10 novembre 2020 11:48

La sfida principale che ho dovuto affrontare da regista è come rappresentare l’assenza, come mostrare qualcuno che non c’è.

Ho cominciato a girare un documentario con un uomo che poi è scomparso. Una voce così presente, forte e provocatoria era improvvisamente muta. Perché è successo? Cosa significava? Quali tracce ha lasciato dietro di sé? C’era per me un modo di rispondere a queste domande in un film?

Nel maggio del 2013 ero a place Vendôme, a Parigi. Un taxi accostò e padre Paolo Dall’Oglio, un sacerdote gesuita, mi fece salire in fretta. Eravamo in ritardo per la sua intervista alla radio, per pubblicizzare il suo libro, Collera e luce. Un prete nella rivoluzione siriana. Il suo instancabile lavoro a favore della Siria m’imponeva di sfruttare ogni momento e ogni occasione possibili per trascorrere del tempo con lui.

Conoscevo padre Paolo da quasi vent’anni e avevo realizzato vari film con lui. Nato a Roma, aveva vissuto per trent’anni in Siria, dove aveva creato una straordinaria comunità composta da monaci di diverse confessioni cristiane, dedita al dialogo tra le religioni, in particolare tra musulmani e cristiani. Aperta ai visitatori di ogni origine, di qualsiasi o di nessuna fede, la comunità era un luogo dove le persone potevano fermarsi, fare un picnic, discutere e fare un’esperienza di vita monastica e in comunità.

Negli studi di Radio Monte Carlo, nel 2013, padre Paolo era furioso. Furioso per le atrocità e le violenze del regime di Bashar al Assad contro i suoi cittadini, ma anche per l’incapacità della comunità internazionale di fermarlo e di sostenere il movimento democratico di protesta. Metteva in guardia dal rischio di nuovi spargimenti di sangue e implorava gli ascoltatori: “Non basta che le persone dicano ‘buona fortuna’. Venire a salvarci è un vostro dovere morale di essere umani”. Era il caro vecchio ed esuberante Paolo. Bene, ho pensato. Farò un film su un prete nella rivoluzione siriana. Era questo il mio progetto.

Un prete per tutti
Padre Paolo parlava perfettamente arabo, con un chiaro accento siriano. Le sue prese di posizione avevano portato alla sua espulsione dalla Siria nel 2012. In seguito aveva lavorato senza sosta a favore del paese, portando le sue idee di dialogo su un altro livello. Aveva perfino ideato un programma su Orient Tv, un canale di opposizione, dove invitava i siriani a discutere argomenti come il ruolo dei mezzi d’informazione, il settarismo, la violenza e le conseguenze delle bombe. Paolo mi aveva detto: “Per me il lavoro in televisione è uno strumento per lottare! Partecipare! Essere presente! Spero che funzionerà”. Non poteva restare in silenzio.

Un paio di mesi dopo il nostro incontro a Parigi, vidi padre Paolo nel filmato di una protesta notturna organizzata dal sindacato degli studenti a Raqqa, nel nord della Siria. Era il 28 luglio 2013, e i manifestanti intonavano slogan contro il regime. Padre Paolo era stato presentato come “un prete per tutti i siriani”. Il suo intervento, in cui diceva “Spero che Raqqa diventi la prima capitale di una Siria liberata, in attesa della caduta di Damasco in un futuro prossimo”, era stato accolto da un boato d’applausi.

Padre Paolo era entrato illegalmente in questa città della Siria settentrionale, che da poco si era liberata dalle forze del regime ma era sotto la minaccia dell’ascesa del gruppo Stato islamico (Is), che non ne aveva ancora fatto la sua capitale. I jihadisti dell’Is avevano rapito dei giornalisti francesi, e Paolo aveva deciso di fare il possibile per trattare il loro rilascio. Il 29 luglio andò a un incontro organizzato con i rapitori e non tornò più. Era stato rapito anche lui, e molte voci si rincorsero: che fosse stato ucciso, tenuto prigioniero, scambiato. Sette anni dopo non abbiamo ancora informazioni affidabili sul suo destino. È scomparso.

Le sparizioni forzate sono state una costante di buona parte dei conflitti del novecento, e una tattica regolarmente usata dai regimi

Quando è successo mi sono sentita confusa, arrabbiata, frustrata e triste. Non sapevo cosa fare. Continuare a filmare? Era possibile trattare per la sua liberazione? Potevo mettere in pericolo lui o qualcun altro continuando a filmare? Quali sarebbero state le conseguenze della sua uscita di scena per le battaglie per cui si era speso con tanta passione?

È stato un momento davvero doloroso per i familiari e gli amici di Paolo, che a loro volta non sapevano cosa fare: denunciare o rimanere in silenzio? Era un periodo delicato, e nessuno aveva una risposta.

Con il passare del tempo, le domande sono rimaste le stesse. Ho incontrato altre persone i cui cari sono scomparsi in Siria. Sono stata nel Kurdistan iracheno, in Giordania, Libano, Turchia e in giro per l’Europa. Presto è risultato chiaro quanto ampio fosse questo problema. Nel 2020 sono almeno centomila le persone fatte sparire con la forza in Siria e il numero continua a crescere. Il regime siriano, il cui frequente ricorso alla tortura e alla detenzione arbitraria è stato ampiamente documentato, è responsabile della stragrande maggioranza dei casi. Anche i gruppi armati non statali, come l’Is, hanno commesso questo crimine, facendo sparire almeno 8.300 persone.

Una sparizione forzata, secondo la sua definizione legale, si verifica quando una persona viene vista per l’ultima volta mentre si trova sotto la custodia delle forze statali (o di gruppi armati non statali), che non ammettono di averla detenuta o non rivelano dove si trova. Le persone più a rischio sono difensori dei diritti umani, parenti di altre persone scomparse, testimoni e avvocati. Come spiega l’attivista Shohini Shaudhuri, “in quanto crimine politico, può essere definito come l’arte di far scomparire le persone nel silenzio e cancellando le prove”.

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Le sparizioni forzate sono state una costante di buona parte dei conflitti del novecento, e una tattica regolarmente usata dai regimi autoritari. Durante la dittatura di Francisco Franco in Spagna sono scomparse centomila persone. Durante la guerra degli anni novanta in Bosnia ottomila. Nella guerra civile dello Sri Lanka quasi centomila. Durante il regime militare in Argentina trentamila. Nella guerra civile in Libano 17mila. In rari casi le persone sparite riappaiono dopo anni di detenzione. In altri, quando ci sono la volontà politica e gli strumenti per farlo, le loro spoglie vengono in seguito dissotterrate e identificate. Ma in troppi casi il destino di chi sparisce resta ignoto.

Questa tattica mira a diffondere il terrore e a cancellare storie ed esperienze personali. In un articolo sulle sparizioni forzate in Siria, Nadim Houry di Human rights watch riporta l’affermazione di un disertore del regime siriano: “Incarcerare una persona limita la sua capacità di agire, ma farla sparire paralizza un’intera famiglia, che dedicherà tutte le sue energie a ritrovarla. È difficile trovare uno strumento di controllo più efficace”. È un crimine che colpisce intere società, comunità e famiglie per generazioni. Riecheggia nel tempo, creando un’assenza che resta presente. Ciascuna di queste sparizioni è una storia individuale. È stato l’incontro con queste persone che mi ha spinto a realizzare il film Ayouni.

La storia più lunga
Avevo hard disk e cassette pieni di materiali filmati con padre Paolo dall’inizio degli anni duemila al 2010 e durante quell’ultimo viaggio a Parigi. Questi filmati di Paolo, accompagnati dalla sua voce, hanno acquisito un nuovo significato e un nuovo valore. Erano memorie e tracce di una persona che rifiutava di farsi cancellare. Chiedevano di essere raccontate e mostrate nel tempo presente. Avrei potuto fare un film “su Paolo”. Ma, dopo aver incontrato sua sorella Machi, mi sono resa conto che attraverso gli altri avrei potuto comprendere quanto fosse presente la sua assenza. È la storia più lunga, che racconta come quest’assenza abbia preso forma nel corso degli anni, e ci dice davvero qualcosa sia sulla persona sia sul crimine di cui è stata vittima.

Per il primo anniversario della scomparsa di padre Paolo, Machi m’invitò a Roma per filmare un appello rivolto ai suoi rapitori. Quello che mi colpì fu quanto questa situazione fosse non solo difficile e sfiancante (perfino io ero nervosa mentre filmavo), ma anche tenera. Machi parlava con grande calore di Paolo e scherzava con il fratello minore su come gliel’avrebbero fatta pagare, una volta liberato, per essere stati costretti a rivolgere un appello a dei rapitori ignoti. “Lo farò nero”, disse il fratello.

Questo piccolo e fugace momento è stato rivelatore. Anche se non era fisicamente con noi, sentivamo tutti la presenza di Paolo in qualche modo, anche se ci era stato sottratto. A ottobre, sei anni dopo aver filmato quel momento, ho presentato il film a Firenze, insieme a Machi. Lei ha detto qualcosa d’inatteso sul film, e cioè che i nostri cuori devono continuare a provare dolore e rabbia. Le persone che non conoscono queste storie devono sentire il dolore degli altri, ha aggiunto, perché “con il passare del tempo questo dolore si attenua e c’è il rischio, quando accade, che si cominci a dimenticare”. Queste storie rischiano di perdersi nell’oblio.

Sette anni sono tanti. Le nostre vite vanno avanti, quella di Machi è andata avanti. Se tornasse, padre Paolo sarebbe una persona diversa a causa delle violenze o dell’isolamento subiti. Ma c’è il rischio di dimenticare non solo le storie individuali, il dolore e la rabbia personali, ma anche le narrazioni politiche collettive vissute dalle persone scomparse e dalle loro famiglie.

Gli sposi della rivoluzione
Anche Noura Ghazi Safadi mi ha parlato spesso di oblio e ricordo, rabbia e tristezza, individualità e collettività. Ho seguito la sua storia per vari anni, mentre lottava per avere risposte sulla sparizione del marito.

“Sono arrabbiatissima con lui!”, mi ha detto teneramente Noura quando ha visto la versione definitiva di Ayouni. Era la prima volta che vedeva il filmato in cui suo marito Bassel Safadi è intervistato dalla giornalista della Bbc Jane Corbin. Alla domanda se si sentisse al sicuro, Bassel rispondeva: “Sono piuttosto al sicuro”. I due parlavano delle prove video e dei materiali che lui aveva contribuito a far uscire clandestinamente dalle zone sotto assedio, in particolare dalla città di Daraa, nel 2011. Bassel raccontava che cinque persone della sua rete erano state uccise e che “in Siria è più sicuro avere con sé una pistola che una telecamera”.

Meno di un anno dopo, e alla vigilia del suo matrimonio, Bassel fu arrestato dalle forze del governo siriano. Scomparve per otto mesi, prima di essere trasferito nella prigione civile di Adra, dove Noura poté incontrarlo. Decisero di sposarsi e diventarono famosi come “gli sposi della rivoluzione siriana”. Noura mi ha mostrato i suoi archivi personali e quelli di Bassel, che contengono momenti intimi della loro relazione, fugaci attimi della loro vita insieme. Il più toccante per me è il video di una conversazione tra loro e un amico. Seduti in un giardino, parlavano dei loro timori, ma anche delle speranze per il futuro della Siria. I loro occhi spalancati portavano tutto il peso di un futuro ignoto.

Bassel rimase in prigione per tre anni, dal 2012, e Noura riusciva a fargli visita regolarmente. Finché nell’ottobre del 2015 ricevette una telefonata. In preda al panico, Bassel le disse che una pattuglia gli aveva detto di raccogliere le sue cose perché lo avrebbero trasferito, ma non sapeva dove. È stata l’ultima volta che Noura ha avuto sue notizie. Due anni più tardi, dopo un’instancabile ricerca d’informazioni, Noura ha saputo dai militari russi in Siria che Bassel era stato ucciso pochi giorni dopo quella telefonata. Non ha ancora ricevuto la conferma di come e quando sia stato ucciso né di dove sia il suo cadavere. La burocrazia di stato le ha dato pochissime informazioni. Anche da morto Bassel è scomparso.

Avevo conosciuto Bassel in Siria nel 2010. Era un programmatore open-source, aveva creato i primi laboratori comuni in Siria, Aikilab e Creative Commons Syria, e lavorava con istituzioni del calibro di Wikipedia e Mozilla. Le sue competenze tecniche e le relazioni internazionali di cui godeva facevano di lui un fantastico intermediario.

A differenza di Paolo, una personalità pubblica, Bassel lavorava discretamente, dietro le quinte. Ciascuno a modo suo, Paolo e Bassel sostenevano la libertà di espressione, di coscienza e d’informazione. Entrambi hanno denunciato le atrocità del regime e sostenuto una rivoluzione pacifica.

Anche Noura era coinvolta nella rivoluzione. È un’avvocata dei diritti umani, che si occupa soprattutto dei prigionieri politici in Siria, in particolare di quelli fatti scomparire. A modo suo, come avvocata, tiene vivo lo spirito dell’opera di Bassel e di Paolo, e di tutte le persone che hanno dato il loro contributo a quella che speravano sarebbe diventata una società migliore. Noura sa bene cosa siano la dimensione individuale e quella collettiva. Mentre la filmavo, ho visto in che modo ha usato il suo dolore personale per portare avanti una lotta collettiva. È stata una delle fondatrici del movimento Families for freedom, guidato da donne siriane, che si batte per le persone detenute e vittime di sparizioni forzate in Siria, ed è noto per aver trasformato un autobus di Londra in un memoriale. Ha anche creato NoPhotoZone, un collettivo di attivisti non violenti, per sostenere le loro famiglie e sensibilizzare sul tema delle sparizioni forzate.

Alla ricerca dei detenuti siriani scomparsi nel nulla. Il video.


Paolo e Bassel sono solo due delle almeno centomila persone scomparse in Siria. Il regime siriano è ancora in piedi, anche se indebolito da anni di guerra, da un’economia in ginocchio e, più di recente, dalla pandemia. In questo contesto, che significa per il futuro della Siria questo modo di mettere a tacere le voci dei siriani? In che modo sarà possibile ottenere giustizia e stabilire le responsabilità?

Il punto d’avvio del mio film sono le storie di Paolo e Bassel. Quando ho cominciato a girare non sapevo dove mi avrebbe portato tutto questo. Filmavo e facevo ricerche nello stesso momento. Ho incontrato molte persone. Ho deciso d’includere Noura e Machi nel film perché mi sono resa conto che non si possono capire le sparizioni forzate solo attraverso le vittime dirette, ma bisogna considerare anche il punto di vista delle loro famiglie e degli amici.

Uno spazio di condivisione
Quando ho cominciato a girare Ayouni non sapevo ancora che il film non avrebbe parlato solo di responsabilità, giustizia e sparizioni, ma anche, e soprattutto, di amore – amore per la Siria, per la giustizia, per i propri fratelli, per i propri compagni, per il futuro – e della speranza a cui le famiglie si aggrappano. Il film è diventato un importante documento di memoria per entrambe le famiglie, uno spazio in cui Noura e Machi possono ricordare e condividere esperienze e memorie con gli altri, un’opportunità di sentire il loro dolore e il loro amore, e di rivivere alcuni momenti con Paolo e Bassel.

Ayouni significa “i miei occhi” in arabo, ma è anche un vezzeggiativo per dire “amore mio”. Le sparizioni forzate sono il contrario dell’amore. Sono una tattica che mira a lacerare le famiglie, a far tacere chi scompare e le persone a loro vicine, a cancellare le narrazioni che non rientrano nella struttura di potere dominante. Come regista, ho scoperto che i film hanno un ruolo. I film possono combattere l’oblio che è l’obiettivo delle sparizioni forzate, mantenendo le persone visibili e sotto i nostri occhi.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Il film Ayouni è disponibile su ayounifilm.com

Questo articolo è stato pubblicato dalla rivista online Newlines.

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