26 marzo 2024 13:01

Questo articolo è uscito nel novembre 2020 sul numero 14 di Internazionale Kids.

Nella primavera del 1974 un giovane architetto ungherese di nome Ernő Rubik sviluppò un’ossessione: trovare un modo per far capire ai suoi studenti il movimento nello spazio tridimensionale. Dopo mesi passati ad armeggiare con blocchi di cubi fatti di legno e carta e assemblati con elastici, colla e graffette, finì per creare un oggetto che chiamò bűvös kocka (cubo magico).

L’invenzione, poi rinominata cubo di Rubik, è diventata il rompicapo più famoso del mondo (tra il suo lancio e il 2018 ne sono stati venduti 400 milioni in tutto il mondo). Il cubo ha anche ispirato una serie di film e di opere d’arte, oltre ad aver dato vita a uno sport agonistico chiamato speedcubing, che riempie interi stadi di adolescenti in gara per completare il cubo nel minor tempo possibile.

Eppure all’inizio nessuno più di Ernő Rubik fu sorpreso dal grande successo della sua invenzione, come racconta lui stesso nel libro Cubed: the puzzle of us all (cioè “A forma di cubo: il rompicapo di tutti”). L’impatto del cubo è stato “molto più interessante del cubo stesso”, ha detto Rubik in un’intervista, aggiungendo che nel libro ha cercato di capire “perché le persone lo adorano”.

A un primo sguardo il cubo, con i suoi nove quadrati colorati su ogni faccia, può sembrare molto semplice. Nella posizione iniziale, ogni faccia ha un colore uniforme (rosso, verde, giallo, arancione, blu e bianco). Dopo averli mescolati, il rompicapo consiste nel far tornare ogni faccia di un unico colore.

La sfida nasce dall’incredibile numero di possibili variazioni: 43 quintilioni (o miliardi di miliardi). Per diventare un maestro del cubo bisogna imparare una serie di movimenti che possono essere eseguiti in una sequenza precisa (se n’è parlato in molti libri di successo e video su internet).

E l’evoluzione del cubo, dalla versione di tre quadrati per lato a quelle più ampie (4 x 4 x 4 e 5 x 5 x 5), illustra vari princìpi matematici relativi alla teoria dei gruppi.

Cose da nerd
All’inizio Rubik pensava che il cubo sarebbe piaciuto alle persone con una formazione scientifica, matematica o ingegneristica. Fu molto sorpreso nel vedere che “attirava persone che uno non si sarebbe mai aspettato”. Nel marzo 1981 il cubo finì sulla copertina della rivista Scientific American, dove lo scienziato e premio Pulitzer Douglas Hofstadter lo definì “uno degli oggetti più incredibili mai inventati per insegnare dei concetti matematici”.

Il cubo, infatti, poteva essere usato per insegnare la teoria dei gruppi, ma anche le simmetrie degli oggetti. “Qualunque rotazione di qualunque faccia (di 90 gradi in senso orario, di 90 gradi in senso antiorario o di 180 gradi) è un elemento di un gruppo, come lo sono anche le sequenze arbitrarie di queste rotazioni”.

Un mese esatto
Seduto nella veranda della sua casa, sulle colline di Budapest, Rubik, che oggi ha 76 anni, giocherella con un cubo ricordando la sua “scoperta” e il suo inaspettato successo (preferisce parlare di scoperta piuttosto che di invenzione, come se l’oggetto fosse sempre esistito).

Dopo aver creato il cubo, Rubik dovette affrontare un’altra sfida: trovare il modo di risolverlo. All’epoca non sapeva nemmeno se e in quanto tempo il cubo poteva tornare nella posizione iniziale. Gli ci volle un mese intero per risolvere il suo stesso rompicapo. Era molto difficile “trovare la soluzione”, ricorda. “E non avevo nulla che potesse guidarmi, perché ero il primo che ci provava”.

Nel curriculum di Rubik si legge che è stato docente, architetto, designer, editore e ora anche scrittore. È fiero di essere un autodidatta, e l’idea che chi occupa posti di rilievo sappia diffondere le conoscenze meglio di altri lo fa arrabbiare.

Nella domanda presentata all’ufficio ungherese dei brevetti nel 1975, Rubik definiva il cubo “un giocattolo logico-spaziale”. All’epoca l’Ungheria era sotto il controllo dell’Unione Sovietica e, come scrive Rubik, il paese “non era molto interessato alla produzione di giocattoli”.

Niente noia
All’epoca i rompicapo occupavano una piccola parte di quel mercato (si trovavano solo nei negozi specializzati o di souvenir). Concepirli come un giocattolo era una novità. Il cubo apparve nei negozi ungheresi nel 1975 e fu presentato in alcune fiere del giocattolo internazionali, tra cui quella di Norimberga nel 1979.
È così che il distributore Tom Kremer notò il cubo, proponendolo a un’azienda statunitense chiamata Ideal Toy Company.

Nei primi anni ottanta il cubo apparve nelle pubblicità in tv e sui giornali statunitensi, e nel 1983 diventò il protagonista di una serie di cartoni animati chiamata Rubik, the amazing cube. Per molti il successo del cubo era destinato a durare poco. Nel 1982 il New York Times lo definì una “moda passeggera”, già “superata”.

Il tempo lo avrebbe smentito. Secondo Hofstadter, “il cubo era una struttura troppo eterna, troppo sorprendente per stancare le persone”. E anche se per un periodo ha avuto meno successo, è tornato a suscitare interesse, come racconta Sue Kim nel suo nuovo documentario Gli speedcuber.

Kim si è appassionata a questo rompicapo famoso in tutto il mondo a forza di accompagnare il figlio speedcuber in giro per competizioni. Nel documentario mostra come i ragazzini padroneggiano un oggetto analogico usando strumenti dell’epoca digitale (tutorial su YouTube, articoli e altro ancora) e creando comunità online intorno al loro amore per il cubo. “Credo che abbia trovato una nuova nicchia nella cultura popolare proprio grazie al suo ingresso nel mondo digitale”, osserva Kim.

Hofstadter ha sentito parlare degli speedcuber, e trova giusto che il cubo sia ancora apprezzato. “È un successo assolutamente meritato”, dice. “È un oggetto miracoloso, un’invenzione meravigliosa, bella, profonda”.

Oltre a intrigare le nostre abilità logiche e matematiche, il cubo deve probabilmente la sua popolarità al numero quasi infinito di soluzioni possibili.
“È una delle sue qualità più misteriose”, scrive Rubik. “La fine si trasforma in nuovi inizi”.

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Tempo impiegato da un robot per risolvere il cubo.

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