07 luglio 2022 15:07

La decisione della corte suprema statunitense di cancellare il diritto all’aborto a livello federale ha riacceso in molti paesi l’attenzione sul tema. In Asia ogni anno 36 milioni di donne abortiscono, scrive il Nikkei Asia, che ha dedicato l’ultima copertina a un’inchiesta sull’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza nel continente. Il 6 per cento delle morti materne nel 2014 era causata da aborti illegali in paesi dove l’accesso alla pratica è vietato o fortemente limitato, e allo stesso tempo paesi come l’India e il Vietnam, dov’è consentito per legge, sono alle prese con il problema degli aborti selettivi.

Ancor prima che una questione di diritti fondamentali delle donne, in molti paesi asiatici, quelli liberi da influenze religiose, l’accesso all’aborto è legato a una questione demografica. È il caso del Giappone, dove la tendenza a stigmatizzare l’aborto è andata di pari passo con il declino della popolazione. Il Giappone è stato il primo paese del continente a legalizzare l’interruzione di gravidanza, nel 1948. Fu una misura per contenere il boom della popolazione in un momento di difficoltà economiche per il paese, che usciva devastato dalla guerra. Dal 1949 si può ricorrere all’aborto per motivi economici, medici o in caso di stupro. Fino al 1996 la legge permetteva anche la sterilizzazione, volontaria o meno, delle donne con malattie genetiche, patologie psichiatriche o deficit intellettivi. Lo scorso febbraio per la prima volta la corte suprema ha riconosciuto ad alcune vittime di sterilizzazione forzata il diritto a un risarcimento da parte dello stato. In poco più di dieci anni il numero annuale dei nuovi nati era quasi dimezzato, non è chiaro se per effetto della legge sull’aborto o meno.

Oggi il Giappone è uno dei paesi dove si fanno meno figli, e mentre prima i medici chiudevano un occhio su requisiti obbligatori come il consenso del marito per le donne sposate che volevano abortire, negli ultimi vent’anni hanno cominciato a osservare la legge in modo più rigido. A un certo punto il governo ha proposto di eliminare le difficoltà economiche tra i motivi ammessi dalla legge per poter abortire, suscitando proteste di massa. Nel paese l’interruzione volontaria di gravidanza è consentita fino alla ventunesima settimana dall’ultima mestruazione e si può praticare solo con l’intervento chirurgico perché la pillola abortiva non è ancora stata approvata. A parte qualche eccezione, il sistema sanitario nazionale non copre le spese, che sono alte e aumentano con l’avanzare della gravidanza. Inoltre, il metodo più usato in Giappone è il raschiamento, che comporta più complicazioni rispetto all’aspirazione, diffusa negli altri paesi.

Demografia e religione
Anche in Cina, dove la politica del figlio unico ha regolato il flusso delle nascite dal 1980 al 2015, l’ampio accesso all’interruzione volontaria di gravidanza era legato alla campagna per il controllo demografico e non ai diritti delle donne. Stando alle autorità cinesi, fino al 2016 sono state evitate 400 milioni di nascite. Ora, però, la Cina si trova di fronte al problema tipico delle società avanzate, la denatalità, e c’è il rischio che la legge sull’aborto possa diventare più restrittiva. Si parla già di “ridurre le interruzioni di gravidanza non necessarie per motivi medici” e a febbraio ha allarmato la dichiarazione dell’agenzia statale per la pianificazione familiare di voler “intervenire” sull’aborto.

In India, dove l’interruzione volontaria di gravidanza è legale dal 1971 in caso di rischi per la salute e di stupro, alla necessità del controllo demografico si aggiunge la tradizionale preferenza per i figli maschi, che ha portato all’aborto o all’infanticidio di milioni di femmine. Specialmente nelle zone rurali, dove le femmine sono considerate un fardello economico, negli ultimi cinque anni sono nate 929 femmine ogni mille maschi. In teoria la legge vieta ai medici di rivelare il sesso del feto, così come l’aborto selettivo, ma chi può va all’estero e chi non può spesso rischia la vita ricorrendo all’aborto illegale, che causa in media ogni giorno la morte di otto donne.

Anche in Vietnam, paese che detiene il record di gravidanze indesiderate in Asia, avere figli maschi è considerato un vantaggio perché le femmine, una volta sposate, andranno a occuparsi dei suoceri. Sulla scelta di abortire, permessa dalla legge fin dagli anni sessanta, per molte donne influisce anche la paura di essere state esposte all’agente arancio, il micidiale defoliante sparso nel sud del paese dagli americani durante la guerra, che continua a causare la nascita di bambini con malformazioni.

Paesi come il Bangladesh, l’Indonesia, le Filippine o laThailandia, dove la cultura e la società sono profondamente influenzate dalla religione (musulmana, cattolica e buddista), vietano del tutto o limitano fortemente l’accesso all’interruzione di gravidanza. Nelle Filippine, dove la chiesa cattolica è molto potente, il codice penale prevede pene fino a sei anni di reclusione per chi abortisce e per chi aiuta ad abortire una donna. Dal 2021 in Thailandia è consentito interrompere la gravidanza entro le 12 settimane. La Corea del Sud ha depenalizzato l’aborto solo nel 2019, dichiarando incostituzionali le pene previste per donne e medici.

In Australia la decisione della corte suprema statunitense ha ricevuto critiche sia dai conservatori sia dai progressisti, ma l’accesso all’aborto nel paese rimane difficile. L’Australia del Sud sarà l’ultimo stato australiano, il 7 luglio, a depenalizzare la pratica ma il fatto che l’età gestazionale entro cui è consentito interrompere una gravidanza varia da stato a stato e che la pratica è disponibile solo nelle città, rende il tutto confuso, costoso e limita di fatto il diritto a un aborto sicuro.

La Nuova Zelanda ha formalmente depenalizzato l’aborto nel 2020 e, secondo un sondaggio, ha il 77 per cento della popolazione favorevole alla libertà di scelta delle donne. Eppure la presenza in parlamento di deputati conservatori contrari al riconoscimento di questo diritto preoccupa. Il timore è che la decisione della corte suprema statunitense possa rinvigorire un movimento antiabortista che ha in alcuni esponenti politici i suoi potenziali paladini. “Oggi è un buon giorno”, ha twittato il parlamentare del partito dei National Simon O’Connor, che si autoproclama “fortemente pro-vita”.

  • “L’utero di mia madre apparteneva alla Cina, il mio al Texas”, scrive la giornalista Tracy Wen Liu.
  • Un’influencer cinese ha scatenato l’ira degli internauti elogiando la sentenza della corte suprema statunitense.

Questo articolo è tratto dalla newsletter di Internazionale che racconta cosa succede in Asia. Ci si iscrive qui.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it