06 maggio 2015 17:13

Tra tutti gli analisti, russi e non solo, che si occupano di Russia e di equilibri strategici nello spazio eurasiatico, Fëdor Lukianov è uno dei pochi capaci di rimanere indipendenti e di conservare uno sguardo critico sul Cremlino pur cercando di comprendere le ragioni e gli interessi di Mosca.

In una fase di contrapposizioni ideologiche sempre più nette e con la propaganda che spesso si maschera da informazione, non è cosa da poco.

Direttore della rivista Russia in Global Affairs, in uno dei suoi ultimi articoli Lukianov ha scritto che “i fatti del 2014-2015 sono l’atto finale di un dramma cominciato negli anni ottanta e novanta” e che “l’annessione della Crimea segna il tramonto definitivo dello stato sovietico”. Per cercare di capire cosa sta succedendo in Russia e come la crisi ucraina cambierà l’assetto del mondo ex sovietico partiamo proprio da qui.

Alla luce degli eventi dell’ultimo quarto di secolo, il conflitto con Kiev e le tensioni tra Mosca e l’occidente erano davvero inevitabili?
Bisogna capire cosa vuol dire inevitabile. Quello che è successo è diventato inevitabile dopo il collasso del modello statale ucraino. Un evento che ha fatto tornare di attualità un tema rimasto congelato dai tempi della fine dell’Unione Sovietica, dal 1991, quando i leader sovietici decisero di non discutere le questioni territoriali tra le diverse repubbliche, e in particolare quella della Crimea, che aveva fatto parte della Repubblica sovietica russa fino al 1954, quando diventò parte della Repubblica sovietica ucraina.

In un certo senso, il modello su cui si è retto lo stato ucraino tra il 1991 e il 2014 era il risultato di un compromesso che conservava l’assetto stabilito ai tempi dell’Unione Sovietica. Secondo questo patto non scritto, Mosca non era autorizzata ad avanzare rivendicazioni nei confronti di Kiev, che in cambio era tenuta – de facto, certo non de jure – a non avvicinarsi ulteriormente all’occidente e a rimanere sospesa tra i due sistemi. La rivoluzione di Maidan, o colpo di stato, a seconda del punto di vista, ha fatto saltare questi equilibri.

La nuova leadership ucraina ha fatto capire esplicitamente che Kiev avrebbe seguito la strada degli altri paesi ex comunisti dell’Europa orientale, e questo ha reso obsoleta quell’intesa informale su cui si era basato il rapporto con Mosca. Per questo, subito dopo la deposizione del presidente ucraino Viktor Janukovič, Vladimir Putin ha sollevato la questione della Crimea, descritta come una parte integrante della Russia. Da quel momento in poi, temo di potere dire che quello che è successo era in effetti inevitabile, soprattutto per la Crimea, certamente in misura minore per quanto riguarda l’Ucraina orientale. L’annessione della Crimea è stata deliberatamente cercata dal Cremlino. Invece, la situazione nel Donbass è il risultato di una concatenazione non pianificata di eventi e circostanze diversi, che una volta messi in moto è molto difficile fermare. Bisogna anche considerare che in quella regione la situazione è in gran parte dipendente da dinamiche interne e non da decisione esterne”.

Questo sembra implicare che il movimento di Euromaidan abbia avuto conseguenze politiche e sociali molto più profonde della rivoluzione arancione del 2004, che già aveva avvicinato l’Ucraina all’occidente, mettendo in discussione i rapporti con Mosca. È davvero così?
Certo, in fondo la mobilitazione del 2004 si concluse con una transizione di potere pacifica. E, anche se fu inizialmente ritenuta illegittima da Mosca, alla fine la ripetizione del ballottaggio delle elezioni presidenziali, da cui uscì vincitore il filoccidentale Viktor Juščenko, fu accettata da tutti. Subito dopo si capì che non sarebbe cambiato un granché. Nel caso di Maidan l’esito è stato brutale e violento, è stato versato molto sangue. E il livello di odio e tensione raggiunto nel paese ha dimostrato chiaramente che i nuovi cambiamenti non sarebbero stati così superficiali, e in fondo reversibili, come quelli di undici anni fa.

Il 16 aprile si è tenuta a Mosca la tradizionale conferenza stampa in cui Vladimir Putin risponde alle domande dei cittadini in diretta tv. Quest’anno i temi principali sono stati l’economia e i problemi interni, a differenza del 2014, quando a dominare fu l’annessione della Crimea. Eppure Putin non ha fatto mancare un attacco agli Stati Uniti, accusati di svolgere un ruolo negativo sullo scacchiere mondiale. Il discorso di Putin va interpretato come un segnale di apertura o come un passo indietro?
Forse non è un passo in nessuna direzione. Sono rimasto molto sorpreso dai toni concilianti ed equilibrati usati dal presidente. Sì, certo, ha fatto alcune critiche a Washington, ma soprattutto è interessante il paragone che ha fatto tra il tentativo degli Stati Uniti di imporre il loro modello in tutto il mondo e l’imposizione del comunismo ai paesi dell’Europa orientale da parte dell’Unione Sovietica dopo la seconda guerra mondiale.

Putin li ha giudicati entrambi fenomeni negativi e dannosi. Nella Russia attuale questa è una dichiarazione insolita. Ma più in generale è stato molto moderato e ha evitato di alzare i toni contro l’occidente, gli Stati Uniti, l’Europa, l’Ucraina. Paragonato ad altri discorsi precedenti, questo è stato molto conciliante. I moderatori e i giornalisti hanno provato a provocarlo sulla questione ucraina, ma questa volta Putin non si è lasciato andare a dichiarazioni aggressive. E non perché abbia cambiato idea, è solo arrivato alla conclusione che ora non serve un’escalation ma un accordo di pace.

Quali saranno le conseguenze del conflitto ucraino sul lungo periodo? Quello che è successo affonderà ogni possibilità di creare un comune spazio politico ed economico eurasiatico che sia basato sulla partecipazione volontaria dei singoli paesi e non sulle imposizioni di Mosca?
L’esito di questa crisi sarà inatteso e singolare. Tanto la Russia quanto l’Unione europea hanno dimostrato di non essere in grado di costruire nulla di costruttivo, come dimostra il recente scontro sull’Ucraina, che ha avuto l’unica conseguenza di mettere in ginocchio il paese. Oggi Kiev non può essere un trofeo né per l’Europa né per Mosca.

In questa cornice, la nazione che sta emergendo come una forza nuova, in nessun modo responsabile per tutti questi problemi, è la Cina. Il progetto di Pechino di costruire una nuova via della seta che colleghi l’estremo oriente all’Europa nasce da una prospettiva radicalmente diversa da quelle di Mosca e dell’Unione europea. La Cina non è interessata alla competizione politica o a creare sfere di influenza, vuole esclusivamente investire i suoi soldi all’estero, in Asia centrale, nel Caucaso, nei Balcani, e perché no, anche in Ucraina.

È una novità enorme, perché significa che tra dieci anni i cinesi saranno ovunque lungo questa nuova direttrice commerciale. E improvvisamente la Russia e l’Europa scopriranno che la Cina è tra loro, che non è più solo in estremo oriente. Questo cambierà profondamente i loro progetti per lo spazio eurasiatico, soprattutto quelli dell’Unione europea, che sembra molto confusa sulle sue strategie future. Alla fine, quindi, il paese che è uscito vincitore da questa crisi è la Cina, come in fondo era successo anche alla fine della guerra fredda.

In questo frangente la Russia è in una fase d’isolamento, volontario e imposto dai paesi occidentali. Per quanto tempo sarà sostenibile questa situazione, anche sotto il profilo economico?
In realtà è un isolamento che vale solo per una parte del mondo. È vero, l’occidente sta cercando di punire la Russia marginalizzandola, e nel paese oggi esiste una certa tendenza ad autoisolarsi.

Questo, però, non vale per tutto il pianeta, che è molto più vasto del solo occidente. Certo, ci sono tecnologie e servizi che la Russia può ottenere solo dai paesi occidentali. Ma in questa fase Mosca cercherà di intensificare i rapporti con gli stati non occidentali. Credo che queste novità siano il primo passo di un profondo riassestamento che in futuro riguarderà l’intero spazio eurasiatico e che porterà la Russia a spostarsi decisamente verso oriente. È un cammino che il paese aveva già deciso di intraprendere a prescindere dalle tensioni con l’occidente, ma che è stato certamente accelerato dalle conseguenze del conflitto in Ucraina.

Nei prossimi anni la tradizionale tendenza della Russia a guardare verso ovest declinerà gradualmente: nel ventunesimo secolo un paese che ha i tre quarti del suo territorio in Asia semplicemente non può permettersi di non essere orientato verso l’Asia.

Ma questo spostamento verso est non rischia di essere un freno alla nascita in Russia di un sistema più aperto e democratico?
Certo, e con questo? Prima o poi si porrà la questione della democrazia, ma non subito. E succederà anche in Cina, prima o poi. Chi si preoccupa principalmente di questo aspetto ha un modo di vedere le cose che riflette le aspettative e le analisi degli anni novanta, quando tutti immaginavano che la Russia avrebbe preso la stessa strada degli altri paesi ex comunisti dell’Europa centrorientale. Sarebbe stato bello, certo. Ma non ha funzionato.

In questo momento per la Russia creare uno stato che sappia garantire sviluppo e crescita economica è più importante di tutto il resto, come dimostra anche l’altissimo gradimento di cui gode il presidente Putin. Ovviamente non sarà per sempre così, non sarà questo l’approdo definitivo del paese. Ma sono convinto che l’europeizzazione dalla Russia, com’era stata concepita negli anni novanta, e i progetti di partnership strategica con l’occidente saranno quantomeno rimandati per un periodo piuttosto lungo.

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