03 ottobre 2023 10:59

È successo alla fine di febbraio, poco dopo il naufragio di Cutro. Quello avvenuto a cinquanta metri dalla spiaggia calabrese in cui sono morte 94 persone. Un collega e un amico mi ha mandato un messaggio, dopo aver visto un articolo che avevo scritto sul naufragio. Il messaggio diceva così: “Non riesco più a leggere queste storie, lo faccio con una fatica enorme. Ma grazie naturalmente”.

Questo messaggio scritto con grazia da una persona molto sensibile, uno che in questi anni ha seguito con attenzione quello che stava avvenendo nel nostro mare e alle nostre frontiere mi ha stupito, mi ha suscitato un po’ di disappunto, poi ha fatto nascere in me una rabbia che non si è spenta per molto tempo.

Quel “grazie” soprattutto, m’interrogava. Lo trovavo una specie di delega in bianco, ma anche un elemento di distanza insanabile. Ero ancora scossa dall’immagine di quelle decine di bare, una accanto all’altra, nel palasport di Crotone, quell’immagine che ne ricordava una simile di dieci anni prima, quella dell’hangar dell’aeroporto di Lampedusa in cui erano stati allineati i feretri delle 368 persone morte nel naufragio del 3 ottobre del 2013.

Per me, ma non solo per me, era un inquietante déjà vu. La sintesi più brutale anche di una sconfitta. All’epoca avevamo detto e promesso, con molta retorica: “Mai più”. Poi, dieci anni dopo, le cose erano andate esattamente nella stessa maniera, con più cinismo addirittura. Infatti, secondo quanto è stato fin qui ricostruito, l’imbarcazione naufragata a Cutro è stata avvistata da un aereo di Frontex molte ore prima dell’incidente, ma nonostante il maltempo, non è stata soccorsa.

Secondo le Nazioni Unite, nel Mediterraneo 28mila persone hanno perso la vita provando ad attraversare il mare da quel 2013. Al momento non c’è un sistema di soccorso europeo pronto a intervenire e a soccorrere.

Di Cutro mi rimaneva nella testa anche un suono che m’impediva di accettare con serenità quel “grazie”: le urla strazianti di una donna piegata su una di quelle bare, accovacciata sulla foto della sorella. Era arrivata in Calabria da Rotterdam, nei Paesi Bassi, per dare un nome a quella foto e riconoscere il volto della sorella tra quello dei morti. La defunta aveva un nome, aveva una famiglia.

Torpekai Amarkhel, 42 anni, giornalista e attivista per i diritti umani in Afghanistan. Morta a Steccato di Cutro il 26 febbraio, a pochi metri dalla terraferma. Veniva in Europa per raggiungere la sorella, salvarsi dalle persecuzioni dei taliban e inventarsi un altro destino.

Da quel momento una domanda non ha smesso di tormentarmi: perché questi morti non suscitano lo stesso scalpore o la stessa vergogna di altre morti in circostanze simili? Ci si può abituare al dolore degli altri? E quali meccanismi psicologici ci tengono distanti da quel dolore?

Settecentocinquanta persone stipate in un peschereccio si fa fatica perfino a immaginarle. Tra loro c’erano cento bambini

Le stesse domande si sono ripresentate a giugno, quando un peschereccio con 750 persone a bordo si è inabissato al largo di Pylos, in Grecia. Era partito dalla Libia. Settecentocinquanta persone stipate in un peschereccio si fa fatica perfino a immaginarle. Tra loro c’erano cento bambini.

Sappiamo delle loro richieste di aiuto dai volontari di Alarmphone che le hanno registrate. Sappiamo che le autorità greche ed europee li avevano avvistati, sapevano che erano in difficoltà, sappiamo anche che probabilmente una motovedetta della guardia costiera greca è intervenuta, lanciando loro delle corde.

Ma non per salvarli, anzi per spingerli ancora più lontani dalla costa. E questo potrebbe essere stato il motivo dell’incidente che ha portato il peschereccio a ribaltarsi e a inabissarsi in uno dei punti più profondi del Mediterraneo.

La criminalizzazione della vittima

Tuttavia, il meccanismo di comunicazione che è scattato da parte delle autorità è stato simile a quello di Cutro: lo potremmo definire un meccanismo di criminalizzazione della vittima.

Le autorità greche hanno addirittura accusato i migranti, le persone su quell’imbarcazione, di non voler essere salvate. Hanno detto che stavano andando in direzione dell’Italia e che hanno rifiutato i soccorsi, ma le loro ricostruzioni sono poi state smentite dalle testimonianze dei sopravvissuti e da molte altre evidenze.

Una conduttrice di un programma d’informazione su una tv greca si è lamentata che tutte le ambulanze del Peloponneso stessero accorrendo a Kalamata per soccorrere un centinaio di sopravvissuti del naufragio. “Stiamo lasciando i greci senza ambulanze”, ha detto.

I morti se la sono andata a cercare. E i vivi devono scontare la colpa di essere sopravvissuti. Era successo anche in Italia, dopo Cutro. “Non dovevano partire”, aveva detto il ministro dell’interno Matteo Piantedosi, subito dopo la strage.

Ma come siamo arrivati fin qui? Perché il naufragio di Pylos, forse il più tragico del Mediterraneo nella storia recente, non ha guadagnato neanche una prima pagina di giornale? Come possiamo accettare questa attenzione ondivaga?

È come se il massimo della compassione, invece di produrre cambiamento o anche solo riflessione, induca alla presa di distanza, perfino all’insofferenza verso le vittime che con il loro dolore ci riportano a una dimensione di mortalità e di disuguaglianza.

Le risposte che mi sono data nel corso di questi anni sono almeno tre. La prima riguarda il processo di disumanizzazione in corso da molti anni verso i migranti, la seconda il tempo eccezionale che abbiamo vissuto e il suo carattere regressivo – tra crisi ambientali, guerre e pandemie – e infine ci sono i limiti del nostro sistema informativo, l’insufficienza e addirittura l’impotenza del linguaggio davanti al mondo nuovo (che è già qui) e che è rappresentato soprattutto con immagini scioccanti e veloci, che producono il contrario di quello che era nelle intenzioni di chi le ha scattate o condivise.

La disumanizzazione

L’immigrazione è stato il tema più strumentalizzato dalla politica negli ultimi decenni. Ma d’immigrazione nello spazio pubblico continuano a parlare soprattutto i politici per guadagnare consenso.

Da decenni discutiamo d’immigrazione senza lasciare la parola ai protagonisti del viaggio, di solito purtroppo non parlano neanche gli esperti della materia, che sono molti e molto preparati. Le politiche migratorie non sono quasi mai fondate sulla realtà e sul suo studio, ma piuttosto su proiezioni, ideologie, slogan, perfino su teorie del complotto.

Non è sempre stato così: è nel 2001 che per la prima volta l’immigrazione in Italia è stata al centro della campagna elettorale in Italia. Ne parla in maniera esaustiva lo storico Michele Colucci nel suo Storia dell’immigrazione straniera in Italia (Carocci 2018). Mentre aprivamo le frontiere interne tra stati europei, costruendo il sistema di Schengen, abbiamo cominciato a erigere muri visibili e invisibili per tenere fuori i non europei.

In quel momento abbiamo cominciato a elaborare lo spauracchio di queste “non-persone”, per usare una definizione del sociologo Alessandro Dal Lago nel suo libro Non persone. L’esclusione dei migranti in una società globale (Feltrinelli 2005). Li abbiamo chiamati “clandestini”, li abbiamo accusati di volerci rubare il lavoro, infine di essere un pericolo. Mentre gli attacchi terroristici si moltiplicavano in Europa dopo l’11 settembre 2001, abbiamo cominciato a sovrapporre il lessico della criminalità e della sicurezza a quello dell’immigrazione. Le non persone sono diventate specchi su cui proiettare le nostre paure più profonde.

A oggi è accertato che nessun terrorista sia arrivato in Europa su un barcone, ma la criminalizzazione degli stranieri e l’etnicizzazione dei reati ha contribuito a spostare l’asticella della disumanità.

Lampedusa, 5 ottobre 2013. Un mazzo di fiori per le vittime del naufragio. (Alberto Pizzoli, Afp)

L’ultima ondata di questa criminalizzazione è cominciata alla fine del 2016: siamo arrivati a sospettare non solo dei migranti, ma anche di chi li soccorre e li aiuta.

Nel giro di pochissimi anni i soccorritori, un tempo chiamati “angeli del mare” sono stati definiti “vicescafisti” e le loro imbarcazioni sono state definite “taxi del mare”. In un paese circondato dal mare e in cui la legge universale del soccorso è parte del senso comune, ci siamo divisi sull’opportunità di salvare delle persone. Che significa di fatto accettare di lasciarle morire.

Questo è servito a giustificare i respingimenti e gli accordi con gruppi armati e governi autoritari dall’altra parte del mare. Ma alla criminalizzazione di certa politica, spesso si è contrapposto un lessico e una cultura vittimizzante, altrettanto disumanizzante.

È l’idea che i migranti siano una massa informe, numeri, corpi che hanno bisogno di essere sfamati, assistiti, aiutati. Perfino la parola “migrante” è una categoria rigida, un ombrello che serve a distinguere e ad allontanare. È la rassicurante convinzione che gli stranieri siano solo le loro ferite, la loro vulnerabilità. L’attuale governo a un certo punto, lo scorso autunno, ha stabilito con un decreto che solo i “fragili” avessero il diritto di essere soccorsi ( decreto definito illegittimo e in seguito rimasto inapplicato).

Tutti gli altri, i sani, sono stati definiti “carico residuale”. Secondo il ministro dell’interno, i sani avrebbero dovuto essere respinti e riprendere il largo. Tutto il lessico che usiamo sull’immigrazione – quando non è securitario – viene dal mondo dell’assistenza o da quello umanitario dell’emergenza. E questo è un limite: ci ostiniamo a vedere le persone solo sotto la luce della loro vulnerabilità.

E anche questo è un modo per considerarli inferiori, esseri umani di serie B. E non invece persone con dei desideri, una volontà, dei progetti, perfino delle contraddizioni.

Ci permettiamo per esempio di non distinguere i paesi di provenienza di chi arriva sulle nostre coste e questo atteggiamento va di pari passo con la nostra ignoranza delle disuguaglianze tra i diversi paesi e della storia del colonialismo, e cioè dei rapporti storici di dominio del nostro continente rispetto agli altri.

Ignoriamo infine le comunità di stranieri residenti e i loro figli, che già sono di fatto naturalizzati, ma senza diritti. Più di un milione di bambini nati in Italia da genitori stranieri non ha accesso alla cittadinanza, con tutto quello che significa, a causa di una legge molto vecchia, che è stata scritta nel 1992.

Come ha spiegato l’antropologo iraniano Shahram Khosravi nel suo libro Io sono confine (Elèuthera 2019) “con le tecniche di frontiera finalizzate all’immobilità e al confinamento, esiste un secondo meccanismo di controllo della società che opera attraverso una continua mobilità forzata. Le persone sono costrette a un andirivieni infinito, non solo tra paesi, legislazioni, istituzioni, ma anche tra campi di accoglienza e campi di espulsione, tra richieste di asilo e ricorsi contro le deportazioni, tra riconoscimenti provvisori e ritorno alla clandestinità, tra un periodo di attesa e l’altro. È una circolarità perpetua in cui si vive in uno stato di ‘non arrivo’, di radicale precarietà, o per usare un espressione dello psichiatra Frantz Fanon, di ‘ritardo’”.

Quelle vite non desiderabili servono a sentirsi al sicuro, in un momento in cui nulla è sicuro e anzi tutto sembra essere arrivato a un punto di crisi, anche per i privilegiatissimi europei, tra pandemia, guerra e crisi climatica.

L’assuefazione

È proprio l’avvento quasi in contemporanea di tutte queste crisi ad avere prodotto questo senso di stanchezza, quasi di apatia verso quello che accade nel mondo e nello specifico una specie di insofferenza verso il dolore degli altri. È come se si fossero aperte delle ferite, che ci hanno rimesso in contatto con la mortalità e con il limite, liberando energie oscure che non ci siamo dati il tempo, né gli strumenti, di elaborare, sia come singoli sia come collettività.

“Catastrofe” è una parola che viene dal greco, significa rivolgimento, rovesciamento, viene dal verbo “capovolgere”. Nella tragedia greca indicava un esito imprevisto e nefasto, che concludeva la vicenda dell’eroe: la catastrofe è la fine del tempo dell’eroe. Nella matematica, la catastrofe è la fine di un determinato sistema.

È l’avvento rapido e inaspettato di un evento che sconvolge l’intero paradigma. Uno dei primi effetti che la catastrofe ha sugli esseri umani è la paralisi del pensiero e dell’articolazione del linguaggio: è una sospensione che può durare poco o tanto, in cui di solito emerge qualcosa che viene da sotto, che viene dal passato, il rimosso, quello che pensavamo fosse superato. È per questo che spesso le catastrofi sono seguite dal ritorno a paradigmi sociali e politici più arcaici, più conservatori.

“Ne usciremo migliori?”, ci chiedevamo nei primi giorni della pandemia di covid-19 nel marzo 2020. C’era una speranza diffusa e malriposta che la catastrofe fosse una specie di rivoluzione, come se la natura potesse fare delle battaglie per noi e cioè potesse distruggere i rapporti di forza tra oppressori e oppressi, lasciando spazio a modelli di vita e lavoro più giusti.

Ma ovviamente non è andata così. Anzi come spesso è successo nella storia la catastrofe è stata una porta da cui si è affacciato il passato ed è venuto a fare i conti con il presente, facendo cadere le conquiste più recenti e riportando alla luce vecchi modelli ancora più ingiusti. Le crisi di solito aprono dei vuoti di potere, per un attimo intravediamo la possibilità che quei vuoti siano riempiti da modelli di organizzazione sociale più avanzati, invece di solito per ragioni che hanno a che fare con la paura e con la risposta individuale e collettiva al trauma quei vuoti sono riempiti con modelli più antichi.

Per raccontare la catastrofe quindi chi scrive deve fare innanzi tutto uno sforzo di umiltà, perché la sensazione è che il linguaggio non basti, non sia adeguato.

Dobbiamo riconoscere che stiamo vivendo un’epoca che difficilmente potrà essere rappresentata con parole esatte e dobbiamo tenere dentro al linguaggio l’esperienza dell’incertezza e dello spaesamento. Si tratta cioè di usare parole scelte con cura e allo stesso tempo che non normalizzino, non banalizzino quello che ci è accaduto. Parole che siano all’altezza della condizione eccezionale nella quale ci troviamo, che tengano l’incertezza nella rete della lingua, senza escluderla, rimuoverla o addomesticarla. Sapere dire: “So quello che è successo fino a qui, ma non so un’altra serie di cose”.

Das unheimliche (Il perturbante) è un saggio che Sigmund Freud scrisse nel 1919, all’indomani della prima guerra mondiale e della pandemia di spagnola, che gli portò via la figlia Sophie. In questo saggio Freud analizza il concetto di perturbante, qualcosa che all’improvviso emerge dalla normalità e inquieta. Questi elementi, a guardare bene, sono le facce che assume la realtà più quotidiana in circostanze catastrofiche e tutte hanno a che fare con una normalità che si altera: in un rivolgimento catastrofico ci sarà una maggiore confusione tra immaginazione e realtà, una presenza maggiore di coincidenze e déjà-vu, una ricerca di rispecchiamento maggiore del sé nell’altro, una presenza diffusa della morte, dell’inanimato nel vivente.

Per questo durante e dopo una catastrofe le parole devono essere più vicine al parlato e allo stesso tempo più vicine alla verità. Nel 1949 il filosofo Theodor Adorno disse che scrivere una poesia dopo Auschwitz era un atto di barbarie. Nel suo piccolo saggio Una battaglia persa (Adelphi 2022) la giornalista bielorussa Svetlana Aleksievič riprende quelle parole di Adorno e dice che in una catastrofe “inventare non si può, la verità va offerta tale e quale, a parlare devono essere i testimoni”.

Spiega Aleksievič: “Mi ha sempre tormentato che non bastino un solo cuore, una sola mente per tutta la verità. Che sia in un certo senso sgretolata la verità, che ce ne siano molte, diverse, sparse nel mondo. In Dostoevskij troviamo l’idea che di sé l’umanità sappia di più, molto di più di quanto sia riuscita a mettere nero su bianco con la letteratura. Che cosa faccio io? Io raccolgo la quotidianità dei sentimenti, dei pensieri, delle parole. Raccolgo la vita del mio tempo”.

Aleksievič c’insegna che nella catastrofe, da Černobyl alla seconda guerra mondiale raccontata nel suo La guerra non ha un volto di donna (Bompiani 2017), l’unica cosa che si può fare è far parlare i testimoni. “Ciò che ci è accaduto o sta ancora accadendo non è ancora stato metabolizzato e deve trovare una voce, deve almeno trovare una voce per cominciare”, scrive Aleksievič. Gustave Flaubert diceva di sé di essere “un uomo-penna”, “io sono una donna-orecchio”, scrive Aleksievič.

Dallo shock al cliché

Il rischio tuttavia è che il registro emotivo prenda il sopravvento e confonda l’originalità di ogni esperienza individuale. E così voglio mettervi in guardia da un ultimo problema: quello dell’emotività di fronte al dolore degli altri.

Al male, infatti, non siamo pronti a credere, soprattutto a quello estremo. È come se il male fosse qualcosa da cui ci difendiamo con ogni mezzo: ignorandolo, sminuendolo, rimuovendolo. D’altro canto dalle immagini che mostrano il dolore degli altri, soprattutto il dolore che è provocato da una violenza intenzionale, siamo attratti. Le rappresentazioni di questo dolore ci allarmano, ci allertano, pretendiamo anche che ci spieghino quello che sta succedendo, o che almeno siano una prova contro il carnefice e che ci aiutino a consegnarlo alla giustizia.

Le immagini della violenza della frontiera, delle torture nei centri di detenzione libici, soprattutto per chi è distante, sono la frontiera stessa.

Ci sono decine di violenze nel mondo a cui non va un briciolo della nostra attenzione: in parte questo succede perché non ci sono immagini o racconti a trasmettercele, allo stesso tempo dipende dal fatto che pensiamo che non ci riguardino, che non ci coinvolgano. L’arrivo in Europa di un milione di profughi dalla rotta balcanica nel 2015 ha provocato un’attenzione e un’empatia senza precedenti. Refugees welcome (Benvenuti rifugiati), avevano scritto sui cartelli e sulle magliette le decine di cittadini europei che andavano alla frontiera ad accogliere i profughi siriani, afgani e iracheni che arrivavano a Lesbo, a Idomeni, a Belgrado.

Tuttavia, anche quella volta, com’è successo in altre crisi, il ciclo dell’empatia è stato abbastanza breve e, nel giro di pochi mesi, si è passati da una reazione incredula a una scioccata, poi sospettosa, infine indifferente. Con la foto del bambino curdo Alan Kurdi, morto sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, l’opinione pubblica mondiale ha raggiunto il massimo dell’indignazione, a cui è seguito un calo dell’interesse.

Il momento in cui l’attenzione è stata massima è stato anche quello di maggiore diffusione delle teorie complottiste sui finti profughi, sul business dell’accoglienza, sul pull factor o fattore di attrazione, sulla sostituzione etnica.

C’è un ciclo dei sentimenti (stupore, apprensione, paura, empatia, indignazione, rabbia, frustrazione, sospetto, disinteresse) che chiunque si è occupato di raccontare l’attualità ha riscontrato, sia rispetto alla pandemia sia rispetto alla guerra, sia rispetto alla crisi migratoria, a mano a mano che il tempo passava e le crisi si prolungavano, cronicizzandosi. Probabilmente il passaggio dall’indignazione all’indifferenza ha in parte a che fare con il dolore degli altri e con la sua rappresentazione.

Già Susan Sontag nel suo impareggiabile saggio Davanti al dolore degli altri (Nottetempo 2021) rifletteva sulla natura ambigua delle immagini durante una crisi: “Si possono fare molti usi delle innumerevoli opportunità che la vita moderna fornisce per guardare, a distanza e attraverso il mezzo fotografico, il dolore degli altri. Le fotografie di un’atrocità possono suscitare reazioni opposte. Appelli per la pace. Proclami di vendetta”. Mostrare le immagini anche estreme della violenza e della distruzione non serve a fermare le atrocità e le ingiustizie, né a renderle insopportabili: questa è la consapevolezza da cui la saggista statunitense prende l’avvio nella sua riflessione, per invitarci poi a pensare al legame che c’è nel nostro mondo tra “l’immagine come shock” e “l’immagine come cliché”.

In un ambiente informativo dominato dalle immagini (e non dalle voci e non dalla parola) la fotografia (vera) delle atrocità rischia di trasformarsi velocemente in un già visto (magari nella finzione di un film o di una serie), in un cliché che può rapidamente essere archiviato nel cassetto di una memoria sempre più insensibile e anestetizzata.

Tra l’altro i social network come mezzo principale di fruizione di quelle foto hanno estremizzato la rapidità del passaggio dallo shock all’indifferenza, che pure c’era anche in altri mezzi come i giornali o la tv. Non avendo nessuna gerarchia delle notizie e dando spazio a pochissimo testo e contesto, i social network spesso confondono foto vere con fotomontaggi, foto decontestualizzate, immagini vecchie spacciate come nuove. In generale premiano quelle che colpiscono l’emotività.

Da sempre, avverte Susan Sontag, le immagini “che forniscono una prova in grado di contraddire le nostre più sacre certezze vengono invariabilmente liquidate come una messinscena a beneficio della macchina fotografica. La reazione tipica dinanzi alla conferma fotografica delle atrocità commesse dal proprio schieramento consiste nel sostenere che le immagini sono una montatura”.

È così credo che siamo arrivati a parlare di finti profughi o addirittura in questi ultimi giorni di “finti minorenni”.

Davanti al dolore degli altri è importante che il racconto non si nutra di speranze o di proiezioni, parta dai testimoni, dia loro voce, li faccia parlare, tenga insieme i fatti e le cause, sia aperto a un’altra idea del tempo e soprattutto rimanga vicino alla realtà, alle molteplici verità che la realtà restituisce. Per tutti noi, il tentativo deve essere quello di andare verso la realtà, farsi viaggiatori.

Lo scrittore Alessandro Leogrande, autore del più bel libro sul naufragio del 3 ottobre del 2013, lo diceva così nel capitolo finale de La frontiera (Feltrinelli 2017):

“Alla base di ogni viaggio c’è un fondo oscuro, una zona d’ombra che raramente viene rivelata, neanche a se stessi. Un groviglio di pulsioni e ferite segrete che spesso rimangono tali. Ma capita altre volte che ci siano dei viaggiatori che ne hanno passate così tante da esserne saturi. Sono talmente appesantiti dalla violenza e dai traumi che hanno dovuto subire, talmente nauseati dall’odore della morte che hanno avvicinato, da non voler fare altro che parlarne. Allora, in quei momenti, hanno bisogno di incontrare un altro viaggiatore. Perché solo un altro viaggiatore può capire il peso delle parole che pronunceranno, solo un altro viaggiatore può indicargli la strada della leggerezza. Tutti gli altri restano sempre a qualche metro di distanza, sulla terraferma, incapaci di afferrare il senso di ciò che viene detto. Ho impiegato molto tempo per capirlo. Bisogna farsi viaggiatori per decifrare i motivi che hanno spinto tanti a partire e tanti altri ad andare incontro alla morte. Sedersi per terra intorno a un fuoco e ascoltare le storie di chi ha voglia di raccontarle, come hanno fatto altri viaggiatori fin dalla notte dei tempi. Ascoltare dalla voce di chi ha oltrepassato i confini come essi sono fatti. Come sono fatte le città e i fiumi, le muraglie e i loro guardiani, le carceri e i loro custodi, gli eserciti e i loro generali, i predoni e i loro covi. Come sono fatti i compagni di viaggio, e perché – a un certo punto – li si chiama compagni”.

Questo è il testo della lezione “Perché i naufraghi nel Mediterraneo non fanno più notizia?”, tenuta il 29 settembre 2023 durante Multi, il festival organizzato dal giornale online Lucy sulla cultura e da Slow food nell’ambito dell’Estate romana.

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