16 marzo 2021 14:02

Strette le une alle altre, come fossero abbracciate o come fiori che ondeggiano al vento. Puntano due dita verso il cielo in segno di vittoria, mentre dei passeri spiegano le ali e saltellano sui loro thobe bianchi, gli abiti che erano delle loro madri e delle loro nonne. Gli orecchini dorati sono dei cerchi neri. Sul muro tutto il resto è verde, un colore che sa di speranza e fa sparire il resto. Le protagoniste in Sudan sono loro, disegnate come regine nubiane.

We are the revolution: si chiamava così la serie”, ricorda l’artista Alaa Satir, lo sguardo assorto e poi un sorriso improvviso. “Avevo cominciato a disegnarla nel novembre del 2018, un mese prima che cominciassero le proteste, esplorando l’idea dell’accettazione di sé come forma di resistenza”. Satir, 29 anni, è nata e cresciuta nella capitale sudanese Khartoum. Dopo la laurea in architettura, ha lavorato come graphic designer e illustratrice freelance. Le ragazze da lei dipinte su una parete scalcinata, regine e volti di una lotta corale, hanno osservato i grandi sit-in che nell’aprile del 2019 hanno spinto l’esercito a intervenire e ad arrestare il generale Omar Hassan al Bashir, presidente e padrone del Sudan per trent’anni.

“La rivoluzione mi ha permesso di proiettare in uno spazio pubblico qualcosa su cui stavo già lavorando”, dice Satir riprendendo il filo dei suoi pensieri. “Ho capito che con la street art avrei potuto contribuire a un discorso più ampio e più potente”. Una consapevolezza che ora mette alla prova a Londra. Si è trasferita nella capitale britannica alla fine del 2019 per un dottorato di ricerca in Illustration and visual media alla University of the arts. Collegata dal computer, mostra foto che la ritraggono con indosso una camicetta di carta dalle maniche bianche e blu. Tra le mani tiene la copertina di un libro con la scritta Girl on girl, una sua reinterpretazione della Donna che legge di Pablo Picasso, ma con la capigliatura afro. Satir racconta della sua riflessione sulle “donne nere nell’arte europea”, dice di sentirsi “cittadina del mondo”, poi torna a parlare del Sudan e dei suoi nuovi progetti. Sta lavorando ad alcune illustrazioni da attaccare agli angoli delle strade, per incoraggiare le ragazze a “prendersi spazio”.

Impossibile cancellare
Ma come sono cambiati i muri di Khartoum? E dove sono finite le “regine nubiane” della rivoluzione? Dalla capitale del Sudan risponde Galal Yousif Goly, 35 anni, un’artista di strada che ha seguito, raccontato e ispirato i sit-in. “La rivoluzione è un’onda enorme”, dice. “Io ho cercato di nuotare e di ascoltare le voci di tutti, di chi era sulla cresta e di chi rischiava di annegare”. Yousif non risponde volentieri alle domande su di sé. Parla di “arte per il popolo”, dopo che “fin dal primo giorno” Al Bashir aveva cercato di ridurre gli artisti al silenzio e di distruggere le loro opere.

A giudicare dai muri di Khartoum non c’è riuscito. Anche perché la poesia, la musica e le immagini sono sempre state il cuore dei movimenti sociali in Sudan. Per esempio il compositore e virtuoso della lira Mohammed Wardi, nubiano e comunista, trasformò i versi di poeti in inni di libertà che accompagnarono le rivolte del 1964 e del 1985. Le proteste del 2019, invece, saranno ricordate per le foto e i video di Alaa Salah, la studentessa che ha guidato i cori dei manifestanti dal tetto di un pick-up, mentre intorno tutti le rispondevano “Thawra! (”rivoluzione” in arabo). Queste immagini hanno fatto conoscere al mondo i ragazzi che avrebbero sconfitto Al Bashir.

Anche dopo la caduta di Al Bashir non è facile: Yousif ricorda la strage del 3 giugno 2019, quando i militari hanno aperto il fuoco su una manifestazione uccidendo un centinaio di persone, ferendone settecento e commettendo decine di stupri. Sul piano politico ci sono stati poi il passaggio del potere al consiglio sovrano, presieduto dal generale Abdel Fattah al Burhan, e a un governo guidato da un civile, l’economista Abdallah Hamdok. Le elezioni dovrebbero svolgersi entro la fine del 2022. Un accordo di pace firmato nell’ottobre del 2020 con i gruppi ribelli del Darfur e di altre regioni di frontiera promette un percorso di pace e riconciliazione dopo decenni di conflitti.

“Ci sono stati momenti difficili, ma da un po’ nessuno cancella più i nostri murales”, riprende Yousif. I suoi graffiti, in cui cita il pittore norvegese Edvard Munch nei suoi medici, avvocati e lavoratori che urlano una disperata voglia di cambiamento, hanno trasformato palazzi residenziali e sottopassaggi in opere d’arte. Alcune sono state cancellate dai militari, altre no. È possibile rivederle nelle foto delle proteste, magari dietro i volti di chi si era presentato al sit-in con un pasto a base di pane e zuppa di fave, e perfino il tavolino, portati da casa.

Non puoi ricostruire in due anni qualcosa che è stato demolito per trenta

“Se ho fiducia nel nuovo governo?”, si chiede Yousif. “Non puoi ricostruire in due anni qualcosa che è stato demolito per trenta”. Eppure da Khartoum sono arrivate notizie incoraggianti. Dopo l’accordo di pace dell’autunno scorso, sono entrati nel governo quattro ex capi ribelli. Uno di loro, Ibrahim Gibril, figura storica del Movimento giustizia e uguaglianza (Jem), è ministro delle finanze. Dovrà rimettere in piedi un’economia colpita da 27 anni di sanzioni statunitensi, con un debito estero di 70 miliardi di dollari e con un’inflazione annuale che ha superato il 300 per cento. Perduto il petrolio del Sud Sudan, indipendente dal 2011, l’economia arranca e a pagare sono i poveri: nelle ultime settimane ci sono state proteste contro l’aumento del prezzo del pane in più regioni. Sono stati assaltati molti uffici pubblici e da metà febbraio è stato imposto il coprifuoco in un’area grande quanto la Francia al confine con il Ciad, dal Darfur al Kordofan.

Alex de Waal, direttore della World Peace Foundation, conosce bene le tensioni e le incognite nel futuro del Sudan, un paese su cui lavora dagli anni ottanta. Innanzitutto, si avvicina la fine di Unamid, la missione delle Nazioni Unite e dell’Unione africana in Darfur. Gli ultimi quattromila caschi blu dovranno andarsene entro la fine di giugno e saranno sostituiti da soldati sudanesi. Secondo De Waal, “è un’amara ironia che la missione si ritiri proprio nel momento in cui avrebbe potuto essere utile per far rispettare l’accordo di pace, tanto più che gruppi armati influenti come il Movimento di liberazione del Sudan, guidato da Abdel Wahid al Nur, non hanno ancora firmato l’intesa”.

Altre preoccupazioni sono legate a una clausola dell’intesa che prevede il rientro dei combattenti dalla Libia e ai nuovi scontri intercomunitari scoppiati per il controllo dell’acqua, dei pascoli e di risorse che sono sempre più limitate. Secondo l’Onu, dal 15 gennaio queste violenze hanno spinto circa centomila persone ad abbandonare le loro case. Sullo sfondo ci sono vecchie diatribe e ferite non rimarginate: da un lato, le comunità arabe, maggioritarie a livello nazionale; dall’altro i neri, discriminati anche politicamente al tempo di Al Bashir.

L’ex presidente ora è in carcere a Khartoum. Su di lui pende un mandato di cattura della Corte penale internazionale per crimini di guerra e genocidio. In Darfur, invece, sono tornati i janjawid, i “diavoli a cavallo” assoldati da Al Bashir per contrastare i ribelli delle comunità nere. Da qualche tempo i janjawid sono stati integrati in nuove unità paramilitari, ma restano sotto la protezione del generale Mohamed Hamdan Dagalo, una figura chiave nel consiglio sovrano. “Devono proteggere proprio quelli che in passato erano i loro nemici”, racconta dalla città di Nyala una fonte che chiede di mantenere l’anonimato. “Se ne stanno agli angoli delle strade, nelle loro Land Cruiser, armati fino ai denti; controllano il territorio e ci mettono paura, perché nessuno si azzardi a fare un passo di troppo”.

Da sapere
Il Sudan dopo Al Bashir

19 dicembre 2018 In Sudan scoppiano le prime proteste contro il carovita nella città di Atbara. La contestazione si diffonde in tutto il paese.
22 febbraio 2019 Omar al Bashir, al potere da trent’anni, proclama lo stato d’emergenza e sostituisce tutti i governatori con dei militari.
6 aprile Nella capitale Khartoum i manifestanti danno vita a un sit-in, che diventa il centro della rivolta.
11 aprile Al Bashir viene arrestato dall’esercito. I generali annunciano che il paese sarà governato da un consiglio militare di transizione per due anni e che la costituzione è sospesa.
3 giugno Il sit-in di Khartoum, visto come una minaccia dai generali, viene sgomberato con estrema violenza: più di un centinaio di manifestanti vengono uccisi (e i corpi di alcuni sono gettati nel Nilo), decine di donne vengono stuprate.
17 luglio I generali e i leader della protesta firmano una dichiarazione costituzionale che porta alla formazione di un consiglio sovrano formato da militari e civili, e di un governo che resterà in carica tre anni.
21 agosto L’economista Abdallah Hamdok diventa primo ministro.
14 dicembre Al Bashir è condannato a due anni di carcere per corruzione.
21 luglio 2020 Comincia un nuovo processo per Al Bashir, in relazione al colpo di stato del 1989 che lo portò al potere.
Agosto-settembre Il Sudan è colpito da terribili alluvioni, che causano un centinaio di morti e distruggono centinaia di migliaia di abitazioni.
3 ottobre Dopo mesi di negoziati, il Sudan firma un accordo di pace a Juba con vari gruppi ribelli, mettendo fine alla guerra del Darfur.
23 ottobre Dietro pressioni statunitensi, Khartoum accetta di normalizzare i rapporti con Israele. Negli stessi giorni Washington rimuove il Sudan dalla lista dei paesi che sostengono il terrorismo.
19 dicembre A due anni dall’inizio della rivolta, i sudanesi tornano in piazza per protestare contro il carovita e l’inflazione.
15 febbraio 2021 Il governo proclama lo stato d’emergenza in sette stati dopo le violente proteste contro l’aumento del prezzo del pane. L’inflazione annuale in Sudan supera il 300 per cento.


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