un singolo passaggio della dichiarazione conclusiva del vertice, approvata la mattina del 13 dicembre dopo una nottata supplementare di negoziati, in cui si fa appello ai partecipanti a “contribuire agli sforzi globali” per “effettuare la transizione (transitioning away) dai combustibili fossili, in modo giusto, ordinato ed equo, accelerando l’azione in questo decennio cruciale, per raggiungere l’azzeramento delle emissioni nette entro il 2050 in accordo con la scienza”.

Con questo capolavoro di bizantinismo la presidenza della Cop28 è riuscita a superare uno stallo che fino a poche ore prima appariva insormontabile, accontentando le richieste dell’Unione europea e degli stati “virtuosi” (che avrebbero voluto parlare di “abbandono” dei combustibili fossili), dei paesi petroliferi (che rifiutavano qualunque menzione dell’argomento) e delle economie emergenti (che non volevano impegni che mettessero in discussione il loro sviluppo industriale). E ha effettivamente ottenuto un risultato storico: è la prima volta che una conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico riconosce che tutti i combustibili fossili, responsabili quasi esclusivi del problema, devono essere superati. Può sembrare ovvio, ma ci sono voluti 28 anni per arrivare a questo punto.

Al di là dei legittimi dubbi sulle conseguenze pratiche dell’accordo – che non è vincolante e lascia ai firmatari piena libertà di puntare su soluzioni discutibili come la cattura e il sequestro dell’anidride carbonica e l’uso del gas naturale in quanto “combustibile di transizione” – il suo aspetto più importante è quello simbolico: dimostra una volta per tutte che il cambiamento climatico è salito così in alto nella lista delle priorità globali che un paese petrolifero come gli Emirati Arabi Uniti ha preso seriamente a cuore il buon esito dei negoziati, che l’Arabia Saudita ha avuto paura di restare isolata nel banco degli imputati di un eventuale fallimento e che persino stati revisionisti come la Russia e l’Iran non hanno osato cogliere questa occasione per portare avanti il loro scontro con l’occidente.

Ora però non bisogna esagerare con l’entusiasmo. La Cop28 ha superato tutte le (scarsissime) aspettative della vigilia, ma non è stata comunque all’altezza del suo obiettivo dichiarato. L’Agenzia internazionale dell’energia ha valutato l’impatto degli impegni annunciati a Dubai, come quello sottoscritto da oltre 130 paesi di triplicare la capacità di fonti rinnovabili e quello di cinquanta grandi aziende petrolifere sulle emissioni di metano, e ha calcolato che tutti insieme colmerebbero solo un terzo del gap che ci separa dall’obiettivo più ambizioso degli accordi di Parigi del 2015, cioè evitare che la temperatura media globale aumenti di più di 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali. Questa soglia dovrebbe essere superata nel giro di dieci anni.

Alla conferenza, inoltre, non è stato trovato un accordo sul mercato globale dei crediti di emissione previsto dagli accordi di Parigi, che avrebbe dovuto essere uno dei pilastri degli sforzi contro il cambiamento climatico, ma che appare ancora molto lontano dall’essere realizzato. L’Unione europea ha infatti rifiutato la proposta presentata a Dubai, ritenendo che le regole fossero troppo vaghe e permissive e che avrebbero messo a rischio il suo sistema di crediti di emissione, molto più rigoroso.

La vendita dei crediti avrebbe dovuto contribuire a finanziare i progetti per l’adattamento nei paesi poveri, che secondo i calcoli delle Nazioni Unite avrebbero bisogno di una somma 18 volte superiore a quella attualmente disponibile, e non è ancora chiaro da dove verranno i soldi.

Questi e altri nodi dovranno essere affrontati alla prossima conferenza, che si svolgerà nuovamente in un paese petrolifero: è il turno dell’Europa di ospitare i negoziati, ma la Russia ha messo il veto sulle candidature dei paesi dell’Unione, in protesta contro il loro sostegno all’Ucraina. Così la scelta è caduta sull’Azerbaigian, dopo che l’Armenia ha ritirato il suo veto come gesto di buona volontà per favorire il processo di distensione nel Nagorno Karabakh. La linea dell’apertura nei confronti dell’industria dei combustibili fossili, a cui gli Emirati Arabi Uniti hanno attribuito parte dei meriti del successo della Cop28, sarà nuovamente messa alla prova. Vedremo quali saranno i risultati.

Questo testo è tratto dalla newsletter Pianeta.

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