11 marzo 2020 12:45

Da sabato 7 marzo in più di venti carceri italiane ci sono state proteste e rivolte innescate dai detenuti. In pochi giorni dieci di loro – sette al Sant’Anna di Modena e tre al Nuovo Complesso di Vazia, Rieti – secondo le autorità sono morti per overdose dopo aver rubato farmaci e metadone nelle infermerie le autorità. A Foggia una settantina di persone sono evase, e una ventina è ancora a piede libero. In diversi istituti le manifestazioni continuano, e in alcuni casi i detenuti stanno ancora occupando varie sezioni. I feriti sono decine, e tra loro ci sono anche degli agenti di polizia penitenziaria.

Le ragioni dietro tutti questi episodi sono diverse e hanno a che fare sia con la nuova emergenza che sta vivendo l’Italia, sia con le vecchie e incancrenite emergenze che vive il carcere da decenni. Un filo rosso che lega molti casi è la paura del contagio del nuovo coronavirus (SARS-CoV-2) e la rabbia per le misure decise dalle autorità carcerarie per contenerlo. La decisione presa dal ministero della giustizia prevede, tra le altre cose, la sospensione dei permessi premio, del regime di semilibertà e dei colloqui con i familiari dal 9 al 22 marzo. Fino ad allora, le uniche comunicazioni consentite tra chi sta scontando una pena e chi lo aspetta fuori sono le telefonate e le videochiamate, lì dove il carcere sia in grado di garantirle. Il provvedimento ha scatenato la rabbia di chi ha pensato che fosse l’ennesima limitazione dei suoi diritti, visto che il contagio potrebbe diffondersi anche attraverso gli operatori e la polizia penitenziaria, che in carcere continuano ad andare; e visto che i detenuti impegnati in una cooperativa o in qualche progetto di reinserimento non possono più uscire per farlo, mentre tante persone possono ancora andare a lavorare, o accedere al telelavoro.

Ma il coronavirus non è l’unico motivo per cui in tanti stanno protestando. Al San Vittore di Milano, per esempio, i detenuti chiedono migliori condizioni di vita dentro istituti che sono nella stragrande maggioranza dei casi sovraffollati e vecchi; altri chiedono provvedimenti come indulto e amnistia; mentre a Foggia si ipotizza un ruolo della mafia locale, a cui appartengono tre degli evasi.

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Le notizie frammentate e spesso contraddittorie che arrivano dalle città non aiutano a ricostruire la complessità della situazione. È per questo che abbiamo chiesto a sei persone che conoscono bene sia il sistema carcerario sia i territori dove sono avvenuti alcuni dei casi più gravi di aiutarci a ricomporre il quadro. Nelle loro parole c’è il racconto dei fatti, ma anche la constatazione amara che in questo momento crisi nuove e vecchie si legano ed esplodono perché trovano terreno fertile in un sistema già sull’orlo del collasso.

Tutti concordano che la catena delle violenze deve essere interrotta subito, ma chiedono anche più coraggio alla magistratura di sorveglianza e alla politica affinché siano applicate le misure alternative alla detenzione alle migliaia di persone che sono state condannate a pene lievi o che hanno da scontare ancora pochi mesi o anni, e che per legge potrebbero accedervi.

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In tempi di allarme e confusione, le notizie che arrivano dal carcere anziché essere viste come sintomi di qualcosa che riguarda tutti sono scambiate per un’ulteriore e diversa epidemia, che rischia di sommarsi a quella già scoppiata nel paese. Ma le galere sono lo specchio di una società, non fanno altro che riflettere i suoi problemi e misurarne la febbre. È quando si smette di parlarne, di dialogare con chi ci vive e ci lavora, o le si racconta solo come mondi pericolosi e lontani, che la tensione sale ed esplode la rabbia.

Mauro Palma, garante nazionale dei diritti dei detenuti
In questi giorni sta succedendo una delle cose più drammatiche nella storia del carcere in Italia. Dieci persone sono morte, quattro sono in terapia intensiva e altre sono state portate in ospedale in condizioni gravi. Tutte per via delle rivolte che si sono susseguite dal 7 marzo e che gli hanno permesso di arrivare alle infermerie e fare abuso di farmaci e metadone. Nei casi più gravi, infatti, i primi due luoghi che sono stati assaltati sono stati i magazzini degli attrezzi usati per le attività e le infermerie. Il fatto che in tanti si siano precipitati a prendere del metadone e altri farmaci sconfessa l’idea complottista che dietro le rivolte ci sia una regia a livello nazionale.

In casi come quello di Foggia è possibile che ci sia stato l’aiuto della mafia locale, e sarà la magistratura ad accertarlo. Dal carcere sono evase 76 persone e 23 sono ancora in fuga. Tra loro ci sono anche alcuni esponenti della cosca garganica. Tuttavia, anche in questo caso, la crisi di oggi si lega a vecchi problemi. La casa circondariale della città è stata a lungo senza una guida certa, come abbiamo denunciato più volte. Ma un direttore che sappia guidare un carcere è una figura centrale in un territorio dove la presenza della criminalità organizzata è così forte.

Altrove, per esempio a San Vittore, Milano, probabilmente tutto è cominciato dalla paura e dalla confusione. Paura per il virus, confusione per le voci su provvedimenti più restrittivi e di più lunga durata che sono circolate nei giorni scorsi. Questo è stato uno dei problemi in tanti casi, a dire la verità. È mancata la giusta e corretta comunicazione tra il mondo di fuori e quello di dentro.

Familiari dei detenuti davanti al carcere di Rebibbia, a Roma, manifestano contro le misure decise dalle autorità carcerarie per contenere il coronavirus, il 9 marzo 2020. (Antonio Masiello, Getty Images)

Quando un detenuto sente dire in tv che per via del coronavirus bisogna tenere una distanza di sicurezza tra le persone o che bisogna evitare i luoghi affollati, quando gli si dice che un suo parente non può andarlo a trovare ma lui vede l’operatore entrare e uscire, allora gli basta poco per percepirsi come ancora più escluso dal resto del mondo. Bisognava comunicare le decisioni che sono state prese per loro più tempestivamente e meglio, farli sentire parte di una società che tutta insieme sta facendo i conti con misure drastiche, invece che come oggetto di ulteriori restrizioni. Bisognava dirgli che sono provvedimenti a tempo, e che si sarebbe fatto tutto per garantire i colloqui telefonici o in video con i propri cari. Lì dove questo si è fatto, come per esempio a Bollate, sempre a Milano, o a Brindisi, le situazioni sono meno violente.

Mentre a Regina Coeli, a Roma, il 9 marzo ci siamo trovati nel bel mezzo della rivolta. Chi non si è mai trovato in una situazione del genere non può immaginare a che punto può arrivare la rabbia, i detenuti che ti sputano addosso e sfasciano tutto. Per fortuna, grazie all’intervento della polizia penitenziaria, che ha evitato quello delle altre forze dell’ordine, la situazione è rientrata. Ma chiaramente, come in tutte le altre rivolte, anche in questo caso le condizioni per chi sta dentro sono peggiorate. Così come sono peggiorate a Modena, da dove per altro sono state trasferite tantissime persone, andando a gravare sul sovraffollamento di altri istituti.

I detenuti per primi devono capire che va interrotta questa catena di eventi, perché nuoce a tutti, per primi a loro, che già vivono in condizioni difficili. Gli va anche fatto capire che c’è un impegno concreto per salvaguardare la loro salute. Il ministro della giustizia Alfonso Bonafede ha formato una task force di cui faccio parte anche io per affrontare la questione. Ma c’è un’altra questione che andrebbe affrontata subito. Oggi nelle carceri italiane ci sono ottomila persone con una pena o un residuo di pena inferiore a un anno. Mentre tanti altri sono nel cosiddetto regime di semilibertà, cioè il giorno escono e rientrano solo la sera.

La magistratura di sorveglianza e la politica dovrebbero immaginare già da ora delle misure alternative alla detenzione per queste persone. Si alleggerirebbe la situazione e non si farebbe altro che applicare quello che il nostro ordinamento già prevede per molti di loro.

Piero Rossi, garante dei detenuti in Puglia
Faccio il bollettino di guerra? Gli unici due istituti nella regione che hanno messo in pratica proteste non violente sono stati quello di Turi, in provincia di Bari, e quello di Brindisi. In entrambi i detenuti chiedevano rassicurazioni e informazioni certe, perché da un lato hanno paura per il virus, come tutti; dall’altro temono di essere tagliati fuori dal mondo ancora di più. Quello che sentivano in tv non li rassicurava affatto, e se a questo si aggiunge che da un giorno all’altro gli è stato detto che non potevano vedere più i familiari, che tra l’altro di solito aiutano a scaricare ansie e a levigare le rabbie, si capisce che la miscela non poteva che essere esplosiva.

La comunicazione e le informazioni in molti casi sono mancate e sia la polizia penitenziaria sia i direttori sono stati lasciati allo sbaraglio.

A Foggia tutto questo si è legato a un contesto in cui la presenza della criminalità organizzata è forte e ha portato all’evasione di una settantina di persone. Una quarantina sono stati fermati subito, ma ci sono ancora delle persone a piede libero e tra loro ce ne sono alcune pericolose. A Bari invece ci sono state due rivolte, e bisognerà accertare se sono state manipolate dalle cosche malavitose. A Taranto i detenuti hanno protestato con la battitura di oggetti contro le sbarre delle celle, anche se so che c’è stato qualche episodio più violento. A Trani per manifestare contro l’interruzione dei colloqui con i familiari sono saliti sui tetti e alcuni hanno bruciato degli stracci. A Lecce la situazione è invece sotto controllo.

Bisogna riprendere immediatamente il dialogo con chi sta scontando una pena. Fargli capire l’eccezionalità del momento che stiamo vivendo e non fargli credere che lo si sta escludendo. Bisogna pretendere che finiscano i disordini ma anche dargli notizie certe. E poi c’è bisogno che la magistratura di sorveglianza agisca in fretta per valutare i casi in cui è possibile assegnare delle misure alternative alla detenzione.

Carlo Lio, garante dei detenuti in Lombardia
Anche qui ci sono criticità e tensioni, ma la situazione è sotto controllo. A San Vittore i detenuti sono saliti sul tetto e alcuni hanno appiccato il fuoco nelle celle. A Opera hanno protestato attraverso la battitura, ma la cosa è rientrata. A Pavia hanno sequestrato due poliziotti, ma poi i responsabili si sono consegnati.

A mio giudizio l’esplosione di paura e rabbia che stiamo vivendo in questi giorni covava sotto le cenere da tempo. Il governo dovrebbe agire con decisioni serie e concrete, non bastano pannicelli caldi o task force. Il ministro della giustizia Alfonso Bonafede forse ancora non capisce quanto sia grave il sovraffollamento. Ci sono migliaia di detenuti a cui potrebbero essere applicate già da ora delle misure alternative. Sarebbe un segnale forte da dare, nel rispetto delle regole, e non una resa.

Marcello Marighelli, garante dei detenuti in Emilia-Romagna
A Modena abbiamo vissuto momenti davvero drammatici. La rivolta è cominciata domenica 8 marzo e ha finito per coinvolgere un centinaio di detenuti su 503. Hanno raggiunto i magazzini dove sono tenuti gli attrezzi per fare le attività in carcere e con quelli si sono di fatto impadroniti della struttura e l’hanno devastata. Il personale medico è riuscito a uscire e l’infermeria è stata saccheggiata. Hanno preso farmaci e metadone, e alla fine sette sono morti per cause legate all’abuso. A quanto pare non avevano sul corpo segni di violenza ma bisognerà fare chiarezza su questa vicenda.

Nelle carceri di Piacenza, Reggio Emilia e Parma ci sono state proteste ma non violenze come a Modena. A Ferrara i detenuti hanno danneggiato la struttura, un agente è rimasto contuso, ma dopo una lunga mediazione la situazione è rientrata.

L’incendio scoppiato nella casa circondariale Rocco D’Amato a Bologna, in seguito ai provvedimenti di restrizione dei colloqui con i familiari per il coronavirus, il 9 marzo 2020. (Michele Lapini)

A Bologna invece una parte di detenuti ha preso possesso di alcune sezioni e ha appiccato incendi. Parliamo di duecento persone su ottocento. Alcuni sono saliti sul tetto e hanno sventolato striscioni per l’indulto. Bisogna che questo tipo di violenze smettano subito. Non tutti hanno partecipato, anzi numericamente sono di più quelli che hanno assunto un comportamento responsabile, anche se preoccupati per quello che sta succedendo nel paese e per le ulteriori restrizioni.

A loro e a tutti gli altri bisogna dare informazioni corrette, in diverse lingue; garantirgli la possibilità di comunicare con i propri familiari e fornirgli prodotti per l’igiene. Sappiamo che negli istituti di Ferrara e Forlì si stanno distribuendo cella per cella saponi e prodotti del genere. Il che significa anche riprendere il dialogo con i detenuti, che in fasi come questa è fondamentale.

Ornella Favero, presidente della conferenza nazionale volontariato giustizia
In questo momento, chi si trova in un carcere si sente senza scampo. Provate a immaginare di essere rinchiusi in una galera sovraffollata, sentir parlare della necessità di stare almeno a un metro di distanza l’uno dall’altro e sapere che il tuo vicino di branda sta a pochi centimetri da te; sentir dire che il virus può diventare mortale se attacca persone indebolite dalla malattia e vedere che chi hai intorno è spesso debilitato da un passato di tossicodipendenza e da altre gravi patologie; avere una vita povera di relazioni e vedere dapprima “sparire” tutti i volontari, di colpo non più autorizzati a entrare in carcere, e poi improvvisamente anche i familiari. Dover riempire le giornate con il nulla e la paura. C’è di che perdere davvero la testa.

Noi con la nostra associazione lavoriamo nel carcere di Padova ma non ci fanno più entrare. I mezzi d’informazione locali enfatizzano tutto, ma non si va a fondo delle questioni. Non si capisce che il malessere di tante persone in cella viene da lontano, non nasce oggi. Molti sono stranieri, le loro famiglie e le loro reti di relazioni si trovano in un altro paese, spesso sono soli e senza grandi risorse. Ma lo stesso vale anche per tanti detenuti italiani. Su cosa puoi far leva quando hai davanti una persona che non ha niente da perdere? Come li responsabilizzi?

È difficile, davvero. Aver tagliato fuori le associazioni e i familiari non ha aiutato. Le associazioni, tra l’altro, possono aiutare a mediare nelle situazioni di crisi. E perfino formare delle persone che quando ne scoppia una possono farlo. Da anni noi diciamo che ci dovrebbero essere dei rappresentanti eletti tra i detenuti nei vari istituti, così da rendere i processi di mediazione più efficaci.

Comunque, ora credo che la cosa più urgente da fare sia riflettere sulle misure alternative per le migliaia di persone che potrebbero accedervi. Ci sono ottomila persone con meno di un anno di residuo pena e altrettante devono scontare ancora da uno a due anni. Queste persone sono destinate a uscire presto, con le misure alternative eviterebbero di intasare le carceri e di rendere ancora più difficile affrontare l’emergenza. Ci sono i domiciliari, oppure gli si dovrebbe permettere di entrare nella rete delle comunità di recupero o delle case famiglia. La politica e la magistratura dovrebbero essere più coraggiose.

Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone
Noi ci appelliamo ai detenuti per mettere fine a ogni azione violenta. Allo stesso tempo continuiamo a chiedere per loro un allargamento dei diritti. Sicuramente va fatto ogni sforzo affinché il virus non oltrepassi il portone di ingresso delle prigioni, perché sarebbe una tragedia infinita per tutti. Ma insieme alle misure previste dall’amministrazione penitenziaria – che ha azzerato o fortemente ridotto i contatti con la comunità esterna e ha negato i colloqui visivi con i parenti – vanno immaginati altri provvedimenti. Come per esempio permettere telefonate tra detenuti e familiari di almeno venti minuti al giorno, invece dei dieci previsti dalla legge. E poi andrebbero consentiti i collegamenti con WhatsApp o con Skype.

Andrebbero poi assunti educatori, assistenti sociali, medici, infermieri, mediatori che aiutino i direttori e la polizia penitenziaria a superare questa che è anche un’emergenza comunicativa. Se solo ai detenuti fosse stato spiegato quanto stava accadendo con calma e pazienza forse non si sarebbe arrivati a questo finale tragico.

Si dovrebbe inoltre favorire la concessione di provvedimenti di detenzione domiciliare e affidamento ai servizi sociali per ridurre la pressione sugli operatori. Applicare queste misure a chi ad esempio ha un residuo pena inferiore ai tre anni e ha fatto un positivo percorso penitenziario aiuterebbe lo staff a gestire questa fase complessa, senza avere effetti negativi sulla sicurezza pubblica. Infine, vanno protette tutte le persone detenute vulnerabili – anziani, cardiopatici, immunodepressi, malati di diabete, pazienti oncologici –, assicurando loro la possibilità di scontare la pena a casa o in ospedale.

Da sapere, le alternative al carcere

Tra le misure e i benefici a cui possono accedere i detenuti sono previste:
La detenzione domiciliare. Possono esservi ammessi i condannati con una pena o un residuo di pena inferiore ai due anni e, in caso di particolari necessità familiari o di lavoro, quelli con una pena inferiore ai quattro anni.
L’affidamento in prova ai servizi sociali. Si è ammessi se si ha una pena o un residuo di pena inferiore ai tre anni (inferiore ai quattro quando si tratta di persone con dipendenze da alcol o droga).
La liberazione condizionale. Può richiederla chi ha scontato almeno metà della pena inflitta (e almeno trenta mesi), quando la pena residua non supera i cinque anni.
La semilibertà. Permette di trascorrere il giorno fuori dal carcere (per lavorare e curare le relazioni familiari e sociali) e la notte dentro. Può ottenerla chi ha scontato almeno metà della pena (i due terzi, se detenuti per reati gravi).

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