11 dicembre 2013 15:31

(Twentieth Century Fox Home/Outnow)

La serie tv Homeland, thriller geopolitico psicologico sentimentale ispirato alla serie israeliana Hatufim, è arrivata alla fine della terza stagione. Manca l’ultima puntata, la dodicesima, che sarà trasmessa negli Stati Uniti il 15 dicembre.

Occhio: qui comincia il megaspoiler. Se invece avete visto l’undicesima puntata, Big man in Teheran, andate avanti.

Big man è Nicholas Brody. La puntata si conclude con lui che telefona a Carrie Mathison, il suo angelo custode a Teheran, la donna della sua vita, la futura madre di suo figlio (forse), e le chiede di tirarlo fuori da una situazione complicata: ha appena ucciso Darnish Akbari, capo dei guardiani della rivoluzione, e deve uscire dalla stanza, dal paese, senza dare nell’occhio. Ha ucciso Akbari con un posacenere e un cuscino nel suo ufficio nel quartier generale dell’organizzazione.

Pochi minuti prima Brody era riuscito a seminare i due agenti del mossad che volevano ucciderlo per conto della Cia. Saul Berenson, l’astuto, riflessivo ma spietato quando serve capo dell’intelligence statunitense, mangiatore compulsivo di chewing gum della fortuna, temeva che Brody potesse passare dalla parte del nemico, di nuovo – l’aveva già fatto all’inizio della serie, ai tempi di Abu Nazir –, consegnare informazioni riservate all’Iran e far saltare la copertura di Majid Javadi, il cavallo di troia della Cia per prendere il controllo della guardia rivoluzionaria e rovesciare il regime iraniano.

I minuti successivi sembrano confermare quest’ipotesi, poi invece si capisce che le cose stanno diversamente. Brody non ha nessuna intenzione di unirsi al nemico. Anzi: ha avuto un’idea geniale che gli permette in un colpo solo di mettersi al sicuro dal mossad e di procurarsi un incontro con Akbari. E, una volta soli, di ucciderlo. L’ex marine si rivolge a Nassrin Mughrabi, la vedova Abu Nazir, il leader di Al Qaeda ucciso nella seconda stagione. Le spiega che deve assolutamente vedere Akbari per dirgli la verità su Javadi. Lei ci casca, credendo alla buona fede dell’ex pupillo del compianto marito, e mette una buona parola per facilitare l’incontro. Akbari, presentato fino a quel momento come un politico scaltro, prudente e inavvicinabile, ci casca anche lui. E dopo cinque minuti (contati) il cadavere di uno dei tre uomini più potenti dell’Iran giace a terra con la testa in una pozza di sangue e un cuscino verde sul volto. Poi c’è la telefonata di Brody a Carrie. Anzi, prima ancora c’è Brody che rimette al suo posto il posacenere, integro e immacolato.

C’era una volta Carrie In questa sequenza ci sono molti dei difetti della terza stagione di Homeland. Forzature nella trama: gli iraniani dovrebbero conoscere la verità sull’attentato a Lagley visto che, per quanto ne sappiamo, sono stati loro, insieme ad Al Qaeda, a mettere la bomba. Quindi com’è possibile che si bevano la balla di Brody?

La costruzione minuziosa della storia e dei personaggi che c’era nella prima e (in parte) nella seconda stagione è scomparsa, sostituita da improvvise e poco credibili accelerazioni nel racconto che rendono tutto molto più semplicistico e molto meno appassionante. Pensate a Brody: dimenticato per due terzi della serie, nel giro di meno di due episodi smette di strisciare in un buco di uno slum di Caracas e supera la dipendenza dall’eroina per diventare la punta di diamante della strategia d’intelligence degli Stati Uniti.

O a Javadi, nemico pubblico numero uno fino a quando si fa incastrare da Carrie, si consegna alla Cia, cede al ricatto di Saul e senza protestare più di tanto si convince a rovesciare il suo governo per conto dell’uomo che odia. Peraltro Javadi è il secondo, dopo Abu Nazir nella seconda stagione, che decide di entrare negli Stati Uniti pur sapendo di essere in cima alla lista dei cattivi da catturare e uccidere (bella mossa, Majid).

Poi ci sono i problemi dei personaggi. Carrie, che un tempo era da sola un motivo sufficiente per guardare la serie, è diventata quasi un personaggio secondario, intrappolata nel limbo nostalgico del suo amore per Brody. Peter Quinn, personaggio potenzialmente fortissimo, non è stato valorizzato. L’insopportabile senatore Lockhart spunta fuori quando meno te l’aspetti. Di Brody ho già detto. L’unico personaggio che ha fatto un salto di qualità è Saul: ha rotto le ultime barriere che gli impedivano di essere un uomo disposto a fare il male (letteralmente, visto il trattamento riservato a Carrie e il pugno a Javadi) per ottenere quello che crede sia giusto ed è stato il dominatore di quasi tutta la terza stagione.

Ma la cosa peggiore in assoluto è la costruzione semplicistica del contesto politico internazionale. Quel modo di prendere reti terroristiche, governi, partiti politici e buttarli nel calderone dei cattivi del mondo per tirare fuori un minestrone angosciante e un po’ retorico. Non è una novità della terza stagione, e senza dubbio contribuisce al fascino della serie. Ma nelle ultime puntate il minestrone è diventato molto meno digeribile.

È vero soprattutto nel caso del rapporto tra Iran e Al Qaeda, su cui gli sceneggiatori hanno fatto un’equazione semplice e facilmente assimilabile dal pubblico occidentale: nemico islamico x nemico islamico = minaccia islamica al quadrato.

Per solidarietà verso il povero iraniano, presentato come un invasato disposto a sostenere anche il peggior macellaio basta che sia antiamericano – giù trovate la scena imbarazzante in cui Brody, l’attentatore di Langley, è acclamato in piazza (Big man, appunto) da una folla esultante – e per chiarirmi un po’ le idee sull’argomento, ho ritirato fuori un paio di articoli messi da parte tempo fa.

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Il primo è un pezzo di Jason Burke sul Guardian:

Quando il regime dei taliban è caduto, nel dicembre del 2001, molti estremisti che si trovavano nel paese fuggirono verso ovest ed entrarono in Iran. Molti di loro raggiunsero subito l’Iraq, dove organizzarono attentati contro l’esercito statunitense e, in seguito, contro le istituzioni del governo sciita. Altri, invece, compresi alcuni familiari di Osama bin Laden, sono rimasti in Iran. Alcuni di loro sono stati messi agli arresti domiciliari in complessi in varie regioni del paese. Secondo molti analisti, erano i guardiani della rivoluzione a farsi carico di loro. (…) Non è chiaro perché fossero detenuti. Forse come un’arma per negoziare con gli Stati Uniti. Magari come potenziali risorse. O come una polizza assicurativa per evitare attacchi da parte dei sunniti. (…) In ogni caso, niente indica che il governo iraniano abbia dei rapporti con Al Qaeda o con gruppi affiliati.

Un articolo dell’Ap spiega i motivi delle tensioni storiche tra il governo iraniano e Al Qaeda:

I rapporti sono sempre stati difficili. Innanzitutto per via del fatto che Al Qaeda è un’organizzazione composta quasi esclusivamente da musulmani sunniti. Le fazioni più radicali dell’organizzazione considerano i musulmani sciiti degli eretici, e pensano che le ambizioni regionali dell’Iran siano più pericolose della minaccia statunitense. Prima degli attacchi dell’11 settembre, Teheran si era schierata nettamente contro i taliban, anche più dei governi occidentali. (…) E prima che George W. Bush inserisse l’Iran tra i paesi dell’asse del male, nel 2002, l’Iran ha aiutato l’Onu a individuare almeno 225 sospetti membri di Al Qaeda. (…) Nel 2011, dopo l’uccisione di Bin Laden, è stato trovato un appunto (datato 2009) in cui si definisce “criminale” il governo di Teheran. Il documento è stato messo online lo scorso anno dal Centro per il terrorismo dell’esercito statunitense. È probabile, invece, che negli ultimi anni le istituzioni iraniane abbiano allentato i controlli sui militanti di Al Qaeda che si trovano nel paese.

Ecco invece cosa pensa la Cia, e il governo statunitense in generale, in un articolo del Washington Post:

“Pensiamo che il governo dell’Iran continui a permettere ai membri di Al Qaeda di spostarsi nel paese, all’interno di una rete che consente all’organizzazione terroristica di spostare soldi e combattenti per sostenere le attività terroristica nell’Asia meridionale”, afferma David Cohen, un funzionario del tesoro americano. (…) Allo stesso tempo, l’espulsione di alcuni esponenti di primo piano di Al Qaeda che si trovavano in Iran conferma, secondo i funzionari statunitensi, che i rapporti tra Teheran e la rete terroristica stanno peggiorando. Anche a causa del conflitto in Siria, dove sostengono gruppi in guerra tra di loro. “È una relazione di convenienza con alcuni momenti di scontro aspro”, secondo Bruce Riedel, ex agente della Cia e consigliere di Barack Obama sul terrorismo.

Si possono fare considerazioni simili riguardo al modo in cui Homeland parla del rapporto tra Al Qaeda ed Hezbollah.

In ogni serie di successo ci sono forzature nella trama e colpi di scena immaginifici. E la semplificazione della realtà è indispensabile per creare interesse e far appassionare gli spettatori, soprattutto nei thriller politici (pensate ad Argo di Ben Affleck). Ma ci sono pure dei paletti che segnano il confine tra una serie credibile e un minestrone retorico. Quelli di Homeland ultimamente sono andati parecchio oltre.

Alessio Marchionna lavora a Internazionale dal 2009. Editor delle pagine delle inchieste, dei ritratti e dell’oroscopo. È su twitter: @alessiomarchio

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