13 aprile 2021 14:20

Quando leggerete quest’articolo, almeno un quarto degli statunitensi avrà ricevuto la prima dose di un vaccino contro il covid-19. È una svolta sorprendente per un paese dove la confusa risposta iniziale alla pandemia, gli incentivi economici inadeguati per far restare le persone a casa e regolamenti contraddittori sull’uso delle mascherine hanno portato a più di trenta milioni di contagi e oltre 554mila vittime.

Appena a nord del confine, i canadesi – di solito orgogliosi della loro copertura sanitaria universale – guardano al loro vicino con gelosia. “L’invidia vaccinale si è trasformata in psicosi nazionale, un altro motivo per autoflagellarsi per un qualche terribile difetto del paese”, ha scritto sul sito canadese di notizie iPolitics Alan Freeman, un giornalista oggi funzionario pubblico e universitario. Sul quotidiano The Globe and Mail l’opinionista Ian Brown ha raccontato il suo incontro con una persona vaccinata: “Ho subito sentito un desiderio di vendetta. Niente di serio: rubargli l’auto, magari, o il portafoglio”.

La maggioranza dei canadesi ha rispettato le direttive sanitarie, indossando le mascherine, limitando le interazioni sociali, lavando o disinfettando le mani fino a scorticarsi i polpastrelli. E cosa abbiamo ottenuto? Il numero di vaccini pro capite è inferiore a quello di altri cinquanta paesi, tra cui Brasile, Cile, Turchia e buona parte dell’Europa, secondo l’osservatorio sull’immunizzazione della Johns Hopkins university. I viaggi in Canada oggi sono sconsigliati: “I viaggiatori dovrebbero evitare qualsiasi spostamento in Canada”, avvertono i Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie (Cdc) degli Stati Uniti. A marzo il dipartimento per la sicurezza interna statunitense ha annunciato che il confine tra Stati Uniti e Canada – chiuso da quasi un anno – sarebbe rimasto chiuso almeno per un altro mese.

“In tutta questa faccenda non abbiamo niente di cui essere fieri”, mi dice André Picard, esperto di sanità in Canada e columnist sul Globe and Mail.

Problemi più profondi
Da un certo punto di vista, è il risultato naturale di vivere in un piccolo paese durante una crisi sanitaria globale senza precedenti, che ha sconvolto le catene d’approvvigionamento in tutto il mondo. Senza una capacità di produzione interna degna di questo nome, il Canada ha dovuto firmare preaccordi di acquisto con aziende straniere produttrici di vaccino.

Il paese si è cautelato scegliendo soprattutto quelle finanziate dall’operazione Warp speed (un accordo tra pubblico e privato avviato dall’amministrazione Trump per facilitare lo sviluppo e la distribuzione dei vaccini contro il covid-19), e finora la sua strategia è stata quella di comprare dosi in eccesso, nella speranza di garantirsene abbastanza per vaccinare tutti i cittadini.

Il paese è rimasto senza case farmaceutiche in grado di fare ricerca e sviluppo in modo autonomo

Oggi però in molti sostengono che il Canada avrebbe dovuto essere più preciso e non accontentarsi del “primo trimestre del 2021”, quando ha negoziato i tempi delle consegne. Secondo Picard, non indicando ai produttori una settimana o addirittura un giorno specifici, il paese gli ha permesso di ritardare la consegna fino agli ultimi giorni del trimestre.

“Il lasso di tempo tra l’approvazione del vaccino e l’effettiva vaccinazione delle persone va ridotto il più possibile”, afferma Tim Evans, direttore della Scuola di popolazione e salute globale della McGill university e della task force canadese sull’immunità da covid-19. “Un’ampia maggioranza della popolazione considera i vaccini lo strumento per uscire dalla pandemia. Per questo le tempistiche sono parte del problema: ogni giorno sembra un’eternità”.

Ma i problemi del Canada sono più profondi: a causa di una combinazione di burocrazia e legislazione, il paese è rimasto senza case farmaceutiche in grado di fare ricerca e sviluppo in modo autonomo, perdendo la sua capacità di rispondere rapidamente a potenziali pandemie e di organizzare una strategia al livello nazionale per gestire la crisi sanitaria e distribuire i vaccini. “Credo che per i canadesi sia frustrante vedere la velocità con cui procedono le vaccinazioni negli Stati Uniti e sapere che anche altri paesi del mondo hanno molte più vaccinazioni per numero di abitanti”, dice Picard. “Ma il problema ha radici storiche”.

Secondo Robert Van Exan, che ha trascorso tutta la sua vita nel settore farmaceutico canadese, i motivi della carenza di vaccini nel paese sono chiari. “Il Canada è rimasto a guardare per decenni, mentre la sua industria farmaceutica abbandonava il paese, perché ha creato un ambiente poco favorevole all’investimento sul suo territorio”, dice.

Regolamenti severi
In Canada ci sono tre settori nei quali i regolamenti in vigore sono ostili alle aziende produttrici di vaccini, soprattutto multinazionali: brevetti, prezzi e approvvigionamento.

La maggior parte dei paesi concede alle aziende farmaceutiche brevetti che garantiscono un periodo di esclusività sul mercato: una sorta di premio per i dieci o quindici anni che l’azienda ha impiegato, in media, per la ricerca e lo sviluppo del farmaco. Van Exan fa notare che la protezione dei brevetti in Canada può essere più breve di vari anni e molto più complessa che in altri stati, il che rende lo sviluppo di farmaci nel paese meno allettante. Il governo canadese è inoltre in grado di regolamentare il prezzo di farmaci e vaccini, un altro fattore che scoraggia le aziende. “Infatti il paese sta aggiungendo ulteriori limitazioni e le autorità di regolamentazione dei prezzi sono più severe di prima”, spiega Van Exan.

Poi c’è quello che lui definisce un sistema d’approvvigionamento “di virtuale monopsonio” (un sistema di mercato in cui c’è un solo compratore). Il governo federale è il singolo principale acquirente dei vaccini, secondo il dipartimento canadese degli approvvigionamenti: quindi le aziende farmaceutiche che vogliono vendere sul mercato in Canada sono sicure di scontrarsi, prima o poi, con il sistema di controllo dei prezzi.

Insomma il caos attuale è il risultato di una trasformazione che va avanti da decenni. La colpa, tuttavia, è stata attribuita solo a Justin Trudeau, al suo sesto anno da primo ministro, sul quale oggi ricade il compito di risolvere la situazione.

“Per quanto riguarda i nostri problemi di produzione interna, negli ultimi vent’anni governi di qualsiasi orientamento politico hanno avuto la possibilità di correggerli, ma non l’hanno fatto”, dice Picard. “È facile affermare che l’attuale governo ha fallito, quando abbiamo avuto tutti la possibilità di fare qualcosa in passato”.

La memoria corta
Oggi, però, la soluzione non somiglia necessariamente a quella che il Canada avrebbe praticato vent’anni fa. Il nazionalismo vaccinale – che in Canada si tradurrebbe in concessioni alle grandi case farmaceutiche (per esempio un minore intervento nel fissare i prezzi) poco gradite ai cittadini, nel tentativo di avanzare rivendicazioni sulle forniture nazionali di vaccini e farmaci – non è per forza la risposta giusta per il paese. Nonostante le sue enormi dimensioni geografiche, il Canada ha appena 38 milioni di abitanti. Secondo Van Exan, il Canada potrebbe scambiare la sua esperienza e la sua capacità di produzione di accessori medici con accordi vaccinali migliori.

“Siamo molto più avanti di gran parte del mondo per quanto riguarda la ricerca accademica e sulle piccole biotecnologie legate ai vaccini”, dice. “Dobbiamo far rientrare le grandi aziende che hanno la capacità produttiva necessaria, per valorizzare tutte queste risorse”.

Non sono mancate in passato le possibilità di farlo.

Nel 2003 la sars uccise 44 canadesi, un numero ridotto rispetto ai 23mila morti per il covid-19. Dopo la pandemia di sars, il governo commissionò un rapporto di 234 pagine in cui denunciava i propri errori, compilato da David Naylor, preside della facoltà di medicina dell’università di Toronto. Il rapporto Naylor portò alla creazione dell’agenzia di sanità pubblica del Canada e propose alcune riforme. Nel rapporto si raccomandava al governo canadese di sostenere una migliore relazione tra pubblico e privato nei settori delle biotecnologie, delle tecnologie dell’informazione e con le case farmaceutiche, in particolare nel campo delle malattie infettive, dei vaccini e della tecnologia diagnostica.

Il governo federale era invitato a riesaminare le questioni di proprietà intellettuale e relative ai brevetti, tenendo le grandi aziende farmaceutiche alla giusta distanza. Raccomandava inoltre al Canada di sviluppare un quadro di riferimento legislativo e politico per avere una “risposta misurata, armonizzata e unificata alle emergenze di pubblica sanità”, e d’investire cento milioni di dollari all’anno per “rafforzare la strategia nazionale d’immunizzazione”.

Ma i canadesi hanno la memoria corta. Nel 2016 il Canada ha stanziato solo 25 milioni di dollari in cinque anni per aumentare la copertura immunologica. Il ruolo di funzionario capo della sanità del paese, a sua volta frutto delle raccomandazioni del rapporto Naylor, ha perso buona parte del suo potere a causa di complicazioni burocratiche. E, come fa notare Van Exan, il governo federale non ha steso un tappeto rosso alle case farmaceutiche dotate di ampi dipartimenti di ricerca e sviluppo affinché si stabilissero o si espandessero nel paese.

Inoltre i leader provinciali non sono stati particolarmente entusiasti all’idea di una strategia nazionale, in un paese costituzionalmente obbligato a organizzare l’assistenza sanitaria su base provinciale. Il governo federale ha potuto solo dare raccomandazioni alle sue province e ai suoi territori. Come ha scritto Naylor all’epoca, “dal momento che una risposta in prima linea alle epidemie avviene al livello locale e regionale, il generale rinnovamento delle infrastrutture sanitarie pubbliche porterà benefici e aiuterà ad affrontare la ‘prossima sars’”.

Per quanto imperfetta e lenta sia stata la distribuzione dei vaccini in Canada, Picard e altri esperti suggeriscono ai canadesi invidiosi di come sta andando la campagna vaccinale negli Stati Uniti di interrogarsi sul perché di questo ritardo. “In Canada siamo ossessionati da chi viene vaccinato e in che ordine, mentre credo che negli Stati Uniti si siano detti semplicemente: ‘Diamo inizio alle danze’, cioè vacciniamo chiunque. I canadesi sono molto prudenti in queste faccende, e questo ha rallentato la vaccinazione”, dice Picard. “Ma non credo sia una cosa negativa”, aggiunge. “Credo valga la pena di riflettere su come farlo in maniera equa”.

Tim Evans, della task force per l’immunità da covid-19, ritiene che un approccio più centralizzato e deciso nella distribuzione dei vaccini possa garantire un accesso più equo. Le raccomandazioni del comitato d’immunizzazione “sono state chiare”, dice Evans. “Prima gli anziani ricoverati nelle residenze sanitarie, poi gli anziani in generale, seguiti dalle comunità più in difficoltà, dalle minoranze etniche e dalle popolazioni native”.

Molti canadesi, obiettivamente, lo sanno. E per questo aspettiamo in coda, con riluttanza e lamentandoci. Lamentarsi, dopo tutto, è il passatempo nazionale. Ma se si materializzerà un piano per garantire 44 milioni di dosi al Canada entro il 1 luglio, i canadesi si dimenticheranno in fretta del covid-19. Fino alla prossima pandemia, naturalmente.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul mensile statunitense The Atlantic.

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