22 gennaio 2021 12:45

Nel 1982, a metà del mio primo anno all’università di Oxford, mio padre mi fece una domanda che mi colse di sorpresa: “Hai abbastanza soldi?”.

Mi colse di sorpresa perché è una domanda che la gente di solito non fa. Cosa vuol dire “abbastanza”? Non è una cosa che ci chiediamo molto spesso. Ci pensai un momento e poi risposi con la massima sincerità: “Non penso mai ai soldi”. Lui scoppiò a ridere e disse: “Allora sei ricco”.

Mi ricordo bene questa conversazione soprattutto perché la sua risposta esprimeva una verità profonda: la definizione di ricchezza è non dover mai pensare ai soldi. Ma la ricordo anche perché mio padre non parlava mai di soldi. Quella fu forse l’unica volta che ne parlammo come di una questione personale. Ne discutevamo in astratto, in termini generali o politici, ma parlare degli effetti del denaro lo rendeva infelice. L’argomento sollevava questioni troppo profonde.

La cosa strana era che mio padre aveva lavorato trent’anni per una banca, la Hong Kong and Shanghai banking corporation, fino al giorno della pensione, nel 1979. Era stato per tutto il tempo in Asia, a parte una parentesi di due anni ad Amburgo, dove sono nato. Mio padre era un banchiere, ma non sopportava di parlare di soldi. Ecco perché l’idea di non dover mai pensare ai soldi era per lui la definizione stessa della ricchezza.

Un fattore ereditario
La preoccupazione per il denaro, soprattutto per quello che il denaro significa, è un fattore ereditario nella nostra famiglia. Il padre di mio padre, Jack, morto prima che io nascessi, era ossessionato dall’idea che il denaro rendesse liberi. Suo padre si era bevuto fino all’ultimo centesimo ed era morto a poco più di trent’anni, lasciando in Jack la convinzione che fare soldi fosse l’unico modo per essere libero.

Così lasciò il suo primo lavoro come maestro di scuola nello Yorkshire per studiare odontoiatria. Si trasferì a Hong Kong per cercare un lavoro più redditizio ma poi, quando la colonia passò in mano ai giapponesi, fu rinchiuso quattro anni in prigione a Stanley, un campo di internamento giapponese. Quando uscì, lavorò per un po’ come dentista, poi si guadagnò da vivere giocando in borsa, ma la sua salute era stata ormai compromessa dalla vita nel campo. Morì a 65 anni.

Ripensando alla vita di Jack, mi chiedo se si sia mai reso conto che la sua concezione del denaro come sinonimo di libertà perse valore nel momento in cui lo rinchiusero a Stanley. Dall’esterno sembra ovvio, ma lui non sembrò accorgersene. Per questo voleva spingere il figlio a fare qualcosa di pratico, qualcosa che avesse a che fare con i soldi.

La morte di mio padre mi ha insegnato più dei discorsi sulla necessità di vivere per il presente

Mio padre capiva benissimo che quella di Jack era un’ossessione, eppure aveva una filosofia molto simile. Pur odiando il suo lavoro, lavorò per trent’anni. Le emozioni forti, che nella sua infanzia avevano a che fare con i soldi come strumento di controllo, gli resero impossibile parlare del denaro. Ma era d’accordo con suo padre sull’importanza dei soldi.

Anche secondo lui erano sinonimo di libertà. E anche lui, come fanno molte persone, decise di barattare il suo tempo per la sicurezza economica. Mio padre pensava che il lieto fine sarebbe arrivato con il pensionamento anticipato, a 53 anni. Era pronto a godersi i frutti del generoso piano pensionistico della banca che aveva contribuito a creare. Invece, a 57 anni, un infarto terribile e improvviso se lo portò via.

La morte di mio padre mi ha insegnato più dei discorsi sulla necessità di vivere per il presente e sulla verità profonda contenuta nell’elegia di Seamus Heaney a Robert Lowell: “Il modo in cui viviamo / timoroso o spavaldo / sarà stata la nostra vita”.

Sarebbe troppo semplice, e neanche vero al cento per cento, sostenere che la carriera in banca di mio padre mi ha spinto a fare lo scrittore. Ma è vero in parte, ed è vero che il suo lavoro in banca mi ha fatto capire che i compromessi tra la vita e il lavoro spesso sono troppi. La sicurezza è un concetto complicato, che rischia di intrappolarci: è una lezione che ho imparato da mio padre.

I soldi non portano automaticamente la libertà. Bisogna pensare a quanti sacrifici facciamo per guadagnarli prima di poter affermare di essere davvero liberi. È un’analisi costi-benefici che tutti dovremmo fare nella vita. Non bisogna dare ascolto a quello che si dice sulla libertà, la sicurezza e il denaro. Bisogna concentrarsi sui compromessi che si fanno nella vita. L’esempio di mio padre mi ha fatto capire che, se per vivere volevo fare lo scrittore, avevo l’obbligo di provarci.

L’ansia è libertà
Scrivo a tempo pieno dal 1996, quando il mio primo romanzo andò abbastanza bene da permettermi di lasciare il lavoro come editor alla London Review of Books. Secondo il filosofo Kierkegaard, “l’ansia è libertà”. In realtà l’ansia è sia il prezzo che paghiamo per la libertà sia il segno della libertà: chi è completamente sicuro non è ansioso, ma non è neanche libero. È un’idea scomoda, ma l’ho sempre trovata di grande utilità nella mia professione di scrittore. Da un lato non ho un capo, quindi non posso essere licenziato: ogni minimo particolare di ogni singolo aspetto della mia giornata e del mio lavoro dipende interamente da me. D’altra parte non ho né la sicurezza del posto di lavoro né altre forme di protezione. Se la gente non vuole leggere quello che scrivo, io non guadagno.

Questa mancanza di sicurezza ha un vantaggio. Secondo me, molte persone si trovano in una situazione simile senza rendersene conto. Oggi nel mondo del lavoro la sicurezza è quasi impossibile. Anche ai più fortunati bastano un paio di episodi sfortunati per perdere tutto.

Ma se accettiamo che l’ansia è il prezzo della libertà, dobbiamo essere il più lucidi possibile su quello che stiamo facendo. Sotto questo aspetto l’esempio di mio padre è stato molto utile: anche se non amava parlare di denaro a livello personale, lo capiva, sapeva come funzionava ed era molto bravo a spiegarne i meccanismi fondamentali.

Quando ho capito che il mio interesse si stava trasformando in un libro, mi sono accorto di quante nozioni finanziarie di base avevo assorbito da lui. E ho anche capito che i banchieri come lui erano molto diversi da quelli che hanno provocato la crisi. Mio padre avrebbe disapprovato se qualcuno gli avesse detto di dare un rating AAA a un debito costruito con le rate dei mutui di proprietari di prima casa senza impiego fisso e morosi. Ne avrebbe colto anche la tragica ironia.

Da quando ho scritto Whoops!, il mio libro sui soldi, la domanda che mi rivolgono più spesso è perché ho pensato di poterlo scrivere. Questo sottintende che la maggior parte delle persone che non si occupano di finanza lo considera un argomento estraneo e incomprensibile. In sostanza, la risposta è che se mio padre avesse fatto il pescivendolo, sarei cresciuto con un’opinione sui pesci. Ma visto che era un banchiere, sono cresciuto con un’opinione sulle banche.

Avere un padre banchiere da una parte mi ha fatto desiderare di essere libero (mi ha spinto a scrivere) e dall’altra mi ha insegnato il linguaggio e i princìpi del denaro.

All’università avevo un po’ di soldi perché mio padre aveva fatto qualcosa per me. Quando sua madre morì, lui mi lasciò qualche migliaio di sterline. E mi consigliò cosa farne. Una mattina si chiuse nel suo studio con il Financial Times in mano e quando uscì mi disse di comprare un particolare buono del tesoro statunitense. Non avevo idea di cosa fosse un buono del tesoro, ma feci esattamente come mi aveva detto.

Un’occasione da non perdere
Erano i primi anni ottanta e mi ritrovai per le mani un investimento che fruttava interessi altissimi. Grazie a questo, riuscii a pagare le poche spese del college in un’epoca in cui la retta era ancora a carico dello stato. Credo di essere stato l’unico studente della facoltà di lettere di Oxford a sapere cosa fosse il rendimento dei buoni del tesoro. Mi aiutò anche aver trascorso l’infanzia in Asia. Bisognava essere davvero stupidi, crescendo a Hong Kong negli anni sessanta e settanta, per non vedere che il mondo era nel pieno di una trasformazione economica. Era il selvaggio est, c’erano pochissimi vincoli legali e nessuna rete di sicurezza, ma c’erano energia, opportunità e grandi cambiamenti. La gente rischiava la vita per andare a Hong Kong. Da bambino l’idea che qualcuno fosse pronto a morire pur di attraversare il confine dalla Cina comunista mi fece una grande impressione.

Ho la sensazione che chi è cresciuto in Gran Bretagna nel dopoguerra si sia abituato a considerare l’economia un elemento fastidioso e perennemente insoddisfacente della vita, come il maltempo. Nessuno in Asia ragionava così.

Non c’era modo di sfuggire all’impatto e all’onnipresenza del denaro come una forza degli scambi tra gli uomini. Ma accettare quest’idea non rende le cose più facili quando le forze economiche vengono a bussare alla nostra porta. Nell’esperienza quotidiana è molto più difficile separare un segnale dal rumore, il caso da un disegno con un significato preciso. Credevo che fare lo scrittore si limitasse a scrivere dei libri sperando che qualcuno volesse leggerli.

Non avevo capito che le forze economiche erano all’opera anche nella scrittura. Lasciai l’università nel 1986, pensando a una carriera nel giornalismo letterario. Nel frattempo avrei portato avanti il libro che volevo scrivere. All’epoca mi sembrava un’ambizione naturale, ma guardandomi indietro vedo la fotografia di un preciso momento storico. La spaccatura tra i sindacati della stampa aveva spalancato le porte del mercato: si poteva scrivere per i giornali senza un diploma in giornalismo o un’esperienza nella stampa locale. Appena cinque anni prima la mia ambizione sarebbe stata inconcepibile. A un quarto di secolo di distanza il concetto stesso di giornalismo letterario è morto, a parte alcuni eroici baluardi come la London Review of Books e il supplemento letterario del Times.

Oggi uscire dall’università con la speranza di fare il giornalista letterario è come voler fare il lavoro di quelle persone che ai tempi delle prime macchine camminavano davanti alle auto sventolando una bandiera rossa di pericolo. Questo non significa che nessuno voglia dedicarsi al giornalismo letterario. Ma manca l’infrastruttura economica di sostegno.

A metà degli anni novanta, quando ho finito il mio primo romanzo, The debt to pleasure, ho approfittato ancora una volta di alcune specifiche condizioni storiche, dalla crescita del pubblico dei lettori attenti alle novità all’esplosione della catena delle librerie Waterstone’s. All’epoca non mi rendevo conto di quanto ero stato fortunato a cogliere quel momento. Oggi il mercato librario britannico è molto cambiato. Il futuro delle librerie è reso ancora più incerto dalla minaccia delle nuove forme di distribuzione digitale.

Come tutti gli scrittori del mondo, devo affrontare quella che forse è la rivoluzione dei mezzi di produzione della letteratura più importante dai tempi di Gutenberg. Se i libri passeranno in massa al formato elettronico potrà cambiare tutto. L’annuncio dell’iPad forse ha segnato il momento preciso del cambiamento.

Il cambiamento potrà aumentare i profitti per gli autori. Ma l’arrivo dell’ebook rischia di rendere il mercato editoriale molto simile a quello musicale, perché i lettori potrebbero convincersi di non dover pagare i libri. Sarebbe la fine del mondo per tutti gli scrittori seri, che non sono come i cantanti e che non possono guadagnarsi da vivere facendo concerti e vendendo magliette. Nessuno sa quali saranno gli sviluppi.

La morale della storia è questa: anche chi pensa di aver capito l’impatto potenziale delle forze economiche, spesso non si rende conto di esserne stato investito. In questi casi è meglio avere con sé una bussola. La mia si basa su due princìpi, entrambi appresi dal mio papà banchiere: l’ansia è libertà, e il modo in cui abbiamo vissuto sarà la nostra vita.

(Traduzione di Fabrizio Saulini)

Questo articolo è uscito sul numero 843 di Internazionale. Era stato pubblicato sul Financial Times.

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