06 novembre 2018 10:30

È meglio quando si ha fortuna. Ma io preferisco essere a posto.
Così quando viene sono pronto.
Ernest Hemingway, Il vecchio e il mare

Tutti i corrispondenti di guerra vivono seguendo questo motto: essere a posto e pronti, ogni istante di ogni giorno. Ogni volta che scattano una foto, mentre seguono una storia o intervistano una persona, devono prendere in un tempo brevissimo tante decisioni, non solo di ordine tecnico, concettuale o artistico, ma anche su questioni di vita o di morte.

Devono essere sempre coscienti di ciò che li circonda, guardare di continuo gli aggiornamenti, leggere le strade e le situazioni come farebbe un abitante del posto e con l’altro occhio concentrarsi sul loro lavoro. Tutti i corrispondenti di guerra meritano rispetto e stima per il loro coraggio, sebbene siano davvero pochi quelli che riescono a camminare sul filo del rasoio e capire la situazione, e ancora meno quelli in grado di ottenere risultati eccezionali.

La lettura degli articoli che dovrebbero parlare della situazione in Libia si rivela in alcuni casi un passatempo divertente, poiché nonostante la conoscenza che alcuni cosiddetti giornalisti hanno della Libia sia inferiore a quella che ho io della cardiochirurgia, si ostinano comunque a scriverne. Molti esperti da salotto mostrano i sintomi del moderno salvatore bianco. Il loro senso di superiorità è palpabile. Hanno studiato i selvaggi, sanno tutto di loro, scrivono di loro per i lettori del mondo civilizzato e pontificano su cosa ci si dovrebbe fare.

Ce ne sono però alcuni che sanno davvero di cosa parlano, che hanno acquisito una profonda conoscenza della complessa situazione libica e sono dotati di un occhio sensibile che gli consente di non perdersi alcun dettaglio. Soprattutto, sono riusciti a raccontare molte storie delicate senza privare le persone della loro dignità. Seguo il loro lavoro da anni, e ho avuto la fortuna di incontrarne alcuni a Tripoli. In cima alla mia lista ce ne sono due, Francesca Mannocchi e Alessio Romenzi.

L’obiettivo di Alessio Romenzi parla una forma più alta di linguaggio. Guardando le sue foto si ha la sensazione di sentire odori e rumori

Ho conosciuto Mannocchi nel 2017 a Ferrara, al festival di Internazionale. Romenzi invece l’ho conosciuto pochi mesi fa a Tripoli, dove è venuto insieme a Mannocchi. Non vedevo l’ora di incontrarlo di persona. Seguo il suo lavoro dal 2011, quando ho letto il suo nome sotto alcune foto sulla Libia, così diverse da tante altre. Alessio non cerca brividi a buon mercato. Attraverso il suo obiettivo parla una forma più alta di linguaggio. Guardando alcune delle sue foto si ha la sensazione di poter sentire odori e rumori.

Li stavo aspettando all’aeroporto di Mitiga. Erano riusciti a entrare in Libia nonostante tutti gli ostacoli del dipartimento per la stampa straniera, che si comporta come una vera e propria polizia segreta prendendo di mira i giornalisti. Finalmente ho intravisto Alessio, l’ho salutato con un sorriso, lui ha risposto timidamente con un sorriso e poi è passato oltre. Solo allora mi sono ricordato che non ci conoscevamo ancora di persona.

Avrà pensato che anche io facessi parte della solita tribù, presente in tutti gli aeroporti del mondo, che si guadagna da vivere tormentando gli stranieri in arrivo.

Mosul. Dal progetto Life, still. (Alessio Romenzi)

Alla fine è apparso il volto di Francesca che sorridendo mi ha fatto cenno di avvicinarmi. Li ho raggiunti nel corridoio che conduce i viaggiatori dall’area di recupero bagagli a quella degli arrivi. In compagnia del loro autista stavano parlando con i miliziani delle Rada incaricati di “garantire la sicurezza” dell’aeroporto, che li avevano fermati per fargli le solite domande bizzarre.

Come in un film
Loro erano rilassati, a differenza del loro autista che sudava ed era rosso in viso. È apparso sollevato quando mi sono avvicinato per presentarmi, mi ha indicato dicendo che ero io il responsabile, lui era solo un autista.

Ero preparato ad affrontare una lunga conversazione poco amichevole, perciò ho messo su la mia espressione più dura, quella che riservo a queste occasioni speciali. La mia unica strategia di difesa era stata portare con me diversi amici: se le cose si fossero messe male e qualcuno ci avesse presi, almeno avrebbero visto chi era stato e avrebbero saputo dove venire a recuperarci. Inspiegabilmente però quella sera la guardia mi ha ignorato e ha continuato a prendersela ancora per qualche minuto con l’autista prima di lasciarci andare.

Non era il loro solito autista e traduttore di fiducia, ma erano entrambi tranquilli. A un certo punto mi sono chiesto se avessero capito quale fosse la situazione qui e se fossero coscienti di essere tenuti d’occhio. Giunti al parcheggio dell’aeroporto di Mitiga (in realtà non è proprio un parcheggio, ma una serie di spazi polverosi da cui è parecchio faticoso uscire) e dopo aver caricato i bagagli nell’automobile, con voce calma Romenzi mi ha chiesto: “Pensi che ci seguiranno?”.

Mi sono sforzato di non sembrare troppo stupito. Sembrava una scena da film, e io avrei voluto fare una pausa drammatica prima di rispondere qualcosa di brillante. In ogni film del genere c’è un personaggio del posto che spiega al coraggioso giornalista i pericoli che lo attendono o gli dà qualche consiglio intelligente, ma il fastidioso autista ha rubato quel momento.

È saltato su a dire no, scuotendo la testa con quel finto patriottismo che intonano quasi tutti i libici, come se fossero convinti che è loro dovere nazionale negare la verità e mentire in modo da far apparire il paese un posto migliore di quello che è. Conosco a memoria il ritornello che stava per intonare, la Libia è un posto sicuro, i giornalisti sono liberi di lavorare e i libici sono gente felice.

Visti per privilegiati
Ho represso il desiderio di rimproverarlo, aveva ricevuto sufficienti rimbrotti per quella sera. Volevo ricordargli che pochi minuti prima tremava e a mala pena si reggeva in piedi mentre un miliziano lo insultava, e aveva già quasi rinnegato i “giornalisti stranieri”. Ho tenuto per me questi pensieri e ho risposto di sì: sarebbero stati tenuti d’occhio, forse sarebbero stati pedinati, o magari c’era già qualcuno che li stava pedinando. Più tardi queste previsioni sono state confermate, ma sono riusciti a tenersi lontani dai guai.

Quando pochi mesi dopo è uscito il film di Mannocchi e Romenzi, Isis, tomorrow. The lost souls of Mosul, ero felice, eccitato e arrabbiato, in quest’ordine. Volevo essere tra i primi a vederlo, ma ovviamente vederlo in rete attraverso un link riservato era fuori discussione tenuto conto della pessima connessione che ho da un po’ di tempo a questa parte. Non potevo venire in Italia perché in Libia l’ufficio per la richiesta di visti verso l’Italia è chiuso. I visti per l’Italia li concedono solo a vip e a persone ben viste in ambasciata, e io non rientravo in nessuna di queste due categorie.

Mosul. Dal progetto Life, still. (Alessio Romenzi)

Romenzi e Mannocchi non potevano tornare a Tripoli perché la loro richiesta di visto si era persa di nuovo nel labirinto della burocrazia libica. In casi come questo, nessuno sa niente, ma tutti assicurano che sì, la prossima settimana si saprà qualcosa, e continueranno a ripeterlo una settimana dopo l’altra.

Abbiamo stabilito di vederci in Tunisia, a metà ottobre, dove ho avuto la possibilità di conoscere un po’ meglio Romenzi. Mi ha fatto vedere le foto scelte per la sua prossima mostra Life, still, che conterrà i suoi scatti dalle zone di guerra. Mentre scorreva le foto viaggiava con una sua personale macchina del tempo, e si chiedeva come fossero quei luoghi prima, che tipo di vita ci fosse, e quale potrà essere quella nuova. Guardando quelle foto ho quasi osato dire che erano belle: turbano con delicatezza, invece di respingere attirano, inducendo chi le guarda a guardarne sempre di più e, alla fine, a provare stupore.

Senza reti di sicurezza
Finalmente ho potuto vedere il film. Non sapevo cosa aspettarmi, perché avevo evitato di leggere recensioni e anteprime. Avevo paura di vederlo, ma per ragioni diverse rispetto a quelle che di solito tengono le persone lontane da documentari di questo genere. Per quanto mi riguarda ho visto la mia razione di guerra, alcuni miei amici sono morti combattendo contro il gruppo Stato islamico in Libia, perciò non ero sicuro di come avrei potuto reagire.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Guardiamo i film di guerra proprio per essere terrorizzati e scioccati. Stiamo incollati alla poltrona con gli occhi spalancati, non abbiamo paura di conoscere i personaggi, impariamo a innamorarcene, a provare tristezza quando muoiono e felicità se i protagonisti sopravvivono. Il pubblico sa di essere al sicuro, protetto dal punto di vista emotivo. Esiste un tacito accordo tra pubblico e registi che per premiarci di aver guardato il loro film ci offriranno una speranza e un lieto fine soddisfacente, e naturalmente avranno cura di farci sapere che “nessun animale è stato maltrattato durante le riprese”.

Nel caso dei documentari le cose sono più complicate, non ci sono reti di sicurezza. Si possono prevedere le violenze e gli orrori che stanno per scorrere sullo schermo, rimaniamo con una stretta allo stomaco, con gli occhi semichiusi, si prova a proteggersi da ciò che stiamo per vedere. La distanza tra soggetto e personaggi è stata creata prima dell’inizio del film.

La descrizione della città all’inizio del film ci permette di entrare nella storia, e quando sullo schermo appare il titolo siamo del tutto aperti e disposti a cominciare il viaggio. Le inquadrature sono attente, non dicono troppo né troppo poco, dicono il giusto. Ci si dimentica di essere in attesa dello sviluppo della storia, la città si apre lentamente davanti ai nostri occhi e condivide con noi i suoi segreti. Il film si fida di noi, ci rispetta abbastanza da lasciarci spazio a sufficienza per capirlo, senza domande sottintese, senza guidarci o indicarci in che direzione guardare.

Mannocchi e Romenzi hanno una tecnica narrativa che offre al pubblico un raro sguardo panoramico passando dall’uno all’altro di diversi punti di vista limitati, ciascuno dei quali è un tassello del puzzle. Non presentano solo entrambe le parti in conflitto, due mondi completamente diversi nella stessa città, ma anche punti di vista conflittuali all’interno di ciascun campo.

Un analista politico italiano una volta mi ha detto che a nessuno importa di quello che è accaduto, l’importante è quello che accadrà. A molti mezzi d’informazione e a tante agenzie di stampa non interessa cosa è accaduto né cosa accadrà: danno la caccia a quello che sta accadendo adesso, è il loro obiettivo finale, e appena un tema smette di essere caldo, spostano altrove la loro attenzione.

Mannocchi e Romenzi hanno deciso di tornare lì quando tutti gli altri se ne erano andati. Isis, tomorrow è un film girato in Iraq, ma racconta una storia molto più grande, una storia che riguarda anche la Libia. È solo che non siamo riusciti a vederla, perché purtroppo non riflettiamo sulle nostre domande, non ci soffermiamo abbastanza a lungo per formularle come si deve. La maggior parte delle volte non ci fermiamo nemmeno ad ascoltare le risposte, aspettiamo solo che tocchi a noi parlare. La colpa però non è solo nostra: dopotutto a scuola ci premiavano solo per le risposte giuste che davamo, mai per aver fatto una buona domanda.

Riguardo alla realizzazione del film mi hanno detto di essere stati fortunati, e di aver lavorato con ottimi produttori e montatori. So che sono stati fortunati in molte occasioni, per esempio quando a Sirte sono sopravvissuti a un bombardamento che li ha mancati di pochi metri e ha colpito la loro automobile. Quella è fortuna, ma nel loro film non c’è spazio per la fortuna.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Leggi anche:

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it