È davvero una sinistra coincidenza che appena due mesi dopo il Nobel per la letteratura a Han Kang – la cui vita e la cui opera sono state segnate dalla violenza dei regimi militari del suo paese contro i cittadini – martedì i sudcoreani si siano ritrovati catapultati indietro di quarant’anni all’annuncio della legge marziale da parte del presidente Yoon Suk-yeol. Sulla dinamica e le ragioni del colpo di stato-farsa, durato più o meno sei ore e finito grazie alla risposta pronta e decisa delle forze democratiche – cittadini e istituzioni insieme –, stanno emergendo particolari che aiutano a fare un po’ di chiarezza. Ma la crisi politica che si è aperta durerà a lungo e lascerà una ferita nella giovane democrazia sudcoreana.

Cos’è successo? La sera del 3 dicembre, alle 22:20, il presidente Yoon ha annunciato in un messaggio alla nazione l’imposizione della legge marziale “per eliminare le forze antistato filo-nordcoreane e comuniste” che stavano cercando di sovvertire la democrazia in Corea del Sud.

L’annuncio ha lasciato incredulo il paese, che ha alle spalle una storia dolorosa e cruenta di colpi di stato militari e governi autoritari (l’ultima volta la legge marziale era stata imposta nel 1980, con il colpo di stato del generale Choo Doo-hwan seguito dal massacro di Gwangju, la pagina più nera della storia recente del paese, in cui la protesta di migliaia di studenti contro il golpe fu repressa nel sangue. Gwangju è la città natale di Han Kang, che all’epoca aveva nove anni e che ha poi raccontato quella vicenda in Atti umani).

Che si trattasse di un’iniziativa personale del presidente è parso subito chiaro quando il leader del suo partito, il Partito del potere del popolo, ha criticato pubblicamente la mossa. Immediatamente, come prevede la legge marziale, è stata vietata qualunque forma di assemblea, incluso il parlamento, dove l’esercito ha sbarrato l’ingresso. La reazione immediata di migliaia di persone a Seoul è stata scendere in strada dirette al parlamento per chiedere le dimissioni di Yoon.

In questi casi tutto dipende da cosa decidono di fare i militari, se appoggiare il presidente o meno. E quando un paio d’ore più tardi 190 parlamentari sono riusciti a riunirsi scavalcando le transenne e a votare la revoca della legge marziale, i militari e la polizia se ne sono andati senza battere ciglio. La costituzione infatti prevede che il presidente possa sì dichiarare la legge marziale, ma il parlamento ha facoltà di revocarla. Così il gabinetto di governo si è riunito, e poco dopo, a sei ore dall’inizio della crisi, Yoon ha dichiarato finito lo stato d’emergenza.

La domanda cruciale

A quel punto la domanda sulla bocca di tutti era: perché l’ha fatto? La scelta di Yoon è sembrata un suicidio politico praticato in un modo molto inquietante, dato il passato del paese. L’atto disperato di un presidente con le spalle al muro, mal consigliato dai pochi che erano al corrente di quello che stava per fare e da chi gli ha suggerito la mossa scellerata. Yoon era alle prese con un calo di consenso vertiginoso (gli ultimi sondaggi lo davano sotto il 20 per cento), dovuto principalmente a vari scandali che hanno coinvolto la moglie.

Da aprile il suo partito non aveva più la maggioranza all’assemblea nazionale e da allora l’opposizione gli ha messo i bastoni tra le ruote su tutto, più recentemente bocciando la legge di bilancio. Nel suo discorso in tv Yoon ha parlato di “dittatura del potere legislativo”, accusando l’opposizione di paralizzare le attività di governo. Di fronte a questo scenario il presidente, pare su suggerimento del ministro della difesa Kim Yong-hyun, che nel frattempo si è dimesso e ora rischia non solo l’impeachment ma anche l’ergastolo per tradimento, ha probabilmente pensato che la popolazione si sarebbe compattata dietro di lui di fronte alla “minaccia nordcoreana” e che le frange più reazionarie e nostalgiche dei regimi autoritari l’avrebbero sostenuto.

Aveva incredibilmente sottovalutato i suoi concittadini e lo spirito democratico che li anima. Un particolare emerso venerdì, inoltre, è che dopo aver dichiarato la legge marziale Yoon ha mandato i militari alla sede della commissione elettorale: tra gli ambienti di estrema destra, infatti, dopo la sconfitta alle elezioni di aprile aveva cominciato a circolare una teoria del complotto su presunti brogli e probabilmente Yoon sperava di dimostrarne la veridicità e ribaltare il risultato del voto.

Cosa succede ora

Sabato la mozione per l’impeachment del presidente presentata dal Partito Democratico insieme ad altre forze dell’opposizione non è passata all’assemblea nazionale perché i deputati del Ppp hanno lasciato l’aula. La decisione è stata presa all’ultimo minuto dopo una serie di inversioni di rotta al limite della schizofrenia, che dicono quanto poco coeso sia il Ppp al suo interno e quanto stia faticando a gestire la situazione (oltre a dare la misura di un attaccamento al potere tale da non voler mollare un presidente ormai imbarazzante e indifendibile). Venerdì i vertici del Ppp avevano invocato la destituzione di Yoon, definendolo “un pericolo per la democrazia”. Si era appena saputo, infatti, che subito dopo aver dichiarato la legge marziale Yoon aveva presentato al capo dell’esercito una lista di arresti politici. Tra questi, oltre al leader del Partito democratico, anche quello del suo stesso partito, Han Dong-hoon. Sarebbero bastati otto voti del partito di Yoon per far passare la mozione, ma dopo una notte di discussioni si è deciso di cambiare posizione.

Ora secondo il Ppp Yoon, che nel frattempo ha ricevuto l’ordine di non lasciare il paese, può rimanere in carica delegando i suoi poteri al primo ministro. Una soluzione che non solo l’opposizione ma anche i costituzionalisti giudicano improponibile.

Bene. Quant’era prevedibile tutto questo? Come hanno scritto diversi osservatori che seguono da vicino la politica sudcoreana, la possibilità di un tentativo di svolta autoritaria da parte di Yoon era nell’aria da tempo. John Delury, visiting professor di scienze politiche alla Luiss che ha insegnato per anni all’università Yonsei di Seoul, scrive che “non si può dire che nessuno se l’aspettasse. Da mesi a Seoul circolava voce che nell’ufficio presidenziale si stesse tramando per fare esattamente quello che è successo. Non a caso Chun In-bum, generale in pensione, a settembre aveva scritto un editoriale in cui screditava quelle voci come frutto di teorie complottiste, alimentate dalle paure dei sudcoreani della dittatura militare”.

Due studiosi esperti di colpi di stato, John Joseph Chin e Joe Wright, spiegano che quello che Yoon ha tentato è stato tecnicamente un “autogolpe”, che rispetto ad altri tipi di azioni per prendere il potere ha determinate caratteristiche e che a livello mondiale va molto di moda.

Questo testo è tratto dalla newsletter In Asia.

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