La creatività riguarda la mente, il pensare e l’intuire, ma non è una faccenda astratta e dematerializzata: è anche corpo, e uso e sapienza del corpo.
In questa prospettiva condivido con voi tre suggestioni visive che un recente giro nella Sicilia occidentale mi regala: tutte hanno a che fare con l’adoperare le mani con perizia e consapevolezza.
Cucinare. Entrare nella cucina di Marilù Terrasi è un privilegio. Guardarla preparare il cous cous “incocciato” a mano è come assistere a un’operazione alchemica.
La semola cruda e molita a pietra viene “incocciata”, cioè inumidita spruzzando poca acqua, e lavorata con gesti circolari: se il gesto non è giusto o il senso viene invertito, il processo si interrompe come capita con la maionese e i cocci, cioè i granelli di cous cous, si “scocciano”.
Quando i cocci sono formati – e devono essere uniformi (se non lo sono bisogna friculiarli, cioè sfregarli tra le mani) – sono conditi con olio, sale, cannella, cipolla, prezzemolo, profumati con alloro e bucce di limone, e disposti in una pentola di terracotta forata sul fondo. Questa viene impilata sopra una pentola d’acqua insaporita con erbe odorose e chiodi di garofano.
Le due pentole sono poi sigillate con un collare di acqua e farina impastata (cuddura) che tiene il vapore. Con gli avanzi di pasta si fanno dei nodini, che vengono messi a cuocere sopra il cous cous: una ghiottoneria, in passato riservata ai più piccoli, in attesa della cena.
Una volta cotto, il cous cous viene spostato in un altro recipiente di terraglia, la mafaradda, poi abbiviratu con brodo e sugo, infine lasciato riposare al calduccio, coperto da un plaid come se fosse un infante. L’intero processo dura diverse ore.
Guardando il video qui sotto vi basta poco più di un minuto per farvene un’idea: è la preparazione di un’intera cena a base di cous cous di pesce, carne, verdure. A conclusione, un inedito cous cous dolce.
Terrasi mi racconta che il cous cous, alimento-base dei berberi del Maghreb, si è diffuso in terre molto lontane tra loro: Sicilia, il sud della Sardegna, Liguria, alcune regioni francesi e spagnole. A esportarlo, nel seicento, sarebbero stati i pescatori di corallo che, provenendo da tutte quelle terre, si radunavano nell’isola di Tabarca.
Racconta anche quanto sia diverso il cous cous tradizionale da quello industriale precotto: niente sapienza delle mani, in quel caso, e solo due minuti per preparare qualcosa che presenta solo una pallidissima somiglianza con il piatto originale.
Riparare. La pesca dei tonni è stata per secoli un pilastro dell’economia trapanese. Ora non più: la pesca industriale intercetta i pesci ben prima che arrivino sotto costa e le tonnare sono state chiuse e abbandonate. Qualcuna è stata recuperata, come quella di Favignana: un bellissimo esempio di archeologia industriale ora trasformato in museo.
Ma i porti sono ancora pieni di pescherecci. Dunque non dovrei stupirmi più che tanto quando, nell’unico angolo ombroso che incontro in un pomeriggio assolato, trovo un gruppo di compìti signori intenti a riparare reti.
Chiedo se posso scattare una foto e, nel giro di un istante, l’intero gruppo si ritrova semicircondato da turisti in estasi, armati di macchine fotografiche. Forse l’idea ricorrente del riparare e conservare, e la fascinazione per la sapienza manuale non appartengono solo a me.
Giocare. Il battimani è un gioco da ragazze, ed è fatto di niente. Ci giocavo anch’io da bambina negli anni cinquanta, e immagino che l’abbiano giocato mia madre, mia nonna… ma non avevo mai visto l’intricata, incantevole variante giocata da Chiara e Caterina. Stiamo tutti fermi ad aspettare un traghetto e resto a guardarle. Poi chiedo se posso girare un video. Si mettono a ridere. “Speriamo di non sbagliare”, dicono.
Be’, non sbagliano un colpo.
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