03 luglio 2020 16:33

Questo articolo è uscito nel numero 1198 di Internazionale.

Il 16 novembre 2016, uno degli uomini più ricchi degli Stati Uniti, il guru degli investimenti e filantropo Tom Marsico, è diventato ancora più ricco: a un’asta di Christie’s a New York, uno dei Covoni di Claude Monet è stato venduto a 81,4 milioni di dollari. Il prezzo, che ha battuto il record di vendita di un quadro dell’autore all’asta, era sei volte quello che Marsico aveva pagato nel 2002, dimo-strando che ben pochi investimenti rendono quanto un Monet.

Lo spettacolare successo delle opere dell’impressionista francese nelle case d’asta di Londra e New York è ormai diventato la norma. Ma i prezzi esorbitanti che si pagano oggi per i suoi quadri non sono in contrasto con la fortuna commerciale che Monet ebbe mentre era in vita. Le storie sui critici d’arte che disprezzavano l’impressionismo – con le conseguenti difficoltà economiche dei pittori del movimento – sono solo leggende. Certo, all’inizio Monet ebbe qualche problema. “Ne abbiamo abbastanza di quel tipo di pittura”, sbuffò un componente della giuria del salone annuale di Parigi nel 1868, rifiutandosi di esporre le sue opere.

Quell’anno, il suo lavoro fu poco apprezzato, e probabilmente Monet passò l’inverno mangiando solo patate. Ma per la maggior parte della sua carriera l’artista non morì certo di fame, e la dieta a base di patate fu ben presto sostituita dai suoi piatti preferiti, come foie gras alsaziano, tartufi del Périgord e aragosta al pepe. “In casa sua si mangia la miglior cucina francese”, dichiarò un ospite estasiato dalle delizie gastronomiche servite chez Monet.

La verità è che dopo i cinquant’anni (quando morì ne aveva 86), Monet cominciò a nuotare nel denaro: una bella fortuna per un bon vivant come lui. La sua ricchezza gli permise di avere una piccola flotta di automobili, abiti di tweed confezionati da un bravo sarto inglese di Parigi e un piccolo esercito di giardinieri che si occupava dei suoi famosi giardini. Da questo punto di vista, ha più in comune con Damien Hirst e Jeff Koons, con i loro attivissimi agenti, i loro facoltosi collezionisti e le loro fortune multimilionarie, che con artisti che in vita furono relegati ai margini, come Vincent van Gogh. In effetti, si può dire che sia stato l’equivalente di Koons nell’età del jazz: nel 1922, quattro anni prima di morire, grazie alla vendita di una delle sue tele a un milionario giapponese, Monet diventò l’artista vivente più costoso al mondo.

Arte come trofeo
Monet è sempre stato il pittore preferito dei ricchi e famosi. Oltre a Marsico, hanno acquistato i suoi quadri David Rockefeller, la regina madre del Regno Unito, l’ex first lady delle Filippine Imelda Marcos, il principe Ranieri di Monaco, l’imprenditore alberghiero Steve Wynn e vari miliardari russi e asiatici. Le sue opere, simbolo di gusto estetico e di potere economico, sono straordinari beni di consumo ma anche investimenti proficui.

I quadri di Monet funzionavano così anche quando lui era in vita: erano trofei che abbellivano le collezioni di personaggi dell’élite internazionale come il finanziere di origine turca Isaac de Camondo, il re della margarina francese Auguste Pellerin, l’industriale giapponese Kōjirō Matsukata, il mercante di tessuti russo Sergej Ščhukin e il petroliere dell’Azerbaigian Jacques Zoubaloff. Ma molti dei primi e più affidabili acquirenti dei quadri di Monet furono statunitensi, tanto che già nel 1888 un critico francese lo accusava di creare opere “destinate ai gusti dei newyorchesi”. I sagaci plutocrati dell’età dell’oro, spesso spronati dalle loro ancor più sagaci mogli, nel mettere insieme le loro collezioni di opere d’arte dimostrarono lo stesso acume che gli era servito per ammassare fortune da capogiro nell’industria delle ferrovie o del legname. Negli anni novanta dell’ottocento, ormai pochi di loro potevano visitare Parigi senza fare un giro nelle gallerie di Georges Petit o Paul Durand-Ruel, gli instancabili venditori dei quadri di Monet. Tornavano a casa con casse piene di tele.

Questa storia d’amore ottocentesca tra il denaro statunitense e la nuova arte francese può sembrare improbabile. Osservando i suoi compatrioti in Europa negli anni settanta, Henry James era inorridito. “Per loro non si può usare che una parola: volgari, volgari, volgari. È l’assoluta, incredibile mancanza di cultura che più colpisce negli americani comuni che viaggiano”. Ma sarebbero stati proprio quegli americani, o almeno una loro opulenta avanguardia, ad andare in soccorso dei poveri e disprezzati artisti francesi, trovando nell’impressionismo la bellezza e il valore che l’arte francese aveva perduto da qualche decina di anni.

Molti di loro erano nuovi ricchi: milionari che si erano fatti da sé e avevano accumulato le loro fortune dopo la guerra civile nel settore dei tessuti, degli immobili, delle miniere, delle ferrovie e della finanza. A essere sinceri, avevano avuto bisogno di una piccola spinta: l’impresa di vendere quadri impressionisti ai nuovi milionari – uomini abituati a capire il valore di una merce – non fu affatto facile. I collezionisti dovevano essere convinti sia del valore estetico di un’opera d’arte moderna sia della sua convenienza economica. Un Monet era qualcosa di molto diverso da quel che compravano di solito, come i soffitti a cassettoni o gli affreschi rinascimentali che trovavano a Firenze nel magazzino di Stefano Bardini, il cosiddetto “principe degli antiquari”. I tesori di Bardini erano così numerosi e così richiesti, che l’architetto Stanford White teneva una nave ormeggiata nel porto di Livorno, pronta a trasportarli negli Stati Uniti per abbellire le residenze dei suoi clienti dell’età dell’oro, come il colonnello Oliver Hazard Payne. Payne, uno degli uomini più ricchi degli Stati Uniti, adornava le sue case di fregi italiani, porte di quercia francesi, mensole da camino di Robert Adam, soffitti intagliati italiani e quadri di Velázquez e Rubens. Dopo avergli fatto visita, lo storico Henry Adams dichiarò che la sua collezione comprendeva cose che “forse non hanno più neanche i re”.

Tra i possedimenti del colonnello c’erano anche due dipinti a olio di Monet. La loro presenza sulle pareti della sua casa testimoniava il successo di un nuovo esperimento di marketing, un modo innovativo di vendere arte negli Stati Uniti. Il trionfo di Monet e dell’impressionismo negli Stati Uniti richiese una certa genialità da parte di chi vendeva, la disponibilità al rischio di chi comprava e quello che oggi potremmo chiamare un buon passaparola. Molto del merito fu di mercanti d’arte intraprendenti come Durand-Ruel. Altrettanto importante fu l’impresario James F. Sutton, mercante e collezionista che, all’inizio del novecento, possedeva più Monet di chiunque altro.

Illustrazione di Franco Matticchio

Sutton entrò in scena in un periodo in cui i capitani d’industria nordamericani stavano usando le loro fortune per conquistarsi la stima della società. Come scrisse un giornalista newyorchese nel 1885: “I nostri nuovi milionari – e ne abbiamo una legione – dopo essere riusciti ad accumulare tanto denaro, adesso cercano il riconoscimento sociale”. Sutton, genero di Rowland Hussey Macy, fondatore dei grandi magazzini omonimi, decise di aiutarli a realizzare le loro aspirazioni e nel 1883 fondò con il banditore d’aste Thomas E. Kirby l’American art association (Aaa), una galleria d’arte e casa d’aste esclusiva che mirava a promuovere, esporre e vendere opere d’arte statunitensi. Ben presto Sutton cominciò a interessarsi a una specie più esotica e costosa di artisti. Nonostante l’introduzione della legge sulle tariffe doganali del 1883, che imponeva un dazio del 30 per cento sulle opere d’arte straniere che entravano negli Stati Uniti, l’Aaa divenne uno dei più importanti acquirenti di quadri stranieri di valore del paese, una tradizione che in seguito avrebbe continuato diventando la filiale locale di Sotheby’s.

La legge sulle tariffe doganali, che puntava a ridurre l’acquisto dei beni di lusso europei, indicava un importante cambiamento del senso estetico. Prima della guerra civile, i gusti degli statunitensi erano decisamente provinciali e isolazionisti, e i loro critici d’arte esaltavano la “fresca e sana terra” del nuovo mondo, che consideravano il posto migliore per scoprire visioni artistiche sublimi e rinvigorenti. Come ha osservato lo storico Lois Fink, prima della guerra civile i guardiani della cultura del paese erano convinti che la loro arte avrebbe superato quella degli europei “se gli americani non si fossero lasciati contagiare dalle loro consunte e decadenti tradizioni”, una filosofia espressa con grande forza da Ralph Waldo Emerson nel suo Lo studioso americano (1837), che attaccava “i resti appassiti dei raccolti stranieri”.

Ma la guerra civile, con la corruzione economica e politica che ne era seguita, provocò un moto di angosciosa autocoscienza. Improvvisamente, le polverose tradizioni europee non sembravano più così negative, mentre gli Stati Uniti potevano diventare, come dichiarò tristemente James nel 1874, un “grande continente senza doti, spoglio, né divertito né divertente”.

Dopo la guerra civile, i giovani artisti di oltreoceano si riversarono a frotte negli studi parigini

James faceva parte del flusso di giovani statunitensi che visitavano l’Europa. La Francia, in particolare, esercitava su di loro un grande fascino. Nel suo The greater journey: americans in Paris (2011), David McCullough racconta che le menti migliori e più brillanti del paese – James Fenimore Cooper, Samuel Morse, Henry Wadsworth Longfellow, Oliver Wendell Holmes, Elizabeth Blackwell – andavano a Parigi per affinare il loro intelletto nelle sue famose istituzioni e anche per godere, come ammetteva Cooper, “del piccolo piacere nascosto in fondo alla tazza”. Agli statunitensi che fuggivano dalla loro patria priva di doti e poco divertente, Parigi offriva sia gli stimoli intellettuali sia la bohème.

Dopo la guerra civile, i giovani artisti di oltreoceano si riversarono a frotte negli studi parigini anziché, come aveva fatto la generazione precedente, verso gli epici panorami del fiume Hudson e della Sierra Nevada. Andavano lì con l’idea di imparare dai rinomati professori dell’École des beaux-arts i trucchi per dipingere seri e solenni melodrammi storici, ma ben presto molti di loro rimasero incantati da visioni artistiche più elettrizzanti e innovative. E tornando negli Stati Uniti cantavano le lodi di tutto quello che avevano visto.

La prima delle loro passioni era stata la scuola di Barbizon, con le malinconiche scene all’aria aperta di pittori come Théodore Rousseau e Jean-François Millet. Per molti collezionisti, la strada che portava a Monet e Giverny passava attraverso il villaggio di Barbizon, una sessantina di chilometri a sud di Parigi, dove c’era una scuola di paesaggisti che amavano rappresentare scene di vita rurale. La popolarità di Millet negli Stati Uniti dopo la guerra civile fu in parte dovuta al fatto che gli allievi che avevano studiato con lui a Barbizon negli anni cinquanta e sessanta, soprattutto William Morris Hunt, quando tornarono a casa diventarono i suoi apostoli più entusiasti e lo consigliarono ai loro compatrioti. Qualche anno dopo, Hunt accompagnò a Barbizon altri bostoniani, come Quincy Adams Shaw, che alla fine avrebbe accumulato una collezione di 26 quadri di Millet. Approfittando di questo nuovo entusiasmo, dopo la guerra i mercanti d’arte specializzati nella scuola di Barbizon aprirono sedi a Boston e New York. La storia d’amore tra gli Stati Uniti e la pittura moderna francese stava per cominciare.

Sutton e l’Aaa si schierarono in prima linea per favorire l’invasione della scuola di Barbizon. Ma quanto prestigio sociale si acquisiva comprando un Millet o un Rousseau? Un Raffaello o un Rembrandt erano una cosa, ma i pittori di Barbizon, non avendo ancora superato la prova del tempo, erano tutt’altra faccenda. In particolare, Millet era guardato con sospetto dai conservatori francesi per via delle sue scene di vita comune apparentemente cariche di significati politici. “Su questa tela è scritta un’intera rivoluzione sociale”, scriveva un critico a proposito dell’Angelus (1859), che mostrava una coppia di contadini in un campo che piegava la testa al suono delle campane di una chiesa lontana. Come poteva un pittore simile attirare i boriosi baroni del capitalismo americano?

I possibili acquirenti di questa nuova arte francese avevano bisogno di essere rassicurati. Lo storico dell’arte John Ott ha dimostrato che il colpo di genio di Sutton fu tirare fuori l’arte dalle ammuffite sale delle gallerie private (perfino le sale parigine di Durand-Ruel secondo il critico ricordavano le celle di una prigione) per crea-re spettacoli di un lusso raffinato che soddisfacevano le aspettative e le ambizioni sociali dei suoi ricchi clienti. Sutton aveva stabilito una serie di rituali, che forse aveva imparato quando lavorava da Macy’s. Le tele degli artisti di Barbizon, che una volta erano stati definiti da un funzionario francese “uomini che non si cambiano mai la biancheria”, erano presentate facendole apparire come merci di lusso, emblemi della capacità di spendere dei suoi clienti come i cavalli da corsa, le porcellane o i vini d’annata.

Illustrazione di Franco Matticchio

L’ambientazione era fondamentale. Venivano organizzate anteprime nelle gallerie ornate di palme dell’Aaa a Madison square, che un giornalista dell’epoca definì “imponenti, ben illuminate e lussuosamente silenziose”, con un delicato accompagnamento di brani di musica classica. In un’illustrazione della rivista Harper’s Weekly del 1884 si vedono signore in abiti alla moda orlati di pelliccia che passeggiano in una stanza elegante arredata con divani di velluto e un caminetto davanti a quadri in cornici elaborate. Le aste si svolgevano alla Chickering hall, un teatro da 1.500 posti sulla Quinta strada dove si tenevano opere e concerti. I cataloghi, con la copertina rossa e le scritte in oro, contenevano molte illustrazioni e apparivano al tempo stesso belli e autorevoli. Potevano costare fino a 23 dollari.

Ben presto le aste dell’Aaa diventarono, come osservava un critico nel 1887, “il luogo d’incontro preferito delle persone ricche e alla moda”. Si tenevano di sera, come l’opera lirica, con i dipinti esposti sullo sfondo di tende color porpora e illuminati da lampade a gas. Il battitore, in smoking, saliva sul podio come un direttore d’orchestra. Quando batteva il martelletto, tutto il teatro scoppiava in un applauso entusiasta, come alla fine di un’aria famosa o di un pas de deux ben eseguito. La vendita dei quadri era diventata uno spettacolo pubblico da seguire con trepidazione e da premiare con un applauso.

La strategia di Sutton – paragonata dai più diffidenti a quella circense di P.T. Barnum – gli garantì un grande successo. Per tutti gli anni ottanta, l’Aaa batté regolarmente il record del prezzo più alto pagato per un’opera d’arte venduta all’asta negli Stati Uniti. Erano sempre autori moderni. Nel 1889, il suo successo nel vendere quadri francesi negli Stati Uniti spinse un critico a vantarsi del fatto che il suo paese “possedeva più capolavori dell’arte francese della stessa Francia”. Il suo trionfo raggiunse il culmine nel 1890 con la vendita dell’Angelus di Millet a 750mila franchi, il prezzo più alto mai pagato per un quadro moderno.

Ma sulle fortune di Millet il sole stava tramontando implacabilmente come sulle teste chine dei suoi raccoglitori di patate. Sutton si stava già interessando alla generazione successiva di pittori francesi, i cui temi preferiti non erano più i poveri contadini in brulli paesaggi, ma le delizie e i divertimenti dei caffè, degli ippodromi, dei giardini e dei paesaggi campestri. “L’impressionismo sta diventando di moda”, scriveva un giornalista di Boston nel 1891, osservando che adesso i collezionisti andavano a Parigi in cerca delle sue scintillanti armonie pittoriche. Nel 1892, una rivista d’arte statunitense definiva già l’impressionismo come “la religione del momento”.

Gli artisti statunitensi che studiavano in Francia contribuirono a stuzzicare l’appetito dei loro amici pieni di soldi e dei loro protettori in patria

Sutton fu in parte responsabile di questo cambiamento di gusto. Secondo lo storico Malcolm Goldstein, fu il primo statunitense a riconoscere non solo il valore estetico ma anche quello commerciale degli impressionisti. Nel 1885 Sutton era andato a Parigi per incontrare Durand-Ruel, che due anni prima aveva esposto opere di Monet, Manet, Renoir, Sisley e Pizarro a una fiera di Boston. Nessuno aveva comprato i quadri, probabilmente perché la mostra era stata organizzata in un immenso magazzino che d’inverno si trasformava in pista di pattinaggio, molto diverso dalle lussuose sale di Sutton. Ma Durand-Ruel aveva continuato imperterrito a promuoverli e nel 1886, su richiesta di Sutton, aveva spedito 289 quadri di impressionisti parigini da esporre a New York sotto l’egida dell’Aaa. Questa volta gli artisti francesi furono aiutati dalla maestria commerciale di Sutton e dalla sua abilità nell’aggirare il problema della tariffa doganale del 30 per cento. L’Aaa produsse un catalogo elegante e ricco di informazioni che conteneva, tra le altre cose, la traduzione di un articolo del 1885 di un giornale francese che definiva Monet “un caposcuola” e “un paesaggista di prim’ordine”.

Con un totale di quaranta opere, Monet era l’artista più rappresentato alla mostra. Era un po’ preoccupato di mandare i suoi quadri in quella che chiamava “la terra degli yankee”, ma Durand-Ruel aveva insistito. “Non pensare che siano dei selvaggi”, aveva detto per rassicurare un altro dei suoi riluttanti artisti, Henri Fantin-Latour. “Sono meno ignoranti e di vedute più aperte dei collezionisti francesi”. Con suo grande sollievo, la mostra fu un successo: trenta dei quaranta dipinti di Monet furono acquistati. Il collezionista Abel W. Kingman ne comprò quattordici. Anche se i prezzi erano modesti rispetto a quelli di Millet, la lunga infatuazione dell’America per Monet era cominciata.

I lussuosi saloni di Sutton e la sua abilità come venditore non furono l’unico motivo del successo degli impressionisti negli Stati Uniti. Ancora una volta, come con la scuola di Barbizon, gli artisti statunitensi che studiavano in Francia contribuirono a stuzzicare l’appetito dei loro amici pieni di soldi e dei loro protettori in patria. Mary Cassatt comprava quadri per il fratello Alexander, presidente della Pennsylvania railroad. Negli anni ottanta acquistò più di trenta dipinti per la sua casa di Filadelfia. “È una bellezza”, disse il padre ad Alexander dopo aver visto un Monet che Mary aveva comprato per 800 franchi nel 1881. E aveva aggiunto: “Vedrai che un giorno per averlo te ne offriranno ottomila”. L’apprezzamento di Cassatt padre per il Monet sia dal punto di vista estetico sia come investimento sarebbe stato condiviso da molti collezionisti.

Mary Cassatt riuscì a convincere anche la sua amica Louisine Elder, che nel 1880, a 22 anni, fu la prima statunitense a comprare un Monet, pagandolo appena 300 franchi. In seguito, come Louisine Havemeyer, moglie del re dello zucchero Henry O. Havemeyer, avrebbe adornato il suo palazzo sulla Quinta strada, decorato da Tiffany, con trenta Monet.

Nel primi anni novanta dell’ottocento, Cassatt fece conoscere gli impressionisti a un’altra importante collezionista: Bertha Palmer, moglie di Potter Palmer, il re dei grandi magazzini di Chicago, la cui strategia commerciale – sostituire i negozi strapieni di roba con punti vendita spaziosi dove la merce era presentata in modo attraente – aveva ispirato il direttore di Macy’s (e per estensione, forse, aveva influito anche sul modo innovativo di Sutton di presentare i quadri). Nel 1891, Palmer fece razzia di Monet, scegliendone 25 per decorare la sua casa di Gold coast, a Chicago. Nei vent’anni successivi, arricchì la sua collezione con molte altre tele, tra cui anche i famosi Covoni di Marsico. La comparsa dei quadri di Monet incorniciati d’oro sulle pareti del suo salone in stile Luigi XVI, dove condividevano lo spazio con arazzi, colonne di marmo e pelli di tigre, conferì ai dipinti lo status di merci di lusso.

Per i collezionisti statunitensi, il passo successivo fu mettere i Monet nei nuovi musei fondati in città come Boston, New York e Chicago negli ultimi decenni dell’ottocento. Il passaggio dalle case private ai musei pubblici diede a Monet l’imprimatur di autorità e – cosa ancora più importante – la possibilità di essere ammirato da una fetta molto più ampia della società. Quando, nel 1889, Erwin Davis, proprietario di miniere e ricco speculatore, donò due dei suoi quadri al Metropolitan museum of art di New York, Monet diventò il primo impressionista a varcare la soglia di un museo americano. Nessun museo francese ne aveva ancora uno.

La donazione più famosa fu quella di Louisine Have-meyer al Met nel 1929, un lascito che comprendeva otto Monet. A quell’epoca, il Museum of fine arts di Boston ne aveva già più di venti, che gli erano stati donati nei decenni precedenti (i primi tre già nel 1906) da decine di collezionisti locali. A Chicago nel 1922 l’Art institute fu arricchito dal lascito di Bertha Palmer. Questa donazione compensò in parte il museo per non essere riuscito ad acquistare trenta dei grandi dipinti sul tema delle ninfee due anni prima: un giornale di Chicago scrisse che l’artista aveva rifiutato un’offerta di tre milioni di dollari. Questa cifra è sicuramente esagerata, ma così come Oscar Wilde non aveva bisogno di passeggiare veramente per Piccadilly con un giglio in mano perché la gente credesse di averlo visto, non ci volle molto perché il pubblico si convincesse che i quadri di Monet potevano costare somme enormi.

Questa possibilità fu ulteriormente confermata nel 1921, quando l’industriale giapponese Kōjirō Matsukata, presidente della Kawasaki Dockyard company, andò a trovare Monet. “Coraggio, mi chieda la cifra che vuole”, gli disse quando arrivò a Giverny. Matsukata cercava quadri per il museo personale che stava progettando, il Kyoraku Bijutsu Kwan, o padiglione dell’arte per puro piacere. L’astuto pittore lo accontentò, dandogli venti tele in cambio di un assegno da un milione di franchi.

Circa un anno dopo, Matsukata tornò a Giverny. Quella volta diede a Monet un assegno da 800mila franchi chiedendogli di scegliere un quadro per lui. Non sappiamo con certezza quale decise di dargli, ma probabilmente fu Ninfee, la tela di due metri per due oggi conservata al museo nazionale di arti occidentali di Tokyo. Quegli 800mila franchi fecero del quadro l’opera d’arte più pagata di un artista vivente, un record che fino a quel momento apparteneva a Ballerine alla sbarra di Degas, acquistato da Havemeyer per 478.500 franchi nel 1912. Dato che la collezionista aveva comprato il quadro dal suo proprietario precedente, a Degas non toccò neanche un briciolo di tanta generosità, e con una battuta disse che si sentiva come un cavallo da corsa che vince il Grand Prix e viene premiato solo con un po’ di fieno. Monet, invece, intascò l’assegno di Matsukata personalmente.

Una fama immortale
I pittori spesso pagano il successo commerciale in vita con l’oblio dopo la morte. “Molte persone che un tempo godevano di grande fama oggi sono solo palloni sgonfiati”, osservò una volta l’artista francese Ernest Meissonier pensando con ansia al destino che sarebbe toccato a lui. Come Millet, Meissonier era stato uno dei preferiti dei milionari americani. Nel 1887, alla Chickering hall Sutton aveva venduto una delle sue scene napoleoniche, Friedland 1807, a 66mila dollari. Ma dopo la sua morte, avvenuta nel 1891, il pallone di Meissonier si sarebbe sgonfiato. “Cosa rimane oggi di tanta magnificenza?”, si chiedeva uno storico dell’arte nel 1925.

Monet, che sarebbe morto l’anno dopo e che, come Meissonier, era stato coperto d’oro e di gloria, avrebbe potuto subire la stessa sorte. Anche se si era assicurato un posto nella storia dell’arte grazie alle sue prime opere impressioniste, negli anni tra le due guerre fu brevemente sballottato dal vento della nuova critica. Le sue ninfee – le enormi, evanescenti visioni di riflessi sull’acqua e cambiamenti di luce dipinte negli ultimi dieci anni della sua vita, quando l’ultima moda erano le costruzioni più solide di Cézanne e del cubismo – furono messe in discussione. Ma nel giro di pochi anni, gli appassionati tornarono a interessarsi ai suoi lavori, grazie anche alle affinità che percepivano tra questi suoi ultimi dipinti e l’espressionismo astratto.

Da allora, la sua fama è rimasta invariata. Un economista ha calcolato che nei dieci anni dopo la seconda guerra mondiale i quadri di Monet aumentarono di valore in media del 21 per cento all’anno. C’è poco da meravigliarsi, quindi, se è ancora uno dei pittori preferiti degli uomini d’affari della terra degli yankee.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è uscito nel numero 1198 di Internazionale. Era stato pubblicato sulla rivista online Aeon.

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