05 luglio 2022 14:57

“This is strange”, (questo è strano) dice Nick Cave appena sale sul palco insieme alla sua band, i Bad Seeds. Guarda la buca dell’orchestra dell’Arena di Verona, dov’erano previsti dei posti in piedi. Ma non c’è nessuno, perché in effetti il 4 luglio è stata una giornata un po’ strana. I cambiamenti climatici, che in questi giorni fanno crollare i ghiacciai e scoppiare incendi, si fanno sentire anche da queste parti, per fortuna senza gravi conseguenze: verso le sette del pomeriggio all’improvviso si è alzato un vento fortissimo, che ha fatto alcuni danni in città e ha fatto cadere dal palco dell’Arena alcune attrezzature. Alle otto, mentre aveva cominciato a piovere, il concerto è addirittura a rischio annullamento. Per fortuna si fa, anche se con qualche disagio: comincia alle 22.15, con più di un’ora di ritardo rispetto ai programmi, con la buca dell’orchestra dichiarata inagibile dai vigili del fuoco e diventata un “big fucking hole” (un grosso buco), come lo definisce Cave.

All’Arena ci sono circa diecimila persone, che fin da subito si lasciano ipnotizzare dal cantautore australiano. Cave, abituato a cantare a stretto contatto con le prime file, ci mette un paio di pezzi a prendere le misure. E così dopo Get ready for love e There she goes, my beautiful world, estratte da un disco minore ma di buon livello come Abattoir blues/The lyre of Orpheus, arriva uno dei classici del repertorio: From her to eternity, cronaca di un delirio a base di sesso e violenza. Il pezzo, pubblicato nel suo album d’esordio del 1984, non invecchia mai ed è un saggio di come Cave sappia nuotare nell’oscurità. Da qui il concerto comincia a scaldarsi sul serio, anche perché il cantante rompe il protocollo e scende in mezzo alle sedie della platea, cercando il contatto fisico con gli spettatori come se fosse in astinenza. In seguito salirà anche sulle tribune laterali, dove sono stati piazzati i malcapitati che dovevano stare nel pit (che si spera verranno rimborsati, in qualche modo), mettendoci la solita teatralità e un po’ di mestiere.

Un altro brano in grado di accendere il pubblico è il quinto in scaletta: Jubilee street, estratto da Push the sky away del 2013, un album più recente ma che ormai si può considerare un caposaldo della discografia di Cave. Come al solito parte lento, ma poi si accende nella seconda parte: è una catarsi che parte dal buio dei bassifondi per arrivare a una luce celeste, mentre la voce del cantautore s’immerge nella metamorfosi descritta dal brano. Poi arriva il primo momento intimo, nel quale Cave si siede al piano e suona una commovente I need you – cantata con la voce un po’ rotta e durante la quale il pensiero va alla morte dei due suoi figli, Arthur e Jehtro, e Waiting for you, in cui lo affianca il solo Warren Ellis, anche stasera tarantolato tra violino, chitarra elettrica, pedali vari e loop station. Dell’ultimo disco, Carnage, suona solo due pezzi: la title-track e White elephant, un pezzo sulla violenza e il suprematismo bianco negli Stati Uniti che purtroppo è sempre di attualità, come dimostra anche la recente strage di Chicago.

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Il cantante poi torna in mezzo al pubblico per Tupelo, un rock-blues che accosta la nascita di Elvis Presley al tornado che devastò la Georgia nel 1936 (siamo quasi in tema), e Red right hand, diventata forse la sua canzone più famosa dopo che è stata scelta per la sigla della serie tv Peaky blinders. E ci si rituffa per Higgs Boson blues, canzone alla Neil Young costruita su un altro grandioso crescendo e diventata ormai un altro classico del repertorio dal vivo dei Bad Seeds: mentre la canta, Cave accarezza la testa ad alcuni, urla “motherfucker” e “boom boom boom” in faccia ad altri e si fa appoggiare una mano sul cuore, sussurrando “can you feel my heart beat?” (lo senti il mio cuore?). Il testo surreale del brano, che evoca Hannah Montana, Robert Johnson, Miley Cyrus e una “stagione simulata delle piogge” mantiene alta la tensione.

Durante la serata il cantautore stupisce con numeri da intrattenitore perfino un po’ gigione (ripete varie volte “grazie” e sfodera un “bellissimo” neanche fosse Bono Vox). A un certo punto ripesca un’altra chicca dal passato, City of refuge, omaggio al blues gospel di Blind Willie Johnson, durante la quale concede il centro della scena ai suoi coristi, e dopo la già citata White elephant si va di corsa verso il bis, visto che abbiamo già superato la mezzanotte. Cave rientra sul palco dal solo e suona al piano la delicata Into my arms, che viene cantata in coro dall’Arena. E per il finale sceglie Vortex, un lato b incluso nella recente raccolta B-sides & rarities part II. L’artista ringrazia e le luci si riaccendono, deludendo un po’ chi si aspettava un altro bis. La scaletta è stata tagliata di almeno un paio di pezzi rispetto al solito, e che peccato aver ascoltato solo due brani dal capolavoro Ghosteen.

Quello di Verona non è stato un concerto perfetto. La mancanza del pubblico in piedi, per un’esibizione del genere, si è sentita. Eppure Cave è riuscito a compensare con il suo carisma, le sue canzoni e perfino con l’affetto verso chi è venuto ad ascoltarlo. Quando era giovane, e i Bad Seeds si chiamavano ancora Birthday party, i suoi show erano una specie di violento teatro dell’assurdo: c’era droga ovunque e le risse erano all’ordine del giorno. Negli ultimi anni una parte di quell’oscurità è rimasta, ma si è aggiunta una crescente tenerezza. Se un tempo Cave faceva a pugni con le persone sotto il palco, oggi sembra che abbia voglia soprattutto di abbracciarle.

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